Recensione di Marcello Messori, professore di Economia al Dipartimento di Scienze Politiche della Luiss
Parafrasando Milton Friedman, Franco Debenedetti sostiene che l’impresa capitalistica adempie al suo compito sociale e soddisfa i propri principi etici solo se persegue la massimizzazione del profitto. Di conseguenza il suo originale e articolato volume, Fare profitti. Etica dell’impresa (Marsilio: Venezia 2021), mira a provare la dominanza analitica e fattuale della cosiddetta shareholder value rispetto alla stakeholder value, ossia la dominanza del principio della massimizzazione del valore attuale per gli azionisti di ogni data impresa rispetto al principio della composizione fra i contrastanti interessi propri dell’eterogeneo insieme di quanti partecipano alla vita di quella stessa impresa.
La mia argomentazione – un po’ provocatoria – è che, in modo non intenzionale, l’analisi dell’autore finisca per provare la tesi esattamente opposta: l’incongruenza di optare per la shareholder value rispetto alla stakeholder value.
In apertura del primo capitolo della prima parte del volume, Debenedetti afferma: “la società assegna all’impresa il compito di produrre ricchezza; questa è […] la sua prima e sola responsabilità” (p. 25). Ritengo che nessun economista possa dissentire da un’affermazione del genere, date due condizioni. La prima è che sia corretto assimilare il concetto di ricchezza alla cumulata dei flussi di valore aggiunto o, se si preferisce, dei flussi di reddito netto derivanti dall’attività dell’apparato produttivo di un determinato sistema economico nel corso del tempo. La seconda condizione è che compito dell’impresa sia quello di utilizzare, in modi efficienti, le risorse produttive disponibili per creare reddito netto; ma che, così facendo, l’insieme delle imprese debba anche limitare la creazione di esternalità negative (per esempio, inquinamento) in quanto – a livello aggregato – tali esternalità si traducono in costi che riducono il reddito netto complessivo.
È essenziale notare che, letta nel senso appena specificato, l’affermazione di Debenedetti non ipoteca in alcun modo le quote di distribuzione del reddito netto fra i diversi aggregati sociali. Ciò dovrebbe, del resto, essere conforme con l’approccio analitico di Friedman (ossia, con l’approccio ortodosso). È ben noto che la microeconomia tradizionale si basa sul Primo teorema dell’economia del benessere e, in vigenza di alcune condizioni restrittive (in particolare, preferenze ben conformate degli agenti), sul Secondo teorema dell’economia del benessere. I due teoremi implicano, fra l’altro, che l’efficienza nell’allocazione delle risorse produttive non influenza e non viene influenzata dalla distribuzione del reddito netto fra i vari aggregati sociali. Di conseguenza, l’approccio ortodosso appare neutrale rispetto alla ripartizione del reddito netto e della ricchezza e, dunque, non giustifica alcuna discriminazione fra shareholder value e stakeholder value che attiene, appunto, alla sfera della distribuzione.
La macroeconomia classica di Lucas e Sargent ha dimostrato, fin dagli inizi degli anni Settanta del secolo scorso, che lo schema analitico di Friedman non è micro-fondato. Ciò contribuisce a spiegare perché lo stesso Friedman trascuri i due teoremi dell’economia del benessere e attribuisca all’impresa il compito di massimizzare una specifica quota distributiva, appunto il profitto, anziché il reddito netto. Seguendo Friedman, nei due primi capitoli del suo libro anche Debenedetti cade nella stessa impropria assimilazione. Pertanto, a dispetto del fatto che i due Teoremi dell’economia del benessere attestano l’irrilevanza della distribuzione del reddito netto per l’allocazione efficiente delle risorse produttive, egli ne inferisce che l’approccio ortodosso sancisce la dominanza dello shareholder value rispetto allo stakeholder value.
La conclusione raggiunta può essere criticata mediante due obiezioni. La prima obiezione è che la teoria ortodossa della distribuzione del reddito è strettamente collegata alla produzione mediante la teoria del valore. Quest’ultima assimila lavoro e capitale come fattori produttivi, provando che l’eguaglianza fra produttività marginale del capitale e profitto è compatibile con il principio della massimizzazione dello stesso profitto. Pertanto, ciò che non poteva essere provato con riferimento all’allocazione delle risorse produttive trova fondamento in termini di teoria marginalista della distribuzione del reddito.
La seconda obiezione consiste nel fatto che, massimizzando il proprio profitto, ogni impresa si assicura le condizioni ottimali per la riproduzione della sua attività e adempie così al suo compito in una prospettiva dinamica. Il problema è che nessuna di tali due obiezioni è analiticamente robusta. La prima si fonda su un concetto di capitale che, come è noto da molti anni nella teoria economica, dà luogo a insuperabili incoerenze logiche. La seconda rimanda a un’analisi dinamica che, come emerge anche dalle difficoltà di esaminare l’accumulazione del capitale nel modello tradizionale analiticamente più avanzato (il modello walrasiano), non trova fondamento nell’approccio ortodosso.
Anche se Franco Debenedetti non rende espliciti i problemi di analisi appena discussi, implicitamente riconosce i limiti dell’approccio ortodosso tanto da confrontarsi con una più recente e sofisticata teoria microeconomica non-walrasiana: la teoria dei contratti che interpreta le relazioni fra diversi aggregati sociali nei termini di rapporti di agenzia. Il rapporto è fra un ‘principale’, che di norma ha il potere di definire le condizioni contrattuali, e uno o più ‘agenti’, che di norma hanno vantaggi informativi o sfruttano l’incompletezza del contratto quando si tratta di soddisfare clausole stipulate. Nell’ottica del ragionamento fin qui svolto, il ricorso alla teoria dei contratti è dirimente rispetto alla tesi fondamentale del volume di Debenedetti. Quest’ultimo demanda, infatti, a tale teoria il compito di provare la dominanza dello shareholder value rispetto allo stakeholder value.
La conferma dell’ultima affermazione è data dal fatto che l’autore utilizza uno dei contributi seminali di questo filone teorico (il saggio del 1976 di Jensen e Meckling) come se rappresentasse il manifesto dello shareholder value. Il problema è che, anche in tale caso, l’autore cade in un’inferenza infondata. La ragione, che spiega il riferimento privilegiato di Jensen e Meckling (1976) alla massimizzazione del profitto di impresa, dipende dal loro esclusivo esame dei rapporti di agenzia fra azionisti e management.
In questi specifici rapporti l’obiettivo del ‘principale’, rappresentato dall’insieme degli azionisti, è di disegnare un contratto che minimizzi la possibile estrazione di benefici privati da parte degli ‘agenti’, rappresentati dal top management. Pertanto, il contratto efficiente deve massimizzare i profitti per il ‘principale’. Tuttavia, come sono pronti a riconoscere gli stessi Jensen e Meckling sulla scorta delle precedenti analisi di Williamson e di altri neo-istituzionalisti e come ricorda lo stesso Debenedetti, l’impresa va trattata come un insieme (un fascio) di contratti. Ciò significa che l’impresa è costituita da un insieme di diversi rapporti di agenzia.
Sotto il profilo analitico, ciò significa che il management di una data impresa, che funge da ‘agente’ nel rapporto con gli azionisti, diventa il ‘principale’ nelle relazioni contrattuali con gli agenti-lavoratori (come è mostrato da molteplici contributi della teoria dei contratti applicata al mercato del lavoro). D’altro canto, una volta conclusi i loro contratti con il management e dopo aver così percepito un reddito, i lavoratori assumono anche la veste di consumatori diventando il ‘principale’ nei confronti degli azionisti quali rappresentanti dell’agente-impresa. Per di più, gli stessi azionisti e/o il management continuano a rappresentare l’impresa nei diversi rapporti di agenzia con i vari aggregati di fornitori.
Questo complesso insieme di rapporti contrattuali fissa la forma e il livello delle remunerazioni e i valori di scambio (prezzi relativi) che assicurano un equilibrio fra i contrastanti interessi di tutti gli eterogeni partecipanti ai molteplici rapporti di agenzia che caratterizzano la vita di un’impresa. Gli equilibri possibili sono svariati (equilibri multipli); eppure taluni sono più efficaci oppure più efficienti di altri. Un’appropriata combinazione fra i diversi contratti dovrebbe essere in grado di selezionare equilibri ‘buoni’ se non l’equilibrio migliore. Ma ciò significa che, almeno stando alla definizione offerta dalla teoria dei contratti, l’impresa è tenuta a perseguire un’equilibrata composizione fra i contrastanti interessi di tutti gli aggregati sociali che partecipano alla sua attività o che la condizionano per via diretta.
Detto in altri termini, e parafrasando le parole con cui Debenedetti apre il primo capitolo del suo volume, il sistema economico capitalistico assegna all’impresa “il compito di produrre ricchezza” e di ripartirla secondo la più efficiente o efficace armonizzazione degli interessi conflittuali fra i suoi svariati partecipanti. L’etica dell’impresa è, così, ricondotta al perseguimento dello stakeholder value.
Si sarebbe tentati di concludere che il volume di Debenedetti finisce, di fatto, per essere un manifesto a favore dello stakeholder value. Una simile conclusione prescinde, tuttavia, dalle critiche che l’autore muove a tale impostazione. Egli sostiene che, diversamente dallo shareholder value, lo stakeholder value non fonda la determinazione delle quote distributive del reddito su una metrica analitica ma la demanda a decisioni arbitrarie che sono vulnerabili all’intrusione di interessi personali o di improprie sovra-determinazioni politiche.
Anche in questo caso, penso che l’autore sottovaluti i problemi aperti nella teoria economica ortodossa e – più in generale – in molti punti alti della storia dell’analisi economica e che non colga appieno l’innovatività della teoria dei contratti.
Quanto al primo punto va rilevato che la metrica analitica, cui Debenedetti si richiama per giustificare la massimizzazione del profitto e la connessa determinazione delle quote distributive, è fondata sulla specifica teoria del valore dell’approccio ortodosso. Si è tuttavia già accennato, ed è noto da tempo, che quella teoria del valore – così come le diverse teorie classiche e marxiane del valore – sono minate da insuperabili aporie logiche che le rendono analiticamente inutilizzabili (al riguardo, basti riferirsi ai lavori di Napoleoni negli anni settanta del secolo scorso).
Di conseguenza, almeno dal punto di vista teorico, la metrica analitica dello shareholder value è un fallimento. Viceversa (e arriviamo così al secondo punto), in alcuni filoni della teoria dei contratti (si vedano i lavori di Hart e Moore fra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta), si affronta il problema dell’indeterminatezza delle quote distributive e della connessa fissazione del potere di acquisto attribuiti ai vari attori che partecipano ai rapporti di agenzia costitutivi dell’impresa. Infatti, Hart e Moore riconoscono che l’intreccio di clausole contrattuali lascia un reddito residuo; e che, quindi, occorre definire una regola per l’allocazione di tale residuo (che può essere quantitativamente rilevante).
La soluzione proposta si basa su due passaggi: il reddito residuo va attribuito a chi detiene i diritti di proprietà, ossia agli azionisti nel caso dell’impresa; l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà per una data attività richiede che tali diritti siano attribuiti al cosiddetto ‘agente indispensabile’, ossia all’attore che svolge la funzione cruciale per l’organizzazione e la riproduzione dell’attività.
L’approdo raggiunto non porta, purtroppo, ad alcuna conclusione pienamente soddisfacente. Esso ci permette di affermare che lo stakeholder value poggia su fondamenti teorici più robusti rispetto allo shareholder value anche con riguardo alla determinazione delle quote distributive. Tuttavia, la stessa impostazione di Hart e Moore denuncia fragilità specie se letta in chiave dinamica.
Allo scopo di esemplificare per i “non addetti ai lavori” il loro concetto di agente indispensabile, ossia la loro teoria sull’allocazione efficiente dei diritti di proprietà, i due economisti propongono l’esempio della barca a vela che solca i mari di un oceano con a bordo un ricco uomo d’affari, un abile marinaio e un cuoco. Essi sostengono che, in condizioni di mare calmo, i diritti di proprietà vanno attribuiti a chi può meglio sostenere i costi della crociera (ossia l’uomo d’affari).
Se però sopraggiunge una tempesta, è efficiente che tali diritti siano trasferiti al marinaio perché questa nuova allocazione accresce la probabilità di salvare la barca e la vita dei suoi occupanti. Infine, se la tempesta è così drammatica da obbligare all’approdo su un’isola deserta che porta al salvataggio di tutti ma impedisce la ripresa della navigazione, la soluzione più efficiente consiste nel trasferire i diritti proprietari al cuoco ossia a chi sa meglio utilizzare una cambusa sempre più sprovvista di riserve alimentari.
L’esempio rende evidente che, in un mondo dinamico e complesso quale quello attuale, la teoria di Hart e Moore non è praticabile. L’allocazione efficiente dei diritti di proprietà e la conseguente attribuzione del reddito residuo sarebbero così instabili da risultare incompatibili con la continuità di istituzioni e di apparati molto difficili da ‘smontare’ e ‘rimontare’ senza soluzione di continuità. Appare, per esempio, irrealistico individuare la soluzione efficiente in ricorrenti rivoluzioni nel governo di imprese che già sono sottoposte a tensioni e cambiamenti organizzativi a causa di innovazioni tecniche e di pressioni concorrenziali.
Eppure, nonostante i limiti denunciati, l’approccio della teoria dei contratti coglie aspetti cruciali della nostra economia e società. Viviamo in un mondo che è composto da aggregati sociali eterogenei che perseguono obiettivi e interessi conflittuali. L’intricata rete delle relazioni economiche e sociali fra questi aggregati, che può essere mediata e riprodotta solo grazie a continui interventi regolatori e istituzionali, assicura un ambiente aperto al cambiamento. Essa approda, però, a equilibri temporanei solo se si individuano e si praticano compensazioni e compromessi fra i molteplici interessi conflittuali.
Detto in altri termini, non esiste un bene comune o un insieme di beni comuni che sia pre-definito e invariante e che rappresenti l’obiettivo già pronto e condiviso da tutti. Tale insieme di beni comuni va faticosamente costruito all’interno delle conflittuali relazioni (di agenzia) fra i diversi attori mediante ripetuti aggiustamenti parziali e va ri-calibrato in funzione dei rapidi mutamenti economico-sociali. In un simile mondo appare quasi pleonastico chiedersi se debba prevalere il lineare shareholder value o l’intricato stakeholder value. A prescindere dalle preferenze di ognuno di noi, solo il secondo è in grado di dotarci di una ‘cassetta degli attrezzi’, seppure approssimativa, per fronteggiare la complessità del mondo in cui viviamo.
Risposta di Franco Debenedetti, imprenditore, economista e politico impegnato
“Le clausole contrattuali – scrive Messori – lasciano un reddito residuo e quindi occorre definire una regola per l’attribuzione di tale residuo.”
Ognuno dei contratti di cui consta l’impresa, anche se basato su una norma di legge, lascia un largo margine di interpretazione oltre che di integrazione, e non solo da parte del management. Pensiamo ai contratti nazionali del lavoro dipendente: sono le organizzazioni sindacali dei lavoratori ad opporsi ai contratti aziendali, anche se questi prevedono, oltre al salario fisso, una parte variabile legata alla produttività, che solo a livello aziendale può essere misurato con precisione e attribuito con giustizia.
Sostanzialmente, anche se non formalmente, è una partecipazione all’utile aziendale: spetta al management determinarlo in modo che risulti in un accrescimento dei profitti degli shareholder, ad esempio assicurandosi così le fedeltà di personale qualificato. Tutt’altra cosa sarebbe se lo facessero, ad esempio, per guadagnarsi personali dividendi politici. (Il testo di Friedman del New York Times Magazine, in appendice nel libro, è ricco di esempi). Si parla di Mitbestimmung: ma questa in Germania fu voluta per ragioni politiche, come fu pure, a detta dello stesso Gustav Erhard, l’anteporre l’aggettivo “soziale” alla Marktwirtschaft..
Sembra che Messori consideri l’impresa come un insieme più che un nexus of contracts, fascio di contratti. Invece è un “fascio proprio”, tutti i fili passano per un unico punto. I contratti sono a monte e a valle del processo produttivo, ma l’impresa ne è il centro perché ne è sempre controparte (come acquirente o come venditrice). La domanda è: quale criterio ordinatore è bene segua nel negoziarli?
Non v’è dubbio che la loro configurazione determini la distribuzione del valore aggiunto; ma la tesi di Friedman, argomentata nel mio libro, è che la ricchezza prodotta è massima se l’impresa configura quei contratti in modo tale da accrescere il proprio profitto. Questo non esclude che l’impresa possa avere interesse a garantire un profitto stabile ai propri fornitori, ad offrire ai propri lavoratori o clienti ancor più sicurezza di quella obbligata dalla legge. E quanto alle esternalità, affidare la tutela dell’ambiente – per considerare quella più eclatante – al buon cuore delle imprese, come in fondo fa la teoria dello stakeholder value, pare una pessima soluzione. Ne esistono altre, più efficaci: in proposito la letteratura è sterminata.
Friedman pone i contratti all’interno di un triangolo formato da: fair competition, legge, sentire etico. I contratti coi dipendenti, coi fornitori, coi clienti, con le banche, le norme di rispetto ambientale, sono tutti pensati in un mercato competitivo. Anche quello con gli shareholder è un contratto: in base a criteri interni a quel triangolo i risparmiatori scelgono sul mercato finanziario l’impresa a cui affidare i loro risparmi, diventandone azionisti.
I contributi dei molteplici stakeholder – dipendenti, finanziatori, fornitori, clienti, comunità – non sono singolarmente valutabili e quindi sarebbe arbitraria una regola per l’attribuzione del “reddito residuo” che hanno prodotto. Misurabile è solo il risultato complessivo del loro interagire, e si chiama shareholder value.
Ridurre il footprint carbonico, avere produzioni sostenibili, ripensare il mercato del lavoro alla luce della rivoluzione digitale (scrivere i nuovi diritti digitali, come scrive Maurizio Molinari), sono tutte scelte strategiche, accrescono il valore reputazionale dell’impresa, ne aumentano il valore a lungo termine. Compito del management adottarle: lo shareholder value sarà la misura del loro successo. E cosa se no?
Anche l’adozione di criteri gestionali ESG accresce il valore reputazionale presso alcuni investitori, ma incide sul rendimento: in media, su un arco di 5 anni, è inferiore di oltre il 20% a quello di portafogli composti da aziende con alto potenziale di ritorni nel lungo termine: se va bene a chi le sceglie, nessun problema. Anche chi sceglie il modello di società benefit persegue la strategia di accrescere il proprio capitale reputazionale, tant’è che la legge assegna all’Autorità Antitrust il compito di verificare se la funzione pubblicitaria non prevalga al punto da risultare in una violazione delle norme per la pubblicità ingannevole.
Messori, e molti altri con lui, impiega il verbo “massimizzare”: non così Friedman, che parla di “accrescere”. In effetti quel verbo, come rileva Armen Alchian in un noto paper, non descrive quello che fa e quello che deve fare l’operatore economico: questo ha piuttosto un comportamento adattativo, imitativo, che procede per tentativi alla ricerca di profitti positivi. E ciò per l’incertezza del futuro e per l’impossibilità umana di risolvere problemi che contengono un gran numero di variabili, anche nel caso in cui fosse definibile un ottimo. Se i profitti sono positivi l’azienda sopravvive, altrimenti muore.
I fautori dello stakeholder capitalism, preoccupati del modo di tagliare la torta del profitto, tendono a dimenticare ciò che grandemente influisce sulla sua dimensione, in particolare le azioni del decisore pubblico: interventi diretti dello Stato in attività economiche, politica fiscale che incide sugli incentivi di stake- e shareholder, politiche macro che, quando le conseguenze sono negative, vengono poi chiamate fallimenti di mercato.
La grande depressione del ’29 fu esasperata, secondo molti, dalle politiche protezioniste; la grande recessione del 2007 fu innescata dalla volontà politica di rendere possibile a ogni cittadino americano, compresi i Ninja (no income, no job or asset), di possedere una casa. Nella crisi del COVID. governi e banche centrali, Fed e BCE in testa, hanno inondato le economie con danaro, in quantità dove l’unità di misura è il trillion. Come conseguenza il mercato perde la sua funzione di assegnare prezzi al beni, quindi anche di valutare la convenienza relativa degli investimenti, sia pubblici sia privati, sia per stake- sia per shareholder. Lo sharehoder value rimane “l’indicatore di ultima istanza“.
Messori cita l’apologo di Hart and Moore, della barca a vela con a bordo “un ricco uomo d’affari”, un abile marinaio e un cuoco. Ma i due illustri economisti soprattutto sembrano confondere diritto di proprietà con poteri di comando. I diritti di proprietà vanno attribuiti al “ricco uomo d’affari” non perché può meglio sostenere i costi della crociera (modesti, stante l’equipaggio, nautica popolare) ma perchè ha deciso di fare quell’impresa per il proprio divertimento, l’ha finanziata e ha assunto un marinaio e un cuoco.
In condizioni di mare calmo decide di fare lo skipper, se sopraggiunge una tempesta, chiede al marinaio di pilotare la barca, e al cuoco di gestire la cambusa. Non c’è nessun passaggio di proprietà.
“In un mondo dinamico e complesso quale quello attuale, l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà e la conseguente attribuzione del reddito residuo” non solo non sono “così instabili da risultare incompatibili con la continuità di istituzioni e di apparati molto difficili da ‘smontare’ e ‘rimontare’ senza soluzione di continuità”. Al contrario il mercato finanziario funziona in modo straordinario: adatta il proprio modo di agire alle tecnologie disponibili (dal big bang, all’high frequency trading, alle cryptocurrency); finanzia società che consegnano pizze con biciclette e quelle che fabbricano razzi per andare su Marte, su qualsiasi orizzonte temporale, per qualsiasi tipo di rischio, secondo qualsiasi preferenza personale (di cattolici che non vogliono affidare i loro risparmi a chi distribuisce profilattici in Africa, o di islamici che non vogliono dare i loro a chi tratta carne di maiale). Solo quando è lo Stato ad essere proprietario “l’allocazione efficiente dei diritti di proprietà diventa incompatibile con la continuità di istituzioni”: Alitalia docet.
Messori ritiene che il mio volume finisca “per essere un manifesto a favore dello stakeholder value”. In un certo senso è così: stakeholder sono pure, in proprio o per delega, gli shareholder di minoranza. l contratti che ne proteggono gli interessi sono le norme di corporate governance, i regolamenti di Borsa, la concorrenza tre le società, dai quattro giganteschi fondi passivi ai tanti fondi di private equity che scovano margini anche minimi di efficienza da offrire al risparmio.