di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
L’Italia è ferma da due decenni. In questo periodo il reddito medio degli italiani (dati Eurostat) si è ridotto del 14 per cento, mentre rimaneva sostanzialmente invariato nel resto dell’area euro e cresceva del 12 per cento negli Stati Uniti. Da che cosa dipende questo risultato drammatico? Il Fondo monetario internazionale ha confrontato i progressi compiuti da alcuni Paesi nel riformare le proprie economie ( Fostering Growth in Europe , aprile 2012). Ha suddiviso le riforme in due gruppi: quelle che possono tradursi più rapidamente in maggior crescita (riforme del mercato del lavoro; privatizzazioni; liberalizzazioni nel campo dei trasporti, della distribuzione dell’energia, delle professioni, della distribuzione commerciale) e quelle che invece richiedono tempi più lunghi per produrre effetti positivi (formazione del capitale umano, cioè scuola e università; pubblica amministrazione; giustizia civile).
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Al Direttore.
Non credo che B. abbia mai pensato che un Paese sia come un’azienda, solo più grossa. Che il suo fosse un partito azienda lo dicevano i suoi detrattori bonari, che gestisse il Paese come una (sua) azienda quelli arrabbiati: che in ogni caso siano metafore fuorvianti lo dimostra la lettera di ieri di Riccardo Ruggeri (amicus Plato).
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Sono molti quelli che, pur professandosi estimatori di Matteo Renzi per le doti di comunicatore, per la franchezza, per il coraggio di attaccare i castelli (e i castellani) ideologici della sinistra, gli rimproverano di essere una pagina bianca e gli chiedono di riempirla: vuoi andare al Governo, per che fare? Renzi non risponde, e fa bene, non per prudenza, ma per chiarezza. Chi fa questa domanda si aspetta una risposta in termini di programmi, cioè di policy, mentre la domanda ha senso solo se viene posta in termini di visione, cioè di politics.
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Si ritorna a sentire discorsi sui pericoli che il potere economico può rappresentare per il corretto funzionamento del potere politico. Si discute di grandi interessi: tanto per incominciare, se ne parla male. E per finire ci si fa del male: tutti.
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Trent’anni. Tanti, uno più uno meno, sono passati da quando è iniziata la liberalizzazione delle comunicazioni via etere: prima le radio, poi le televisioni locali, poi la diffusione nazionale a mezzo cassette portate con la vespa, Berlusconi, la Mammì, le dimissioni dei ministri, la Gasparri. Una guerra di trent’anni, e ci ho pure scritto su un libro.[1]
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