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→  luglio 1, 2014


L’abilità di Renzi in Europa, l’inversione delle priorità (prima economia, poi il resto) e i suoi rischi

Prima la flessibilità e poi le riforme, o prima le riforme e poi la flessibilità? Matteo Renzi, gliene va dato atto, ha tagliato corto sulla disputa barocca: “Ora tocca a noi fare le riforme”, ha detto rientrando in Italia dal vertice con i capi di governo dell’Unione europea. Sa infatti che la flessibilità l’abbiamo già usata: sui rapporti deficit/pil (2,6 per cento per il 2014 e 1,8 per cento per il 2015) abbiamo chiesto, e quasi ottenuto, una deroga rispetto all’impegno di pareggio strutturale del bilancio pubblico. Quello lo raggiungeremmo solo nel 2016. Sa che questi obiettivi si basano su tagli di 3,5 miliardi nel 2014, 17 nel 2015, 32 nel 2016; sa che molti, e non solo nei palazzi di Bruxelles, ma anche in quelli romani, dubitano che questi tagli siano sufficienti a centrare obiettivi e soddisfare impegni; sa che a fronte di essi ci sono solo due decreti con effetti finanziari minimi, e un disegno di legge non pubblicato che dovrebbe fornire risultati a partire dal 1° gennaio 2015. Sa che per la revisione della spesa pubblica esistono solo delle slide, e che di Carlo Cottarelli, che le ha compilate, poco si parla e meno ancora si sente.

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→  giugno 22, 2014


di Piero Ostellino
«I l problema non sono le regole; sono i ladri». La frase, pronunciata da Renzi a commento dello scandalo del Mose, avrebbero potuto dirla Antonio Di Pietro o qualsiasi altro uomo politico della Prima Repubblica. È figlia della convinzione che, dopo Tangentopoli e Mani pulite, la politica la si possa fare solo delegandone la gestione alla magistratura e ai carabinieri. Che piaccia o no, è la definitiva trasformazione del Partito democratico nella vecchia Democrazia cristiana o, se si preferisce, in una specie di neoberlusconismo di sinistra. L’occupazione del potere per, poi, non usarlo che per conservarlo. Le chiacchiere sulla rottamazione delle generazioni precedenti, sul loro ricambio con le nuove e sulla politica di cambiamento, che Renzi continua a ripetere anche ora che è segretario del Partito democratico e sta al governo come se non lo fosse, sono state un’operazione di marketing per pervenire al ricambio di una classe dirigente postcomunista, logorata dal consociativismo con la Dc e ormai esausta, che non aveva più nulla da dire. Nel Paese, quelle chiacchiere sono state la forma che il trasformismo inaugurato nel 1876 con la caduta della destra storica e l’avvento della sinistra (liberale) ha assunto nell’era della comunicazione, che conta più della realtà effettuale e la crea e col quale, nel passato, si erano sempre mascherate, con doppiezza controriformista, operazioni di puro potere personale, politicamente legittime sotto il profilo formale, ma discutibili sotto quello degli interessi reali del Paese. Con Matteo Renzi, cui pare piaccia più essere capo del governo che farlo, la politica italiana registra il ritorno ai metodi della vecchia Dc. L’ex sindaco di Firenze, che è ambizioso e non lo nasconde, ha capito che prendersela con i ladri e promettere demagogicamente un futuro luminoso solletica il moralismo e il pressapochismo populista e non costa; anzi, rende, purché non si metta mano alle condizioni strutturali che generano i ladri. La frase che il problema non sono le regole, sono i ladri, è una riproposizione di quella sul «mariuolo Chiesa», che Craxi aveva usato per tenere fuori il Psi dallo scoppio di Tangentopoli. Ma quando Craxi chiamò, in Parlamento, le forze politiche ad assumersi collettivamente la responsabilità del finanziamento illecito dei partiti e a fare i conti con le degenerazioni del «sistema», fu isolato; Dc e Pci si spartirono il potere, l’una, quello istituzionale e economico; l’altro, quello culturale e politico, decretando, con la fine del Partito socialista come forza potenzialmente riformista, il trionfo del peggior conservatorismo. Il segretario del Psi sarebbe morto in esilio, mentre in Italia, con il compromesso storico, si sviluppava il progressivo degrado del Paese. Renzi ha fatto astutamente tesoro del fallimento del tentativo riformista craxiano per scalare, riuscendoci, sia la direzione del Pd, sia quella della politica nazionale. Se non toccherà gli interessi consolidati dalla struttura sociale corporativa ereditata dal fascismo, in altre parole, se non farà nulla di più di «promettere che molto, non tutto, è già stato fatto», come sta dicendo incessantemente, è probabile resti a lungo a Palazzo Chigi. Certo, qualcosa farà, una (parziale) riduzione della spesa pubblica, ormai fuori controllo, e una (relativa) razionalizzazione della Pubblica amministrazione perché la stessa forza delle cose glielo impone, ma non ridurrà l’eccesso di intermediazione politica rispetto alla sfera privata, che è la vera causa della corruzione. Non darà, come sarebbe auspicabile, più spazio al mercato, e al merito, rispetto al familismo e clientelismo amorale sul quale si regge l’intero Ordinamento politico e giuridico dal 1948. Le regole, in un Paese dove per costruire un nuovo capannone per la fabbrichetta, malgrado tutto felicemente in espansione, o per convertirla, ci vogliono decine di permessi, licenze, concessioni, si perde molto tempo per districarsi nella giungla burocratica e si spendono molti soldi in avvocati e consulenti, e dove il cittadino-contribuente non riesce più a orientarsi nel mare di una legislazione fiscale disordinata e invasiva, finendo regolarmente con essere trattato come suddito, contano caro Renzi, e come contano ! Sono esattamente le regole che lei dovrebbe cambiare. Ma che, temo, non cambierà perché ha capito che sarebbe defenestrato all’istante. Da vecchio democristiano, lei sa, andreottianamente, che il potere logora chi non ce l’ha. Perciò, dal governo, sta logorando il suo stesso partito, come la Dc aveva fatto, a suo tempo, sempre dal governo, col Pci e le stesse capacità di resistenza del Paese. Non è detto sia necessariamente un male; ma è altrettanto lecito dubitare, non solo da sinistra, che «morire democristiani» sia un bene.

→  giugno 17, 2014


Parlando del problema Rai bisogna averne chiara la natura: che è politica. Se, paragonato con la Bbc, il costo del personale è tanto più elevato, e tanto maggiore il peso dei dirigenti sul totale, come ha evidenziato l’analisi di Roberto Perotti sul Sole 24 Ore il 7 giugno, la ragione è politica. Se quello che Rai fornisce è sostanzialmente uguale a ciò che trasmettono le altre tv o che si può trovare su internet, sicché il canone è percepito (e evaso) come una tassa, la ragione è politica. Politica: e in primo luogo della sinistra.

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→  giugno 3, 2014


Le elezioni europee hanno creato il momento propizio agli europeisti pragmatici: a patto di leggerne bene il risultato.
Che non è quel 30 per cento che si ottiene sommando tutti i voti dati ai partiti antieuropeisti, questo è ciò che pensano quanti considerano che “più Europa” sia la risposta a ogni e qualsiasi problema, euroscetticismo compreso; traggono spunto dal fatto che quel 30 per cento circa non forma un progetto politico positivo per raddoppiare i propri appelli alla sempre più stretta integrazione “verso gli Stati Uniti d’Europa”. Invece, mai come questa volta le elezioni europee sono state elezioni mid term nazionali: di fronte ai problemi l’elettore europeo guarda in primo luogo al proprio governo nazionale. L’euroscetticismo è un elemento comune di posizioni politiche affatto diverse: Marine Le Pen è neofascista, Nigel Farage conservatore, Grillo chissà. Affermate da Grillo, negate da Renzi, al centro della campagna elettorale nostra sono state le conseguenze che il risultato avrebbe avuto sul governo, addirittura sulla legislatura. In Francia e in Inghilterra, la campagna elettorale è stata un posizionarsi di partiti e candidati in vista delle prossime elezioni politiche. E quando non rappresenta uno strumento per la lotta politica interna, l’euroscetticismo è l’esito di un’Europa che, persa dietro al miraggio federalista, risponde con più centralizzazione e più produzione di norme a qualsiasi problema.

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→  maggio 20, 2014


E’stata l’accusa di conflitto di interessi a creare l’affaire Pereira. Senza, sarebbe rimasto una polemica, una delle tante che nascono nel mondo della lirica, e di cui quel mondo vive. Con quell’accusa, una questione manageriale diventa politica, una contestazione al sovrintendente diventa un’accusa al sindaco.

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→  aprile 17, 2014


di Gianni Toniolo

A un giornalista che gli chiedeva che cosa si provasse a essere l’uomo più potente del mondo Bill Clinton rispose indicando Greenspan (presidente della Fed): «Chiedetelo a lui». Erano gli anni della “grande moderazione”, caratterizzati da robusta crescita e bassa inflazione: un grande successo (non si vedeva qualcosa di simile dal primo Novecento), attribuito in buona misura alle banche centrali, pericolosamente accreditate di una quasi onnipotenza.

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