→ Iscriviti
→  aprile 19, 2015


di Alessandro Plateroti

«Atene ha finito i soldi: senza accordo sulle riforme andrà in default». L’ennesimo penultimatum al governo greco è stato lanciato a Washington dal Fondo Monetario. Ma sono ormai più di 1.800 giorni, almeno 5 anni pieni, che la crisi greca si trascina sulle cronache e sui mercati, esacerbando relazioni politiche e diplomatiche e soprattutto la stabilità dei mercati finanziari.

Nessuna crisi è mai durata tanto. E soprattutto, mai si è assistito a una così profonda e palese incapacità di sintesi da parte delle grandi istituzioni finanziarie internazionali (e degli stessi governi che ne fanno parte) sulla soluzione da adottare. È stato più facile salvare l’Argentina dopo il default, arginare la crisi finanziaria delle «Tigri asiatiche» o rimettere in carreggiata l’Islanda, l’Irlanda, Cipro e persino il Portogallo, che avviare un dialogo costruttivo con la Grecia sul prezzo delle riforme in cambio degli aiuti. E così, dopo 5 anni di vertici a Bruxelles e Francoforte, riunioni tra ministri e primi ministri, tra banchieri e governatori, le domande restano sempre le stesse: la Grecia andrà in default? Che cosa succederà all’euro, ai titoli di Stato e alle Borse se Atene fosse costretta a uscire dall’eurozona? E in tal caso, è davvero ragionevole aspettarsi un «contagio» politico e finanziario della crisi in Paesi come l’Italia e la Spagna? Gli scenari apocalittici abbondano – non c’è politico, economista, o analista che non abbia detto la sua – e la leadership politica europea non sembra in gradi produrre idee oltre le minacce che ogni giorno rivolge alla Grecia. L’unico rimasto ad appellarsi alla ragionevolezza è Mario Draghi. E il problema, forse, è tutto qui: per quanto Draghi si prodighi e per quanto gli stessi creditori della Grecia riuniti nel Gruppo di Bruxelles (Commissione Ue, Fondo Monetario e Bce) abbiano fatto capire a tutti che la riottosità di Atene non è una ragione sufficiente per mandare la Grecia in default e gettare l’eurozona nell’incertezza, è la mancanza di una chiara volontà politica dei grandi azionisti dell’Europa nel cambiare le regole del gioco su riforme e crescita – in primis la Germania centrista della Merkel, ma anche la Francia socialista di Hollande, che come sempre gioca per sè – a rendere precaria la possibilità di chiudere rapidamente e positivamente la crisi. Qui non si tratta più di barattare gli aiuti ai greci con promesse del tutto formali (e inattendibili) su sacrifici e riforme, ma di ammettere con onestà intellettuale che la spinta propulsiva del progetto di integrazione monetaria, politica e fiscale con cui è nata l’Unione europea non c’è più, che la difesa delle rigidità di bilancio imposte oggi dai Trattati e il continuo richiamo alle regole matematiche su cui si decidono le sorti dei Paesi sono quanto di meglio per chi cerca di distruggere l’Europa spacciando l’illusione che isolati si stia meglio. Se non passa questo principio, non solo non si arriverà mai a una soluzione definitiva per la Grecia, ma diventerà praticamente impossibile riavviare il processo di integrazione politica e fiscale su nuove e più solide basi: nella situazione attuale, sarà presto difficile trovare anche un solo politico europeista disposto a inserire nel suo programma una maggiore devoluzione dei poteri a favore di Bruxelles .

Finchè questa svolta non sarà accettata, non ci sarà soluzione alla crisi della Grecia. E neanche ai problemi di Italia e Spagna, i cui titoli di Stato marciano appaiati in un singolare duetto che oggi non preoccupa, ma che nel medio-lungo periodo non promette nulla di buono. Per i mercati il ragionamento è semplice: se Bruxelles non è in grado di salvare la più piccola delle economie europee, figuriamoci che cosa accadrebbe con l’Italia o con Madrid. Risultato: malgrado il Quantitative easing, la liquidità fornita ai mercati si sta distribuendo in modo apparentemente distorto, ma con una logica niente affatto irrazionale: i tassi di Italia e Spagna sono la metà di quelli segnati un anno fa (1,4% contro oltre il 3%), ma sono ben al di sopra dei livelli in cui si trovavano due mesi fa (1,02%) all’avvio del QE; al contrario, i tassi tedeschi sia a lungo sia a breve sono finiti ai minimi storici e oscillano intorno allo zero puntando al negativo. E con la Germania, altri 18 Paesi europei hanno attualmente tassi di interesse sotto zero nella curva a breve-medio termine dei rendimenti, un fenomeno mai riscontrato prima d’ora nella storia dei mercati: in cifre, quasi 1,9 trilioni di miliardi di euro di debito pubblico europeo – dalla Germania alla Finlandia passando persino per la Slovacchia – hanno oggi tassi di interesse negativi. Come dire: chi stava bene sta meglio, ma chi stava male resta in quarantena.

Con un’aggiunta non di poco conto: anche se la Bce ha isolato Bonos e BTp dal rischio di contagio della Grecia – i cui decennali sono volati oltre il 12% e la curva dei rendimenti a breve e lungo è ormai strutturalmente invertita – il mercato non sembra avere alcuna intenzione di esporsi più di tanto sui due pesi massimi della periferia europea: sull’Italia, perchè l’economia è ancora è in recessione e per la difficoltà con cui il Governo Renzi tenta di far passare le riforme; sulla Spagna, perchè il Paese iberico si avvicina alle elezioni politiche con un elettorato dall’europeismo incerto. Così come in Grecia è stata l’a ssenza di una svolta nelle politiche europee a spingere gli elettori verso Tsipras, così anche in Spagna – dove l’economia ha ben altra forza rispetto a quella greca – gli elettori potrebbero affidare il proprio voto all’anti-rigorismo di Podemos, aprendo un nuovo fronte di tensione con l’Europa. In questa situazione, i flussi di capitale – compresi quelli che la Bce sperava di indirizzare verso i titoli di Stato di Italia e Spagna – prendono invece direzioni palesemente più rischiose: basti pensare al fondo sovrano della Norvegia, il più grande del mondo con oltre 870 miliardi di disponibilità: ha tagliato gli acquisti di titoli di Stato europei per comprare i bond della Nigeria, che rendono poco meno del 5%. Persino l’Irak vuole una fetta della torta: pochi giorni fa, ha annunciato l’intenzione di riemettere titoli di Stato.

→  aprile 18, 2015


Qual è la vera consistenza della contrapposizione tra Commissione e Consiglio Europeo da un lato e governo greco dall’altro, che venerdì è tornata a far ballare i mercati con le Borse europee in rosso e lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi che ha lambito quota 150? Si trattasse di una questione economica, in un modo o nell’altro sarebbe già stata risolta: è chiaro che nessuno, tanto meno la cancelliera tedesca Angela Merkel, può accettare di avere più fronti aperti contemporaneamente, e che Ucraina e Stato islamico (Is) hanno peso e urgenza ancora maggiori.

leggi il resto ›

→  aprile 15, 2015


Sir,
No doubt, “if Greece does fall out of the euro, it will also fall out of Europe”, as Philip Stephens writes (“Europe faces more than a Greek tragedy”, April 10). No doubt, “the failure of the euro would mark the failure of Europe”. But there is no link between the two statements, namely that Greece falling out of the euro marks the failure of the euro. This would be the case should it happen for economic reasons: too high the cost, too vague the reforms, too big the risk. As a consequence the euro would not be perceived any more as a monetary union, but as a fixed exchange rate area, the markets would soon attack the weakest countries, the spread would rise, sooner or later there would be a second Greece.

leggi il resto ›

→  aprile 10, 2015


by Philip Stephens

The pilgrimage of Greek prime minister Alexis Tsipras to Moscow told a tale of two tragedies. One, perilously close to the denouement, is about Greece’s uncertain place in the family of European nations; the other, still unfolding but with a storyline that foretells a calamitous final act, is about the future not just of the euro but of European integration.
Predictably enough, the Greek prime minister was feted by Vladimir Putin. The Russian president’s revanchist aggression in Ukraine has left his regime more vulnerable than anyone in the Kremlin would dare admit. Mr Putin badly needs to weaken the EU sanctions regime. Shared Orthodox Christianity, an air of leftist nostalgia in Athens and, above all, Greece’s desperate isolation make it an ideal target for Moscow’s strategy of divide and rule.

It is harder to see what Mr Tsipras gains beyond a few warm words to cheer his supporters at home. The promise of a gas pipeline years hence? Any aid on offer from Moscow would be minuscule relative to funds from the EU and the International Monetary Fund. There is nothing Mr Putin could do that would make leaving the euro any less painful.

The other day I heard Yanis Varoufakis explain how Greece had ended up here. The finance minister’s is a story fluently told — of US backing for the colonels, of the havoc wreaked on industry by the free trade rules of the EU, of the Brussels funding that bankrolled clientelist politics in Athens and of how cheap euros created a ruinous bubble.

There are elements of truth in this; and Mr Varoufakis is right when he says the present debt burden is unsustain­able. Missing from the narrative, though, is any sense that Greece must make its own choices. That, whatever the sins of others, only Athens can decide whether Greece prospers as a modern democracy or whether it slips back into the shadows of the Balkans.

The omission, and the implicit rebuke to outsiders who do not feel bound by ballots cast by Greeks, is at the heart of what so frustrates Athens’ partners. This is not just about the Germans, even if Wolfgang Schäuble, Berlin’s finance minister, foolishly lends credibility to the idea. Mr Tsipras is isolated among fellow debtors as much as creditors. What unites them is a demand that Athens produce a plausible plan to reform the Greek state — to modernise its administration and politics as much as its economy. Such a plan would transform the mood of negotiations.

Mr Putin’s preference is otherwise. A collapse in Greek living standards would leave it ripe for the coercion and subversion that are Russia’s trademarks in an effort to expand its influence and control in southeastern Europe. The Russian president already has Hungary’s prime minister Viktor Orban in his breast pocket. His agents are working hard — exploiting Russia’s energy monopoly, buying politicians, bribing officials and taking stakes in financial institutions — to promote instability across the Balkans.

Yet talk to finance ministers and central bankers across the rest of Europe and the mood is one of fatalism. They will tell you that the eurozone would withstand Greece’s departure. This is not 2008, or even 2012, they say. Governments have put in place the mechanisms to deal with crises. Some sound as if they believe that, freed from the vicissitudes of Greek politics, the euro would be stronger in the long run.

In a narrow sense they may be right, though I would not bet on it. But Greece is a distorting prism. Its sequential crises have bred complacency by distracting from the profound structural flaws and political challenges that still imperil the euro. Making monetary union work demands more than proficient crisis management.

Spring has seen a burst of sunshine in the European economy. The European Central Bank’s quantitative easing is having an effect. Growth has picked up a little. Yet it is a delusion to think that the euro is in safe harbour. Fiscal and financial union are at best half-completed, and the political threat to the euro continues to grow.

National politicians refuse to admit the supranational imperatives of the project they are pledged to safeguard. And a return to growth rates of 1 or even 2 per cent will not be enough to restore the euro’s legitimacy among the angry voters who are turning to populist movements of right and left.

In 2012, European leaders defied the markets by summoning up the political resolve needed to save the single currency. They have since lost the will to sustain it. Greece may not bring down the euro; the existential threat lies in the more generalised failure of nerve and leadership.

So it is, too, in the relationship with Moscow. The biggest danger to Europe comes not from the forays of Mr Putin’s rusting aircraft carrier, or his cold war-vintage nuclear bombers, or from Soviet-style subversion in some of the darker corners of the continent.

No, the real weakness lies in a European mindset that prefers to temporise and equivocate than to confront Mr Putin head on. Mr Tsipras’s visit may have held up a mirror to Greece’s troubles. But it also offered a reflection of diffidence and division across Europe. If Greece does fall out of the euro it will also fall out of Europe. And the failure of the euro would mark the failure of Europe. What unites these twin tragedies is the stubborn reluctance of the authors to rewrite the endings.

→  aprile 8, 2015


di Franco Debenedetti e Nicola Rossi

Promuovere oggi in Italia un nuovo capitalismo di stato è paradossale. Come se un bulimico vedesse nei farmaci dimagranti l’origine dei suoi mali.

Se l’Italia avesse un’Alta Commissione Piani e Programmi, il suo presidente lamenterebbe sulle pagine dei principali quotidiani nazionali il “tradimento del capitale” e ricorderebbe che “ormai da un lustro ogni volta che viene posta sul mercato dei diritti di proprietà una grande impresa italiana nessun investitore italiano si fa avanti”. Sarebbe, anzi – come vedremo – è uno sconcerto comprensibile. L’idea che il mondo non si conformi alle prescrizioni dell’Alta Commissione Piani e Programmi deve apparire intollerabile al suo presidente.

leggi il resto ›

→  aprile 4, 2015


Caro direttore,

per ricordare, con Giuseppe De Rita, quanti «per anni hanno sostenuto che la debolezza del sistema Italia (venga) dal prevalere della piccola dimensione» ( Corriere di ieri) non è necessario avere buona memoria: lo si legge ancora oggi, ogni volta che un pezzo importante del nostro sistema industriale viene «svenduto». Ultimamente la vendita di Pirelli è stata per alcuni pretesto per teorizzare la necessità del ritorno dello Stato azionista, che, per interposta Cassa Depositi e Prestiti, surroghi quello che viene giudicato un tradimento del capitale.

leggi il resto ›