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→  luglio 7, 2015


Articolo collegato di Alberto Bisin

IL NETTO “no” nel referendum in Grecia ha il merito di ben chiarire i termini della questione. Il “sì” avrebbe portato al massimo ad una umiliante concessione da parte degli organismi internazionali creditori fino alla prossima rottura tra controparti.
Come molti osservatori hanno sostenuto, non senza retorica, il risultato del referendum va rispettato, indipendentemente dal proprio giudizio su quanto appropriato sia stato ricorrere alla consultazione popolare. È chiaro che i cittadini greci hanno votato per non accettare la proposta di accordo sul tavolo negoziale. Non è chiarissimo però con quale mandato il governo Tsipras potrà continuare i negoziati con gli organismi internazionali creditori. Credo sia ragionevole sostenere che l’obiettivo di un eventuale futuro accordo non possa mancare di prevedere una ristrutturazione del (leggi, default ordinato sul) debito greco. Null’altro sarebbe accettabile agli elettori greci.
Per capire cosa questo significhi bisogna fare un passo indietro. Dalla metà anni ‘90 il settore pubblico greco ha speso più di quanto non abbia raccolto a mezzo di entrate fiscali, finanziando l’eccesso di spesa a debito. A situazione finanziaria apparente (prima di allora conti offuscati se non truccati non ne avevano permesso una chiara immagine), nel 2010, la Grecia era insolvente e ha avuto bisogno di aiuti e nuovi prestiti. Questi sono stati utilizzati nella gran parte per ripagare i creditori, soprattutto banche tedesche e francesi. Il debito greco è passato quindi da banche private a organismi internazionali. Nel 2012 la Grecia ha avuto bisogno di un nuovo giro di aiuti, che in questo caso sono andati al paese. Anche questi aiuti, che prevedevano la vendita da parte di varie attività che non è mai avvenuta, e che erano condizionati a riforme microeconomiche attuate solo in minima parte, non hanno avuto gli effetti desiderati. Il rifiuto di mettere in cantiere le riforme (mercato del lavoro, pensioni, settore pubblico) ha costretto i governi che si sono succeduti a operare soprattutto su dipendenti pubblici e tassazione. Hanno sì ridotto notevolmente il disavanzo primario (al netto della spesa per interessi), ma lo hanno fatto strozzando ogni possibile ripresa economica. Di qui, credo la rabbia dei greci che prima hanno votato Syriza e poi lo hanno supportato votando no al referendum.
Credo quindi che Tsipras abbia ragione a ripetere che il paese è insolvente e che il debito vada ristrutturato. Ma a mio parere su una cosa ha ragione invece l’ala dura tedesca (ad esempio Schauble, per intenderci): alla fine questo debito ha finanziato la spesa pubblica corrente della Grecia per più di un decennio; la decisione di non pagarlo è naturalmente legittima, ma la Grecia deve prendersi le proprie responsabilità, non è più possibile finanziare politiche assistenziali. Disturba molto che la ristrutturazione avvenga sulle spalle dei contribuenti europei, ma a questo ci hanno portato l’assunzione di debito da parte degli organismi internazionali creditori e il rifiuto da parte della Grecia di operare le riforme necessarie.
Non resta quindi che ristrutturare il debito e chiudere i canali di finanziamento pubblico alla Grecia. Che questo comporti o meno una uscita della Grecia dall’euro non è chiaro. Sarebbe bene per il paese evitarlo. Una strada potrebbe essere quella di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e i pensionati, almeno in parte con una moneta parallela, che sarà presto svalutata ma che permetterebbe forse alla Grecia di evitare un catastrofico ritorno alla dracma con annessa uscita da euro e forse anche dall’Unione.
Ora sta all’Ue evitare nuove inutili trattative per scongiurare la ristrutturazione del debito. Che tutta la retorica sulla democrazia di questi giorni abbia un senso: gli elettori hanno votato per ristrutturare il debito; che così sia. Lo stesso Tsipras proverà ad utilizzare il potere contrattuale del supporto popolare per ottenere nuove trattative che comportino una minima ristrutturazione. Questo va evitato a mio parere perché porterebbe a nulla, solo estenuanti negoziazioni. Per trattare bisogna avere fiducia reciproca e il referendum ha reso chiaro che una buona maggioranza dei greci questo tipo di trattativa non la vuole. È importante invece che nuove negoziazioni mirino a evitare che la ristrutturazione del debito diventi un disordinato default. Infine, la Grecia affronterà probabilmente momenti molto difficili. Sarà necessario aiutare il paese in situazioni di emergenza sociale.
Ma la cosa più importante è che la Ue si metta a lavorare per definire un efficiente processo istituzionale per l’uscita controllata dall’euro di paesi insolventi. No, la soluzione non è più Europa, come imboniscono ad ogni occasione i burocrati europei, nè Eurobond, nè una Unione Fiscale. Tutto questo può funzionare in astratto ma non ancora in una Europa che, come stiamo sperimentando, è composta da paesi con culture, norme di convivenza sociale, istituzioni, così diverse da rendere comuni ed accettati comportamenti strategici in cui un paese si appropria di rendite a spese degli altri. C’è bisogno di istituzioni economiche che evitino quanto possibile la definizione dei contenziosi in sede politica. I mercati non funzionano sempre, ma in questo contesto tendono a reagire rapidamente a politiche fiscali irresponsabili con aumenti dei tassi che inducono i paesi ad un ritorno all’ordine e alla responsabilità.

→  luglio 7, 2015


Tutto sommato meglio così. Con un “sì” stiracchiato a un quesito mal posto, oggi staremmo a elucubrare su sviluppi politici, dimissioni, rimpasti, elezioni, coalizioni. La scelta del popolo greco è per tutti una scelta di fare chiarezza. Da oggi pensare all’euro e pensare alla Grecia sono due cose, entrambe necessarie ma distinte.

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→  giugno 26, 2015


Troppo impegnati a inseguire Tsipras, i leader europei non si lascino sfuggire Londra mercatista, liberale e filoamericana

Non è ancora successo, ma so come andrà a finire: il solito papocchio, la Grecia resta nell’euro. Non è ancora successo, ma temo come andrà a finire: nessun compromesso, l’Inghilterra uscirà dell’Unione europea. I due fatti non sono uno conseguenza dell’altro, ma sono conseguenza di un terzo a monte di entrambi: una gestione politica dell’Europa che non esita a perdere la faccia per far restare la Grecia, e che non esita a perdere l’anima anche a rischio che ci lasci l’Inghilterra. Lloyd Blankfein ha detto che l’errore era stato accettare l’entrata della Grecia: impedendone l’uscita, si raddoppia. Allora Atene aveva falsificato i conti consuntivi, adesso falsifica quelli preventivi. Impressiona la manifestazione di debolezza: che cosa si teme? Se è per le drammatiche conseguenze per la Grecia, l’Europa – rectius la Banca centrale europea – ha risorse sufficienti per tenere a galla un paese che ne è qualche punto percentuale. Se è per le conseguenze geopolitiche per l’Europa, già ci è già stato preannunciato il ricatto a cui oggi, cedendo, ci consegniamo. Se le conseguenze temute sono poi quelle per il resto dei paesi dell’euro, è impressionante la manifestazione di debolezza che implica: i conti pubblici italiani, spagnoli, eccetera, hanno dunque la solidità delle promesse greche? Non volendo riconoscere che la rigidità rende i sistemi fragili, si pensa di rimediare alla fragilità del sistema irrigidendolo: guai se uno esce dell’euro, avanti a testa bassa, fiscal union, political union. Una situazione di insolvenza è stata trattata come crisi di liquidità, i finanziamenti sono stati spostati dalle banche agli organismi istituzionali, cioè dal privato al pubblico, eliminando la possibilità che l’aumento dei tassi segnali il rischio. Un problema economico è stato reso politico.

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→  giugno 25, 2015


articolo collegato di Pietro Reichlin

Lo spettro della Grexit ha il merito di avere acceso un dibattito ampio sul destino politico ed economico dell’Europa. Siamo usciti a fatica dalle secche di una controversia tra specialisti sui pro e i contro delle politiche di austerità fiscale e sulla misura dei moltiplicatori della spesa pubblica. Il dibattito è sterile perché non tiene conto della situazione concreta in cui si trova la Grecia e l’Europa. Non si può ragionevolmente pensare che le politiche di rientro da un disavanzo (fiscale e commerciale) eccessivo possano avere effetti positivi sul Pil del paese, ma è altrettanto vero che una politica espansiva avrebbe l’effetto di riportare a livelli insostenibili il disavanzo commerciale e il debito pubblico greco, riaccendendo la speculazione contro i debiti sovrani. Secondo il gergo corrente, la Grecia non ha «spazio fiscale»: ogni euro di spesa pubblica in più va cercato fuori dal mercato, cioè presso i contribuenti europei ed è, di fatto, un finanziamento a fondo perduto. La crisi economica della Grecia non si risolverà in tempi brevi e qualunque accordo con l’Europa sarà solo un progresso temporaneo.
Data questa necessaria premessa, quali insegnamenti possiamo trarre dal dramma greco? Secondo un’opinione comune, la vicenda dimostra che l’Europa ha bisogno di istituire meccanismi più robusti di solidarietà e aumentare il bilancio federale per consentire maggiori aiuti ai paesi in difficoltà. Secondo altri, la vicenda dimostra che l’Europa ha finora scelto di difendere i creditori e le banche a discapito dei popoli e della democrazia. A me sembra che queste tesi siano, in buona parte, infondate. In primo luogo, vale ricordare che, dal 2010, la Grecia ha ricevuto dalle istituzioni internazionali risorse ingenti (in rapporto a qualunque esperienza passata di crisi dei debiti sovrani), e che essa è tuttora ampiamente sussidiata tramite tassi d’interesse artificiosamente bassi, liquidità emergenziale della Bce, fondi strutturali e ulteriori promesse di allungamento delle scadenze. Il fatto che tutto ciò non sia bastato ha molto a che fare con i problemi strutturali dell’economia greca, la cui soluzione richiede tempi lunghi e sacrifici. Non si capisce, inoltre, perché, come spesso si dice, la vicenda sia il sintomo di un “deficit democratico”. Se le politiche proposte dal governo greco si basano sul denaro dei contribuenti degli altri paesi europei, è logico che questi ultimi abbiano voce in capitolo. A scanso di equivoci, non intendo negare che l’Europa abbia bisogno di meccanismi di assicurazione più estesi per risolvere crisi nazionali. Questi ultimi sono necessari per fronteggiare problemi di natura temporanea e crisi di liquidità, ma non sono risolutivi di fronte a problemi fiscali di carattere strutturale, cioè legati a difetti istituzionali e di lunga durata (evasione fiscale, squilibri nel sistema previdenziale, bassa partecipazione al lavoro, ecc.) e all’indisponibilità dei governi di fare scelte politicamente costose. Se anche avessimo un bilancio federale ampio e gli strumenti adatti per correggere le crisi di liquidità degli Stati, il dramma della Grexit sarebbe esattamente dov’è ora (come ha sostenuto recentemente su questo giornale Franco Debenedetti).
È paradossale che chi sostiene le ragioni del governo greco sia anche sostenitore di una maggiore integrazione federale. Le federazioni sopravvivono solo se riescono a risolvere il rischio morale legato alla coesistenza di garanzie a livello centrale e decentramento del potere di spesa a livello sub-nazionale (che Rodden ha definito “il paradosso di Hamilton”). Per risolvere tale problema c’è bisogno di maggiore (e non minore) disciplina fiscale e più vincoli sulle deliberazioni democratiche a livello locale. D’altra parte, l’inopportunità della disciplina fiscale è proprio il primo punto del programma elettorale di Syriza, secondo cui l’austerità è l’origine di tutti i mali. È vero che l’austerità fiscale non aiuta a uscire dalla crisi, ma l’idea che i debiti si ripagano da soli è una strada che porta all’uscita dall’euro. D’altra parte, nessun meccanismo istituzionale può risolvere completamente il paradosso di Hamilton. Serve una forte reciproca fiducia tra gli stati membri, una visione comune ragionevolmente condivisa e la necessità che i governi nazionali siano parzialmente vincolati alle promesse dei governi precedenti. Il caso greco ha molto da insegnare su questo piano. Syriza ha vinto le elezioni anche perché ha promesso di rinnegare gli accordi sottoscritti dal governo Samaras e rinegoziare gli accordi con la Troika minacciando l’uscita dall’Euro. Il fatto che una rinegoziazione fosse opportuna o che il governo Samaras fosse incapace non cancella la natura del problema politico: chi garantisce che un eventuale accordo europeo con Syriza non possa essere rinnegato nel futuro? Ora una parte di Syriza preferisce andare alle elezioni anticipate piuttosto che accettare un compromesso che verrebbe votato dai partiti moderati del parlamento greco. Il costo di perdere la credibilità politica è maggiore del vantaggio di salvare il paese? Com’è stato detto giustamente da alcuni commentatori, la ragione per cui il negoziato è così difficile è che l’Eurogruppo e il Fmi non hanno fiducia nei confronti del governo greco. Forse è un atteggiamento sbagliato, ma senza questa fiducia la costruzione di un’Europa integrata non potrà andare avanti.

→  giugno 24, 2015


articolo collegato di Carlo De Benedetti

Ragionando in termini finanziari il problema dell’Europa con la Grecia è uno solo: «non dovevate farla entrare». Difficile dare torto a uno come Lloyd Blankfein, il ceo di Goldman Sachs, uno che solo nell’investment banking mobilita 1,6 miliardi di dollari all’anno. Quando un mese fa l’ho incontrato a New York la nostra discussione è andata, direi naturalmente, su quello che entrambi consideravamo il problema dei problemi: un’Europa che non solo non riesce e fare passi avanti, ma ne sta facendo più di uno indietro. A cominciare proprio dalla Grecia.

In termini finanziari Lloyd ha senza dubbio ragione. Nessuna unione monetaria può reggere su differenze così macroscopiche tra economie nazionali. La Grecia, al di là della falsificazione dei parametri sull’indebitamento, non era in grado di stare insieme alla Germania nella stessa moneta.

E a nulla potevano servire i numeri e i numeretti, i parametri e vincoli, dietro ai quali si è voluto nascondere questa realtà. Oggi le Borse festeggiano un possibile accordo, ma tutta la questione greca – come sottolineava oggi Gideon Rachman sul Financial Times – è un lose-lose qualsiasi sia l’esito della trattativa perché le premesse sono sbagliate.
L’Europa finanziaria, l’Europa dei numeri, è un dead man walking, un brutto sogno che non avremmo mai dovuto concepire. E non ce ne tireremo fuori con altri numeri, altri vincoli, altre regolette. L’Europa esiste, ed è un grande progetto per il futuro, se torniamo a considerarla prima di tutto una comunità di valori e di cultura. E in questo contesto la Grecia è un pilastro del nostro futuro comune, il fondamento stesso – indispensabile – dell’Europa. Ma allora va cambiato completamente il paradigma. Va preso atto del fallimento del disegno a trazione tedesca che da 25 anni produce solo danni. Siamo il continente che cresce meno in tutto il globo, conosciamo una disoccupazione che mai avevamo avuto, demograficamente arretriamo e, soprattutto, ogni giorno vediamo crescere al nostro interno le forze distruttive disgregatrici del populismo anti-europeista e razzista.

È vero, c’è stata la crisi finanziaria. Ma come abbiamo risposto? L’epicentro della crisi c’è stato negli Stati Uniti, loro inizialmente ne hanno vissuto l’impatto più drammatico, ma hanno reagito subito. Chi ha sbagliato ha pagato e si è fatto da parte. Le banche sono state nazionalizzate e poi rimesse sul mercato. La Banca federale non ha mai smesso di pompare liquidità nel sistema. In pochi anni l’economia è tornata a girare e a crescere, la disoccupazione è scesa dal 12 al 5,5 per cento.

È vero, c’è stata la crisi finanziaria. Ma come abbiamo risposto? L’epicentro della crisi c’è stato negli Stati Uniti, loro inizialmente ne hanno vissuto l’impatto più drammatico, ma hanno reagito subito. Chi ha sbagliato ha pagato e si è fatto da parte. Le banche sono state nazionalizzate e poi rimesse sul mercato. La Banca federale non ha mai smesso di pompare liquidità nel sistema. In pochi anni l’economia è tornata a girare e a crescere, la disoccupazione è scesa dal 12 al 5,5 per cento. Intanto abbiamo il record di produzione di progetti per la “nuova Europa”. Pieni sempre di numeri, di parametri, di regole. Avevamo provato a darci una Costituzione e l’avevamo fatta di 370 pagine. Un orrore. Se poi abbiamo provato ad essere ambiziosi, abbiamo prodotto il libro dei sogni che si chiama Lisbona: tanti obiettivi meritori senza una road map che fosse minimamente credibile.

E così siamo qua. Siamo qua a vedere crescere in tutta Europa l’onda dei partiti della rabbia e della protesta. In Francia, in Spagna, in Italia (da noi ce ne concediamo addirittura due), in Grecia. È con vero dolore che ho visto raddoppiare i consensi delle forze anti-europeiste anche in Danimarca, un Paese che amo da sempre, per il suo spirito di libertà, tolleranza, apertura, un Paese anche ben governato. Ma fino a quando la regola dell’Europa sarà quella dei vincoli e dei parametri numerici andrà così.

Anche sulla questione immigrati abbiamo risposto con la stessa logica, con lo stesso stile: lentamente, impiccati dalla mancanza di una policy comune sull’immigrazione e sull’asilo. Secondo le Nazioni Unite i rifugiati nel mondo del 2014 sono stati 59,5 milioni, niente di simile è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Una situazione eccezionale che richiederebbe risposte eccezionali. Le soluzioni esistono (così dicono gli esperti), ma occorre cambiare il linguaggio politico e di conseguenza è necessario coraggio e visione di lungo termine. Come ricorda Silvia Kaufmann, i 28 capi di Stato e di Governo che si incontreranno questa settimana a Bruxelles dovrebbero avere in mente un precedente tragico: la conferenza di Evian del luglio 1938. Convocata dal Presidente Roosevelt, aveva lo scopo di trovare una soluzione per le centinaia di migliaia di ebrei tedeschi e austriaci disperati dopo che Hitler li aveva espulsi. La conclusione della conferenza fu una catastrofe: né l’Europa, né il Nord America, né l’Australia accettarono di dare asilo a numeri significativi di questi rifugiati. Anche allora le due parole più usate furono “densità” e “saturazione”. Auguriamoci che l’Europa, che ha già vissuto anni fa questa tragedia, non dia una risposta che ha già avuto in passato conseguenze così catastrofiche.
Ma tutto fa pensare che non accadrà. Che l’Europa continuerà la sua deriva.
Andrà così. Andrà così fino a quando non saremo in grado di darci regole capaci di far nascere leader politici europei. Dove pensiamo di andare con l’Europa così com’è? Perciò serve una rifondazione. E non basterà di certo l’aspirina prevista nel documento dei cinque presidenti.

Dobbiamo ricorrere a dosi massicce di politica per restituire l’Europa agli europei. Dobbiamo prendere coscienza che l’Europa esiste se torniamo a concepirla come una piattaforma unica di valori e cultura. Anche gli Stati Uniti, in fondo, funzionano così. Nessuno si immagina di far diventare l’Arkansas una Silicon Valley. L’Arkansas viene sovvenzionato, perché è parte di un sentire comune.

L’Europa così com’è ha fallito. O ne prenderemo rapidamente atto, e saremo capaci di cambiare, oppure saremo travolti dall’onda. Va recuperato l’orgoglio di essere la comunità che ha dato al mondo, proprio partendo dalla cultura ellenistica, il meglio del pensiero e dei diritti dell’uomo. Solo su questa base potremo ancora stare insieme e costruire un futuro comune.

→  giugno 24, 2015


articolo collegato di Martin Sandbu

The referendum on UK membership of the EU is still some time off but the rhetorical attacks have begun, calling out those who wanted Britain to join the euro, most of whom have retracted their support or tried to forget it. Eurosceptics do not intend to let them get away with it. If you were so misguided as to have supported the euro then, they argue, surely we cannot take seriously your argument for continued EU membership today.
So, even if euro membership for the UK is not on the agenda, it is important to revisit the case. And the sceptics’ argument is unfounded: there is a good case to make that Britain would have fared better in the crisis inside the single currency than it did outside.
The eurozone’s terrible economic performance weighed heavily on Britain, dashing hopes of a recovery led by investment and exports. It happened because European leaders failed to pursue the best policies — in particular, their failure to end the credit crunch and loosen monetary conditions sooner, and their choice to push austerity even in economies with ample fiscal space.
The important question, therefore, is how the UK would have changed the eurozone’s policies from the inside. The answer is: in ways that would have brought growth back faster.
Take monetary policy first. The Bank of England would be a heavyweight inside the euro, and not just on account of its economy’s size. The BoE’s intellectual pole position on monetary matters and its feel for financial markets, honed by centuries in the middle of the City of London, would have made it a leader within the European Central Bank.
How would that influence have been used? The BoE understood the need for extraordinarily aggressive policy much better than its counterpart in Frankfurt. In October 2008, the ECB raised rates while the BoE embarked on a loosening that cut rates by four percentage points in less than six months. It has kept them at 0.5 per cent since March 2009, the month in which it launched an asset purchase programme that has accumulated government bonds worth a fifth of annual national income.
In contrast, the ECB raised rates twice in 2011, which helped throw the eurozone back into recession with knock-on effects on UK growth. And it took Frankfurt six years to follow Threadneedle Street’s lead on asset purchases.
Britain’s central bankers would have fought for similarly aggressive policies on the ECB’s executive board. Indeed the country’s huge, wobbly banking sector would have left them — and the rest of the ECB ­— with no other choice. (Even outside the euro, UK banks have trillions of liabilities denominated in euros, which the BoE could not have printed in the case of a run. Within the euro, that would have been the ECB’s problem.) One of the euro’s largest economies could not have been bullied the way smaller countries at risk were treated.
We cannot know how successful they would have been, but it is clear eurozone monetary policy would have tilted in a more pro-growth direction, and one that more confidently stabilised financial markets. Had the ECB started a broad bond-buying programme in early 2009, before the sovereign debt crisis was on the horizon, yields might never have spun out of control as they did.
What about fiscal policy? George Osborne, chancellor of the exchequer, can seem more fiscally conservative than Germany. But his original economic plan relied on eurozone demand for UK exports picking up the slack left by brutal deficit consolidation. From his perspective, the optimal policy would have been rapid cuts for high-deficit countries but compensatory stimulus in those with room to do so. That implies resisting Germany’s push for deficit cuts by all. This could have spared the eurozone a second downturn and shortened the UK’s patch of stagnation.
So in the fiscal sphere, too, British euro membership would have tilted policy in the direction of growth. And the influence could have been substantial. Recall Prime Minister David Cameron’s “veto” of the contractionary fiscal compact. In the event it was no veto: Germany pressed ahead, via an intergovernmental treaty committing 26 states to balanced budgets. But its intent was always to change fiscal policy for the currency union as a whole. One eurozone member could have stopped it.
To deny that British euro membership would have made the crisis better for all is to ignore the difference the UK would have made. Perhaps this is credible if one thinks Britain is as mismanaged at home and ineffectual abroad as Italy. But that is a strange view to take for those who believe Britain is so much more capable than its neighbours that it is better off outside their team.