di Alessandro Penati
Pirelli deve uscire dal cul de sac in cui si è cacciata cinque anni fa, indebitandosi per strapagare la conquista di Telecom. L’avventura ha lasciato gli azionisti con l´amaro in bocca: il titolo ha perso il 30% del suo valore negli ultimi cinque anni, nonostante la Borsa sia salita del 61%. E Pirelli con tanti debiti: probabilmente supereranno i 2 miliardi a fine anno, più gli oltre 3 di Olimpia, che Consob dovrebbe chiedere di consolidare. Le dismissioni potrebbero essere una soluzione. Ma se anche Pirelli cedesse la rimanente parte di pneumatici e immobiliare, per eliminare il debito e concentrarsi in Telecom, non riuscirebbe a remunerare adeguatamente gli azionisti se non fra qualche lustro. L’alternativa – riconoscere di aver strapagato, vendere la quota in Telecom al miglior offerente, e voltare pagina – è inaccettabile per il gruppo di controllo: Pirelli diventerebbe un gruppo industriale di medie dimensioni, ancora indebitato, fuori dalle luci della ribalta.
Da qui la “riorganizzazione” di Telecom per risolvere i problemi di Pirelli: vendere le attività che valgono di più (Tim, e la Rete) per azzerare l´indebitamento; cavalcare l’entusiasmo della Borsa per il connubio media-Internet; e riposizionarsi nel settore che in Italia garantisce il maggior peso politico. Un piano giustificato con il deterioramento delle prospettive della telefonia e i vincoli posti dall’Authority, che impedirebbero a Telecom di competere. Argomentazioni deboli.
Giustamente l’Authority impedisce a Telecom di offrire ai clienti della rete fissa, acquisiti in virtù del vecchio monopolio e finanziati dal canone, un telefono che fuori di casa si trasformi automaticamente in un portatile: sarebbe un’offerta commerciale che nessun concorrente potrà mai replicare. Ma non le vieta di proporre un servizio integrato di telefonia fissa, mobile e Internet, come altri operatori. Inoltre, è vero che le prospettive della telefonia sono peggiorate ovunque, ma i problemi della società sono imputabili anche a una serie di errori nella gestione Tronchetti Provera: per primo, l’incredibile errore di valutazione al momento dell’acquisizione del controllo.
La politica di cessione delle partecipazioni estere ha concentrato l’attività di Telecom sul mercato italiano, saturo e a bassa crescita. Gli investimenti nel settore dei media, dove l’azienda vuole riposizionarsi, sono stati disastrosi: dal 2002 a oggi, le televisioni del gruppo hanno fatturato 550 milioni, perdendone 350 (prima di oneri e tasse). L’indebitamento di Telecom, più elevato della media di settore, non è piovuto dal cielo: 15 dei 41 miliardi derivano proprio dalla fusione con Tim, che è stata finanziata con il debito per non diluire il valore del premio di controllo di Olimpia. E il debito non si riduce anche perché sugli utili di Telecom grava l’onere dei dividendi che devono affluire ai piani alti della catena di controllo.
La vendita di Tim sarebbe un errore fatale: priverebbe Telecom della principale fonte di cash flow e di un vasto parco clienti da utilizzare, come fanno le società telefoniche di mezzo mondo, per finanziare gli investimenti nella banda larga e nell’acquisto di contenuti multimediali. Per comprare Tim ci sarebbe la coda. E, paradossalmente, al nuovo proprietario, basterebbe acquisire una società che già offre banda larga (come Fastweb) e, avendo risorse e clienti, negoziare accordi con grandi produttori di contenuti per ricostruire in poco tempo una “Telecom” più forte.
L’ipotesi poi che il valore delle attività Internet possa moltiplicarsi, trasformando Telecom in una media company, è discutibile. Nel connubio media-rete vince chi ha i contenuti, non chi li distribuisce: sono i contenuti a fidelizzare i clienti, non la rete, anche perché sono in molti a poter offrire l´accesso alla banda larga. Qualsiasi accordo con Murdoch andrebbe a vantaggio soprattutto di Sky. E poi, ci si dimentica che il successo di Internet implica un trasferimento di ricavi e pubblicità a danno dei media tradizionali. Ma poiché la quantità di media che le persone consumano al giorno è limitata, e la rete aumenta la concorrenza nella distribuzione, è più logico aspettarsi che in futuro siano i multipli di valutazione dei media a ridursi, piuttosto che quelli delle società telefoniche a esplodere.
La verità è che per cercare di mettere fine alle sofferenze degli azionisti Pirelli, si pregiudica il futuro di Telecom. Capisco la preoccupazione del cittadino Prodi. Ma la sua reazione come capo del Governo è censurabile per quattro ragioni. Perché non può violare le regole del libero mercato dei capitali che lui stesso ha posto alla base della costruzione europea. Perché regala al gruppo di controllo di Telecom la patente di vittima di un ottuso e obsoleto dirigismo, facendone passare in secondo piano le gravi responsabilità nella gestione del gruppo. Perché il problema non è Tim in mani straniere, ma un fallimento clamoroso di governance e regole di mercato, che permette a Trochetti Provera e ai suoi manager, che non sono proprietari di Telecom, né di Pirelli, di continuare a gestire il primo gruppo italiano, dopo cinque anni di risultati deludenti. E perché i fallimenti del nostro capitalismo non si risolvono con la quasi nazionalizzazione delle reti, attraverso la Cassa depositi e prestiti, o con la tutela pubblica che trasforma Palazzo Chigi nella succursale di una investment bank.
Le dimensioni di una società telefonica sono oggi incompatibili con la presenza di un gruppo di controllo. La miglior difesa degli azionisti di Telecom e degli interessi nazionali sarebbe dunque una società a capitale diffuso con un management scelto solo in base a capacità e risultati. Senza badare a pedigree o passaporti. E questo è possibile solo se investitori istituzionali, consiglieri indipendenti e stampa specializzata fossero pronti a fare pressioni per rimuovere il management incapace. In Telecom, come in qualsiasi altra azienda.
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