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→  giugno 27, 2006

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da Peccati Capitali

Il giorno in cui questo numero andrà in edicola, Walter Veltroni accetterà la candidatura a leader del Partito democratico. Colpisce come, dopo mesi di discussioni, la soluzione sia arrivata con rapidità e facilità, tanto da farla sembrare ovvia. Come per incanto tutte le tessere del puzzle vanno a posto.

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→  maggio 25, 2006

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SCENARI. A COSA DEVE SERVIRE

“Una soluzione alla ricerca di un problema”. L’espressione, di solito riferita a innovazioni tecnologiche, si adatta bene al Partito Democratico: qual è il problema politico di cui dovrebbe essere la soluzione? In altre parole: il Partito Democratico, va bene, ma per fare che cosa?

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→  febbraio 5, 2006

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Partito Democratico

di Michele Salvati

Al dibattito sul Partito democratico nuoce un poco la commistione tra argomenti relativi a problemi di convenienza politica contingente e argomenti relativi alle idee, ai programmi, alla cultura che questo partito dovrebbe esprimere. Il primo tipo di argomenti è di solito riferito al centrosinistra e alle strategie più opportune per favorirne il successo elettorale. Il secondo tipo è quasi sempre declinato in riferimento al Paese: come il Partito democratico possa contribuire alla costruzione di un sistema politico più efficace, che elimini o riduca le storture che ci portiamo appresso dal passato, che immetta nella nostra politica una ventata di novità.
La commistione di argomenti è inevitabile. Come discussione politicamente significativa – c’era anche prima, ma riguardava solo pochi aficionàdos – quella sul Partito democratico nasce come conseguenza di una operazione politico-elettorale, e nell’ambito delle convenienze strategiche create dalla legge elettorale maggioritaria: la formazione della lista dell’Ulivo e la decisione di candidare Prodi come premier alle elezioni politiche del 1996. Si parte dunque dal «contenitore» e dalla convenienza a costruirlo. I «contenuti», l’anima, vengono dopo, un po’ per la spinta di Prodi, un po’ per la partecipazione degli aficionàdos di cui dicevo, e soprattutto per dare un senso all’alleanza tra i riformisti del centrosinistra. Riformisti che in larga misura provenivano da partiti che l’anima l’avevano lasciata nella Prima repubblica: quali erano, nella Seconda, le ragioni che giustificavano l’autonomia di un partito ex comunista ed ex democristiano?
Insomma, ragioni di contenitori e di contenuti si sono mischiate sin dall’inizio del dibattito, hanno continuato ad accavallarsi nelle sue numerose riprese provocate dalle iniziative di Romano Prodi, e si intersecano tuttora, nella discussione che si è accesa – solo tra gli aficionàdos, naturalmente, visto che Prodi non è intervenuto – a seguito di un mio lungo appello ai Ds che il Riformista ha pubblicato martedì scorso.
Discussione di cui anche questo giornale ha dato notizia mercoledì e a cui ha contribuito con l’articolo di De Rita pubblicato ieri. Che cosa dicevo? Due cose, in sostanza. Le ragioni di contenuto ci sono sempre: un Partito democratico non solo avvantaggerebbe il centrosinistra ma sarebbe utile per il Paese. Le ragioni di convenienza elettorale si sono invece molto ridotte colla nuova legge: se si vuol fare questo partito bisogna farlo presto, subito dopo le elezioni e finché dura la luna di miele della vittoria (se ci sarà), e bisogna accompagnare il tentativo con un ritorno al maggioritario. Le reazioni più impegnative e più argomentate che ho sinora ricevuto non riguardano il ragionamento sui contenitori: tutti riconoscono che le convenienze elettorali di una fusione tra i grandi partiti del centrosinistra sono diminuite e quelle dei singoli partitile della Margherita soprattutto, sono aumentate. Questo sposta la spinta per il Partito democratico tutta o quasi sui contenuti: esistono veramente buone ragioni storico-culturali per farlo? E, soprattutto, possono queste ragioni essere espresse e rappresentate da ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, da Ds e Margherita, che dovrebbero essere i principali promotori dell’ iniziativa?
Si tratta di interrogativi che lo stesso appello provocava sostenendo una tesi all’apparenza paradossale: che il terreno comune dell’incontro non poteva essere altro che una cultura liberale, di sinistra ma liberale, perché è ormai questa la cultura dominante dei partiti riformisti nei Paesi europei, anche dei partiti socialdemocratici.
Il paradosso, mi faceva notare Biagio De Giovanni (ma anche, parlando di programmi concreti. Franco Debenedetti), sta nel fatto che nella Prima repubblica comunisti e democristiani sono stati tra i principali ostacoli alla diffusione di una cultura liberale nel nostro Paese e non si può dire che i loro successori abbiano fatto passi definitivi in questa direzione: «liberale» non è un insulto nella sinistra italiana come lo è in quella francese, ma talora poco ci manca. È una obiezione forte, lo riconosco, ma vale a maggior ragione se ex democristiani ed ex comunisti sono lasciati ognuno nel proprio contenitore, a cuocere nel proprio brodo: non potrebbe una fusione «calda», cui partecipassero molti enzimi della società civile, essere una buona occasione per sciogliere le resistenze che ancora rimangono?

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Caro Salvati, ma Bancopoli ha lasciato tracce profonde
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 3 febbraio 2006

Lettera aperta ai miei compagni
di Michele Salvati – Il Riformista, 31 gennaio 2006

→  gennaio 31, 2006

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Cari Ds, ascoltate uno di voi – Subito il partito democratico

di Michele Salvati

Sono iscritto al Pds-Ds sin dall’origine di questo partito, dal congresso di Rimini del 1991. Con Salvatore Veca, ho contribuito a… indovinarne il nome (Partito democratico della sinistra), anche se poi esso fu adottato per motivi contingenti e sbagliati. Se si va a rileggere il nostro appello dell’estate dell’89 (pubblicato su uno degli ultimi numeri della vecchia Rinascita, con un titolo che potrebbe essere riutilizzato ora per il partito democratico: Se non ora, quando?), si vede però che noi non avevamo nulla contro il socialismo – anzi, dicevamo chiaramente che il socialismo democratico aveva vinto la sua sfida contro il comunismo – e non ci interessava molto la polemica contro i socialisti italiani. Quella polemica fu invece determinante nell’adozione del nome che avevamo proposto, che non conteneva, ma per tutt’altre ragioni, gli allora esecrati termini «socialismo» o «socialdemocratico». Gli argomenti principali di quell’appello sono gli stessi che muovono me ora (e credo anche Veca) a sostenere un’ulteriore trasformazione, quella finale, la confluenza entro un grande partito democratico.Nel Pds e poi nei Ds ho militato – il termine mi piace poco, ma è quello che si usa – lealmente sempre e spesso appassionatamente in questi quindici anni. Insieme a un piccolo gruppo di compagni, in esso ho condotto la mia battaglia politica per il partito democratico, testimoniata dagli scritti raccolti nel libro omonimo (Mulino, fine 2003). Ho fatto parte dei suoi organi direttivi e sono stato suo parlamentare durante la legislatura in cui il centro-sinistra ha avuto responsabilità di governo. Ho imparato ad apprezzare l’eredità di passione, impegno e onestà che il nuovo partito riceveva, insieme ad altri lasciti che mi piacevano meno, dal partito comunista. Insomma, anche se per temperamento sono assai poco partigiano, i Ds sono stati sinora la mia casa politica.
Perché questi riferimenti personali, che non mi sono consueti e che qualcuno potrebbe giudicare un poco fastidiosi? Perché vorrei si capisse bene che questo è un appello rivolto ai Ds e che viene dall’interno e da lontano. E’ la proposta di un iscritto al partito, sia pure in attesa di traslocare al partito democratico. Ed esprime la meraviglia che i suoi dirigenti non si rendano conto della necessità e dell’urgenza del compito che sta loro innanzi. Altri, in altri partiti riformisti, conducano la loro battaglia in casa propria: in Margherita c’è un bel gruppo che si impegna nella scia di Nino Andreatta. E altri ancora conducano la battaglia esterna, nei comitati per l’Ulivo, nelle associazioni per il partito democratico che stanno spuntando un po’ ovunque. A me, e ai sostenitori del partito democratico iscritti ai Ds, compete anzitutto cercare di convincere il nostro partito.

Un controfattuale
Necessità e urgenza, dicevo. Urgenza anche elettorale, perché ha perfettamente ragione Ilvo Diamanti (Repubblica, 22/01/06) a sostenere che gli elettori non ci capiscono niente in una lista unitaria alla Camera e liste di partito al Senato: o ci si presenta uniti sempre – e allora il partito democratico è un esito scontato – o ci si presenta sempre divisi, per sfruttare al meglio le caratteristiche della nuova legge elettorale. Uniti sempre non ci si voleva presentare: forse non era neppure conveniente, bisognava prima contarsi, …e poi dov’è questa fretta? Ma divisi, per i partiti, sarebbe stato ancor peggio, perché allora la presentazione di una lista Prodi sarebbe stata inevitabile, e questo era fumo negli occhi per i Ds ma soprattutto per la Margherita. Questo punto, anche se contingente, va un poco sviluppato perché è un esempio «controfattuale» molto efficace per capire le logiche di comportamento dei nostri partiti.
Il momento magico è subito dopo le primarie. Il 17 ottobre, appena noti i risultati, Prodi poteva convocare i partiti e far loro questo ragionamento: «E’ vero, il risultato di ieri dimostra solo che nel nostro popolo c’è una gran voglia di unità, una gran voglia di partecipazione, una gran voglia di defenestrare Berlusconi, e che io gli vado bene come candidato premier. Non è ancora una domanda esplicita di partito democratico. Ma la costruzione di questo partito, per natura sua, è un esercizio di arte politica. E’ profittare delle occasioni per costruire qualcosa che ancora non c’è, per soddisfare una domanda che è ancora latente in gran parte del nostro popolo; è una proposta egemonica che compete a noi, leader del centro-sinistra, se siamo veri leader. E allora facciamo così. Diciamo con chiarezza che subito dopo le elezioni faremo il partito democratico. E che però, per profittare al meglio di questa sciagurata legge elettorale, ci presentiamo divisi, io con la mia lista Prodi, voi con le vostre liste di partito. Tutti d’accordo, però, senza conflitti, e facendo mostra di grande unità». Potete immaginare le reazioni a questo discorso, se fosse stato fatto?

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Caro Salvati, ma Bancopoli ha lasciato tracce profonde
di Franco Debenedetti – Il Riformista, 3 febbraio 2006

E’ ora di sdoganare la parola “liberale”i
di Michele Salvati – Il Corriere della Sera, 05 febbraio 2006

→  agosto 31, 1994


Che lo schieramento provvisoriamente chiamato partito democratico necessiti, per formarsi, di un leader, è cosa su cui si discute già da prima delle elezioni: Ciampi, Spaventa, D’ Antoni, Veltroni, ora Prodi. Altri si starebbero scaldando in panchina. Adesso, quello che sta diventando chiaro è che c’è bisogno non di uno ma di due leader: trovare un leader al partito conservatore è forse ancora più urgente, se vogliamo sperare che le attuali traversie del sistema politico italiano conoscano un esito verso un accettabile gioco democratico.

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