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→ gennaio 10, 2016
Analisi dell’economista ed ex ministro Paolo Savona
Errare è umano, perseverare è diabolico. Ho pensato a questo vecchio detto quando ho letto la definizione che la Banca d’Italia ha dato del BRRD, la nuova direttiva per la “soluzione” delle crisi bancarie (Dio ci protegga dagli acronimi e dai termini inglesi che ne celano il significato): «Le nuove norme consentiranno di gestire le crisi in modo ordinato attraverso strumenti più efficaci e l’utilizzo di risorse del settore privato, riducendo gli effetti negativi sul sistema economico ed evitando che il costo dei salvataggi gravi sui contribuenti».
Questa definizione implica che: 1) le gestioni delle crisi precedenti fossero meno ordinate, in sostanza una critica che la Banca d’Italia rivolge a se stessa; 2) i nuovi strumenti saranno più efficaci di quelli usati in passato; 3) le risorse proverranno dal settore privato; 4) gli effetti negativi delle crisi sul sistema economico verranno ridotti; 5) i contribuenti non subiranno più il costo dei salvataggi bancari. Questa elencazione dei molti vantaggi ricorda un episodio accaduto all’Assemblea francese: un ministro esordì affermando che aveva molti buoni motivi per avanzare la sua proposta; lo interruppe un deputato logicamente agguerrito che obiettò «se dispone di una buona ragione basta e avanza; ci risparmi dal sentire gli altri».
Nessuno degli effetti indicati dalla Banca d’Italia ha solidi fondamenti. In passato la soluzione delle crisi ha funzionato bene, ne consegue che gli strumenti usati erano efficaci; le risorse provenivano anche dal settore privato e affluivano mosse dalla convenienza, non dall’obbligo di legge come sarà da questo momento in poi; l’economia reale ha sempre beneficiato del precedente regime, mentre non accadrà lo stesso in futuro; l’onere sulla collettività era spalmato in modo più equo di quanto non avverrà con la nuova legge che penalizza il risparmio.
La logica economica prescrive che per raggiungere ciascun obiettivo si deve applicare almeno uno strumento, mentre la nuova legge prevede un solo strumento per raggiungere i cinque obiettivi indicati dalla Banca d’Italia; la realtà è che il vero scopo del provvedimento è unico: trasferire la responsabilità delle crisi prodotte dalle autorità italiane ed europee ai risparmiatori anche piccoli, quelli che avrebbero dovuto tutelare.
La decisione è frutto della grave malattia che ha colpito l’Europa, quella di voler isolare i bilanci pubblici dalle vicende dell’economia e della società che le autorità dovrebbero governare, ma non riescono a farlo, come dimostra la grave crisi finanziaria diffusasi a seguito delle insolvenze dei crediti subprime e dei loro derivati. Per proteggere i conti pubblici si penalizzano quelli delle famiglie, già messe a dura prova dall’incapacità mostrata dalle autorità di saper governare la crisi e la sua diffusione. La legittimazione dell’irresponsabilità delle autorità e della responsabilità dei risparmiatori è priva di basi pratiche; infatti il nuovo regime di risoluzione delle crisi porta sulle spalle delle banche un onere solo inizialmente prevedibile, quello di costituire un fondo presso l’organismo di tutela dei depositi, e un onere imprevedibile se lo devono ricostituire se utilizzato.
Le banche trasferiranno l’onere in forme più subdole alla clientela per ricostituire il rendimento del loro capitale al fine di evitare i riflessi negativi sulla loro capacità di concedere credito alle imprese produttive e, di conseguenza, all’intero sistema economico; ma non basta, perché ridurranno la remunerazione del risparmio a esse affidato e aumenteranno il costo dei servizi prestati. In conclusione la collettività pagherà comunque l’onere degli interventi in forme più difficili da valutare.
Chi trae un vantaggio dalla nuova regolamentazione sono quindi solo le autorità responsabili delle crisi per non aver saputo governare il mercato. Ma anch’esse si illudono, perché se vogliono avere un sistema del credito e del risparmio all’altezza dei compiti che attendono l’economia fuori dalle speranze e dalle chiacchiere in corso dovranno darsi carico di studiare un meccanismo meno pericoloso di quello approvato che protegga l’offerta di credito e il risparmio che la sostiene.
Ciò che sconcerta in questo provvedimento, come nella spiegazione datane dalla Banca d’Italia che lo ha propiziato, è che non si parla del problema di fondo, quello di chi fornisce le informazioni ai clienti della banche; danno invece la colpa alla loro ignoranza, che è anche frutto delle omissioni pubbliche in materia.
Ammesso che l’ignoranza possa essere attenuata o, al limite, anche sconfitta, su quali basi statistiche deve poggiare l’uso del sapere finanziario conquistato dai risparmiatori e chi è tenuto a fornirle? In passato, la tutela del risparmio era stata affidata alle società di rating, istituzioni private che ne hanno combinato più di Bertoldo di Francia. Non si può delegare a esse o altre simili istituzioni private il compito di attuare l’art. 47 della nostra Costituzione. Devono provvedere le autorità. Ciò sarà possibile solo dividendo nettamente il sistema dei pagamenti, le cui prestazioni vanno totalmente garantite dallo Stato, dal sistema del credito, che si svolgerà sotto il controllo del Governo, la vigilanza di enti delegati e, in caso di crisi, risolto con norme meno rigide di quelle erroneamente introdotte con il bail in. Si può sperare in una maggiore attenzione al problema da parte degli organi democratici rispetto a quella finora prestata? Le informazioni raccolte sul trattamento discriminante seguito dai paesi membri dell’UE testimonia il modo affrettato e superficiale con cui la direttiva è stata varata e da noi approvata.
Porvi rimedio è tanto più urgente e importante quanto più si intendono ridurre i livelli di protezione sociale per necessità legate alla competizione globale con paesi che non hanno gli stessi livelli. Da decenni si va operando sul sistema pensionistico senza sviluppare in parallelo regimi di tutela del risparmio volontariamente accumulato; anzi le due responsabilità, quella di formarsi una previdenza integrativa continuando a contribuire a quella pubblica vengono accompagnate da un aumento dei rischi finanziari corsi dal cittadino, ormai ritornato allo stato di suddito di leggi improvvide approvate dal suo decisore collettivo, il Parlamento.
La protezione della collettività dagli oneri delle crisi non può avvenire infliggendo ai risparmiatori una perdita, con le conseguenze indicate, ma migliorando i meccanismi pubblici di informazione e di vigilanza, come pure i meccanismi di soluzione delle crisi; per questi ultimi insisto sul fatto che vanno eliminati i conflitti di interesse esistenti che hanno generato ritardi nel salvataggio e oneri più elevati per la collettività, ponendo le funzioni di vigilanza e di soluzione in posizione di autonomia e reciproca indipendenza.
Come consuetudine, lo si capirà solo dopo che i buoi sono scappati dalle stalle, ossia a crisi scoppiata.
→ febbraio 13, 2015
Comunque vada a finire con la Grecia, l’Eurozona non sarà più la stessa, dice Ambrose Evans-Pritchard del Daily Telegraph. Nel senso che l’euro sarà più forte o più debole? Più debole lo sarà certamente se la Grecia resta nell’euro. Non per il costo del bail out, ma per la credibilità dei trattati: essi sono l’essenza stessa dell’Unione. Come si fa a tenere dentro un paese che prima è entrato falsificando i conti, ora fa di tutto per dimostrare di non riconoscere gli impegni e neppure di conoscere le regole di convivenza nel gruppo? I leader di Syriza hanno incominciato il loro giro in Europa da Londra, che non fa parte dell’Eurozona, quasi a significare che i loro interlocutori sono i mercati e non le burocrazie di Bruxelles o di Francoforte. Hanno proseguito a mettere dita negli occhi chiedendo a Berlino di pagare i debiti di guerra e a Francoforte di distribuire gli utili sul trading dei bond, non secondo il capital key nella Bce, ma secondo la nazionalità di origine. Il ministro delle Finanze ellenico Varoufakis sarebbe esperto di teoria dei giochi, ma sembra usare la sua scienza per perdere, cerca di mettere cunei tra persone o paesi che non hanno nessun interesse a dividersi: il sud Europa contro la Germania, Juncker contro la Merkel, gli Stati Uniti contro l’Europa, i diritti della democrazia contro i doveri derivanti dalle cessioni di sovranità. Qualcuno ha paragonato Varoufakis a chi si punta la pistola alla tempia e chiede gli si paghi un riscatto per non premere il grilletto. Un giorno o l’altro Tsipras dovrà fare i conti con le promesse fatte agli elettori: ma per ora più che convincerli ad accettare posizioni realistiche, sembra voler preparare il capro espiatorio a cui addebitare il default a cui li sta portando. Come potranno, Commissione e Consiglio europei, chiedere agli altri paesi il rispetto dei trattati e degli impegni? Perde credibilità tutta una politica di riforme strutturali, di un euro solido come base per crescita e investimenti. Il contagio è certo, l’euro diventa più debole.
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→ luglio 31, 2014
Stop all’austerità, sì alla crescita: è il motto dei referendum per abrogare parti della legge che attua il principio costituzionale del pareggio di bilancio. Iniziativa per più versi singolare: non è impresa da poco raccogliere le firme; è controverso che sia “referendabile” una legge approvata con speciali modalità; il pareggio di bilancio è da sempre una bandiera della destra e tra i proponenti ci sono persone che della destra sono stati esponenti di rilievo.
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→ luglio 20, 2014
di Paolo Savona e Michele Fratianni
Il ministro Carlo Padoan non è uno sprovveduto: conosce l’economia, come disciplina accademica, e ha esperienza di vita concreta di policy all’interno e all’estero. Se dichiara in Parlamento che il programma del Governo Renzi include l’attuazione delle sei raccomandazione che il Consiglio Ecofin dell’Unione Europea dobbiamo credergli. Quando però afferma che la crescita, divenuta l’obiettivo della politica europea, è inferiore alle aspettative – anzi quasi nulla, come indicano la realtà e le ultime previsioni della Banca d’Italia – e tarda a manifestarsi ignora o finge di ignorare che esiste una frattura tra gli auspici di sviluppo del suo Governo e dell’Ue e il programma indicato. Naturalmente risponderà ancora una volta, come fatto dai precedenti ministri, che ciò non è dovuto al programma di riforme richiesteci dall’Europa e accettato dal Governo, ma al ritardo nella sua attuazione.
Il problema, invece, potrebbe essere nel programma stesso. Non è la prima volta che, unitamente a illustri colleghi, abbiamo sostenuto l’incoerenza tra la pressione tributaria sui redditi e sui risparmi e l’inarrestabile procedere della spesa pubblica, che è la vera causa del freno alla crescita del Pil e dell’occupazione. La strategia dominante di riduzione del deficit di bilancio pubblico e di perseguire avanzi primari per ridurre il rapporto fra debito pubblico e il prodotto interno lordo non ha funzionato, anzi ha avuto effetti perversi sulla crescita.
I sacrifici fatti hanno prodotto effetti irrisori rispetto alle forze che agiscono direttamente sulla consistenza della spesa pubblica e del debito statale in rapporto al Pil e hanno penalizzato la crescita economica. Quante altre conferme dobbiamo attendere prima che i Governi cambino strategia? Necessita un’azione sul debito pubblico e non sui flussi che tagli in breve tempo una fetta sostanziosa del suo stock senza penalizzare la crescita economica e il valore reale dei risparmi accumulati dagli italiani. Questa strategia passa attraverso una disponibilità a pronti e una cessione secondo i tempi del mercato dei beni dello Stato che permetta prima un alleggerimento dell’eccessivo peso del settore pubblico sul settore produttivo e poi un rilassamento della morsa deflazionistica dell’alta fiscalità. Il programma di questo Governo non affronta il nocciolo del problema e, di conseguenza, finirà per aggravarlo. Spieghiamo il perché.
Se la politica tributaria suggerita dall’Ecofin e condivisa dal Governo intende spostare l’onere della pressione fiscale dai redditi ai consumi e alla ricchezza, spingendo l’operazione fino a garantire un avanzo primario strutturale che avvii la riduzione del debito pubblico (anche se in un arco di un quarto di secolo), ci sono tutte le premesse che il Paese entri in una crisi strutturale irreversibile. Il problema della povertà di cui si discute in questi giorni verrà attenuato con una riduzione del Pil pro capite che, come noto, è la base di questi calcoli: se tutti diventassimo più poveri a seguito delle politiche seguite, i poveri attuali lo saranno relativamente meno. La filosofia sottostante la politica di redistribuzione del reddito e della ricchezza è nel Dna della sinistra tradizionale. Essa ha come sfondo non ideologico l’ipotesi che i meno abbienti spendano più dei maggiori abbienti e, quindi, il moltiplicatore keynesiano del reddito salga.
Condendo questa filosofia con istanze di equità sociale si ottiene il consenso, ma si produce un risultato perverso sul reddito e l’occupazione perché non si tiene conto che la domanda aggregata riguarda una struttura dell’offerta interna di prodotti e servizi che agisce in senso deflattivo se vengono ridotti i redditi dei più abbienti; ciò induce le imprese a delocalizzare produzioni e occupazione e i risparmiatori a risparmiare di più per fini cautelativi e compensare le perdite di reddito atteso e di valore della ricchezza accumulata dovuto alla maggiore tassazione. Si causa cioè un contro-effetto certo sulla crescita rispetto a quello incerto atteso dalla redistribuzione del reddito. Questo effetto è particolarmente grave nel settore immobiliare che resta un motore di crescita più potente delle esportazioni – come testimoniano anche i dati 2013 esposti nella Relazione della Banca d’Italia – ma viene discriminato come testimoniano le dichiarazioni rese in Parlamento dal ministro dell’Economia, che afferma essere questa una precisa volontà dell’Ecofin.
Draghi condivide questa impostazione avendo escluso l’edilizia dalle operazioni straordinarie finalizzate alla crescita preannunciate per settembre (campa cavallo…) per paura di nuove bolle speculative, mentre in Italia queste “bolle” sono deflattive! In sintesi, temiamo che vi sia una tremenda confusione di idee e, quindi, di politiche. Se il Governo vuole veramente la crescita, operi sulla dimensione e l’efficienza della pubblica amministrazione e lasci in pace fiscalmente il resto del sistema per un lungo periodo. Produzione e occupazione rifioriranno, sospinti da consumi e forse anche da investimenti (ma questa è un’altra e più complicata storia). In queste condizioni potremmo realizzare anche la tanto agognata e necessaria stabilità politica.
→ maggio 9, 1994
Nelle privatizzazioni «il governo, ha scritto su «La Stampa» l’ex ministro dell’Industria Paolo Savona nella sua intervista alla Stampa, aveva deciso di valutare caso per caso quale dei tre obbiettivi (sviluppo, governabilità, diffusione dell’azionariato) dovesse essere privilegiato nell’interesse generale del Paese». Non sembra trattarsi di alternative diverse: il governo si legittima anche in ragione dello sviluppo che riesce, a promuovere, e la diffusione, dell’azionariato non è un bene in sé, ma solo se serve ad evitare intrecci di interessi che frenino lo sviluppo e vendichino il controllo. In realtà la vera scelta è tra il massimizzare i proventi per i venditori (l’Iri o il Tesoro) e il cogliere l’occasione delle privatizzazioni per ridisegnare la mappa delle attività imprenditoriali nel Paese: nel senso, si sperava, della modernizzazione e dell’allargamento.
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