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Archivio per il Tag »Paolo Bricco«

→  dicembre 2, 2014


di Paolo Bricco

L’Ilva colpisce al cuore, economico e giuridico, il nostro Paese. Ed esprime due verità amare. Prima verità: l’Italia ha necessità dell’acciaio prodotto a Taranto. Dunque, una soluzione industriale va trovata. E bene fa Renzi a gestire in prima persona il dossier. Seconda verità: lo Stato Imprenditore non ha dato buone prove, nel nostro Paese, ed è una opzione culturale che non ci appassiona. L’auspicio è che l’ansia di evitare il collasso non faccia cadere il Governo in tentazioni neo-stataliste. Per questo, non si può essere favorevoli alla nazionalizzazione tout court. Nazionalizzazione che è una pratica estrema, da non confondere con il mix ben temperato – anche con dosi massicce – di politiche industriali pubbliche e di concorrenza privata. La quale sarà pure la peggiore forma di ingegneria delle istituzioni economiche. A parte, però, tutte le altre. L’Italia, peraltro, ha bisogno che il profilo della sua cultura giuridica non sia sbrecciato e divelto da soluzioni di emergenza che, ricorrendo in misura eccessiva a strumenti pervasivi come la Legge Marzano, minino i meccanismi di funzionamento del mercato e i principi basilari del diritto a partire dalla proprietà privata. Nessuno chiede sanatorie extra-giudiziali.

Nessuno auspica sconti in tribunale. Ognuno dovrà rispondere – fra i proprietari e gli amministratori locali, i politici e i sindacalisti – di quanto ha fatto, negli ultimi vent’anni, fra Taranto e Roma. E nessuno vuole sottacere le responsabilità della famiglia Riva, che andranno ovviamente verificate e giudiziariamente accertate. Resta, però, il fatto che il contesto giuridico è segnato da un profluvio di leggi speciali che ha creato una sedimentazione gelatinosa, che ormai ricopre il sistema economico italiano e su cui difficilmente gli investitori stranieri avranno un gran piacere di mettere i loro piedi (e di puntare i loro soldi). Adesso, nell’ultima ipotesi di salvataggio ventilata dal Governo, c’è appunto un uno-due che rischia di colpire al mento l’Ilva e di fare barcollare contestualmente l’intero sistema economico: il default pilotato, con il fallimento sostanziale e l’applicazione della legge Marzano.
L’Italia deve dimostrare di sapere gestire problemi complessi, in cui le componenti industriali e finanziarie, politiche e sociali, giudiziarie e di policy si trasformano in un unicum indistricabile.

L’Ilva è uno di questi.  La Legge Marzano non può diventare lo strumento con cui gestire queste complessità. In questo caso specifico, l’Ilva è stata gestita dai legittimi proprietari, i Riva, con efficienza. Non ha mai perso soldi. Gli utili, dal 1995, sono sempre stati reinvestiti nell’impresa. L’impianto, il maggiore d’Europa, ha avuto livelli di produttività industriale pari o superiori agli standard tedeschi. I problemi ambientali – quelli reali e quelli percepiti, quelli della verità storica e quelli della verità giudiziaria – hanno portato a un commissariamento che, in maniera graduale ma inesorabile, si è trasformato nei fatti in una cancellazione sostanziale dei diritti di proprietà. Un percorso accidentato, in cui molti principi del diritto liberale e del funzionamento dell’economia di mercato sono stati poco alla volta compromessi. Adesso, il paradosso finale: lo Stato ha commissariato l’azienda, l’ha gestita bruciando qualcosa come 2,5 miliardi di euro di capitale netto in poco meno di due anni e mezzo, ha deciso di venderla come fosse una impresa sua e non di imprenditori privati e adesso, dato che la fabbrica perde a bocca di barile, pensa – fra le ipotesi ventilate – di chiederne l’amministrazione straordinaria attribuendo alla Marzano una centralità che ha già avuto nel caso Parmalat, nel 2003, e nel caso Alitalia nel 2008.

Nel paradosso Ilva, dunque, adesso c’è il rischio – come può capitare con la Marzano – di uno spossessamento della proprietà. L’Ilva rischia, infatti, di sperimentare una insolvenza, originatasi nella miscela di provvedimenti giudiziari e di atti di Governo. In conseguenza dell’amministrazione straordinaria, la società potrebbe diventare un asset che viene utilizzato per soddisfare i creditori o potrebbe diventare un asset con cui alimentare la distinzione fra bad company e good company. Nel caso specifico, dunque, verrebbe così sancito formalmente l’“esproprio” che la famiglia proprietaria ha già subito nei fatti. Sul processo ambientale di Taranto, i Riva peraltro non solo non hanno subito una condanna, ma nemmeno sono stati rinviati ancora a giudizio. Dunque, non appare corretto che passi il principio di uno “spossessamento” attuato da uno Stato che ha già mandato in tilt finanziario una impresa che, a sua volta, si è brutalmente incartata – in questi due anni e mezzo – nei meandri di un procedimento giudiziario. Così come è, invece, corretto che si accertino, nelle sedi opportune, tutte le responsabilità che riguardano la vitale questione ambientale. Naturalmente, in questo quadro, è bene che il Governo sostenga l’irrinunciabilità dell’Ilva. La sensibilità evidenziata da Renzi verso questa architrave della nostra manifattura mostra la sua consapevolezza che, senza l’acciaio prodotto a Taranto, la fisiologia economica italiana diventerebbe più gracile e ancora più esposta alla dipendenza dalle forniture straniere. Serve, in questa fase, equilibrio. Viviamo tempi difficili. Ci sono soggetti pubblici di diritto privato, investitori industriali esteri e italiani. Strumenti adeguati di mercato esistono: nella partita Ilva ci sono e appaiono disponibili. Possono essere le tessere di un mosaico articolato e complesso. Il mosaico dell’industria italiana prossima ventura.

→  aprile 28, 2011


di Paolo Bricco

Ai francesi i brevetti e i segreti industriali del gruppo di Parma

Mani francesi sulle tecnologie italiane.
In caso di successo dell’Opa, Lactalis controllerà un’azienda ristrutturata dalle fondamenta da Enrico Bondi, con un ciclo di investimenti ultimato e un mix di segreti industriali e di brevetti depositati che la rendono un boccone prelibato. Molto prelibato. Più di quanto non sembri a un occhio superficiale, che si fermi alla natura di commodity del latte e che associ una scarsa forza innovativa all’agroalimentare.

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