Al direttore.
Domani Franco Debenedetti, voce tra le più limpide del riformismo italiano, taglia il traguardo dei novant’anni. E’ una bella notizia, anche perché la sua vitalità intellettuale conferma che l’età che conta è quella della mente, mentre l’età anagrafica non è, di per sé, indicativa di nulla. In un paese in cui la retorica del giovanilismo tocca talvolta vette grottesche, è una verità che andrebbe riscoperta. E in un paese in cui si continua a cercare il consenso dei contemporanei a carico dei posteri, la sua biografia di imprenditore e parlamentare, di presidente dell’Istituto Bruno Leoni e di studioso del capitalismo postindustriale, racconta un’altra storia. Una storia che rivendica l’autonomia morale dell’individuo contro le (cattive) ragioni della cattiva politica. L’etica della responsabilità personale dovrebbe essere connaturale alla democrazia liberaldemocratica, fondata su doveri di cittadinanza liberamente accettati e condivisi, mentre vengono meno in una concezione hegeliana dello stato come soggetto che pretende di imporre ai cittadini i loro stili di vita. In questo senso, la libertà non è una polizza di assicurazione sul benessere o sulla felicità. Si può essere agiati e felici senza essere liberi, si può essere liberi senza essere felici e neppure agiati. La libertà assicura soltanto se stessa. Grazie, Franco, per il tuo lungo impegno a favore della società aperta.
C’è voluto del tempo per smaltire, almeno in parte, il populismo, cresciuto parossistico sulla tragedia del crollo del ponte di Genova. Alcune criticità sono diventate evidenti e rimediabili: ad esempio quella dei margini molto elevati che le precedenti concessioni lasciavano al concessionario, in via di risoluzione man mano che i metodi tariffari convergeranno verso lo standard definito dall’Autorità. Altre risentono ancora di quella temperie: ad esempio quella relativa agli assetti proprietari, dove sembra prevalere l’idea di fare acquistare ASPI da CDP. Lungi dall’essere una soluzione, sarebbe invece un grave, duplice errore: perché così il perimetro dell’intervento dello Stato si amplierebbe significativamente, inglobando una struttura privata rilevante per dimensione e per importanza. Ma soprattutto perché verrebbe fatta passare come risposta ai problemi sistemici che il crollo ha messo in luce. Sistemici, perché Genova non è il solo caso di crollo verificatosi sulla rete stradale, anche là dove non era di proprietà privata. Perché si verificano i crolli? Che cosa si deve fare per evitare il che si ripetano? A queste domande la nazionalizzazione non offre risposte.
Davvero, come scrive Galli della Loggia (“Le regole senza più la sanzione”, Corriere della Sera 18 dicembre) – “gli italiani sono in […] larga misura ostili al mercato”? Dipende dalla definizione che si dà di mercato: che non è un mezzo per realizzare giustizia sociale, promuovere la crescita, favorire l’innovazione, né per qualsiasi altro fine. Il mercato è uno strumento per trovare i prezzi delle cose. L’opposto è lo statalismo, in cui è il governo a fissare i prezzi. Noi ne abbiamo avuto un assaggio quando lo Stato possedeva un buon 50 per cento dei mezzi di produzione: dubito che chi per spender meno cambia la sim del suo telefonino, o confronta offerte di viaggio aereo, desideri ritornare ai tempi in cui il vettore era solo Alitalia, il telefono solo Stet, e per avere un allacciamento elettrico bisognava attendere mesi. E infatti Galli della Loggia precisa: “Ostili, per come il mercato funziona qui da noi”.
La rinviata scadenza del bando per la vendita dell’ILVA – ufficialmente per valutare eventuali modifiche al piano ambientale – è anche un’occasione per aggiornare le considerazioni sul futuro del centro siderurgico dopo le tempeste che l’hanno colpito. Sì, al plurale perché sono due: quella di Taranto, per l’ambiente; quella mondiale, per la sovrapproduzione del mercato dell’acciaio.
Ben scavato, vecchia talpa!”, dicevano una volta i compagni. Adesso il comunismo è morto, e neanche la talpa si sente più tanto bene. Viene in mente leggendo che Enel, municipalizzate, Terna, alla notizia che Matteo Renzi è disposto a mettere soldi pubblici per dare a tutti gli italiani la banda larghissima, si son fatti avanti per dare una mano al premier per vincere la cocciutaggine di Telecom Italia. Tutti telefonisti? Manco per sogno, tutte talpe, tutti scavatori di cunicoli per i loro cavi dell’energia elettrica. Farci passare anche la fibra non costa molto, e con un po’ di soldi dal governo, un po’ da Telecom che dovrà connetterla alla sua rete, ci si può cavare la giornata: e far contento il governo.