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→  ottobre 31, 2007

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I PUNTI A FAVORE: Il progetto di legge mira a superare la normativa del 2002 che era sprovvista di razionalità – GLI ELEMENTI CRITICI: L’iniziativa ripristina vecchie impostazioni senza proporre una strategia di revisione complessiva

di Alberto Alessandri

Se si ricostruiscono gli articoli 2621 e 2622 del Codice civile con le modifiche che il Governo è intenzionato ad apportare, si ha la sensazione di un complessivo ritorno alle origini, a prima della riforma del 2002.
Nel Ddl del Governo di quell’intervento non è rimasto nulla. È sparita la degradazione a illecito contravvenzionale della fattispecie base prevista dall’articolo 2621, tanto teoricamente ingiustificabile quanto chiaramente spiegabile con una volontà di mascherata (ma non troppo) depenalizzazione sostanziale. È scomparsa l’altrettanto incomprensibile procedibilità a querela nella figura intermedia che poteva essere letta solo come strumento di ulteriore deflazione della punibilità. Ma, soprattutto, è scomparso il riferimento al danno patrimoniale, la cui assunzione a nocciolo duro dell’evento nella figura delittuosa costituiva il tratto distintivo della riforma: la trasformazione del falso in bilancio (e degli altri reati societari) da figura a tutela di interessi collettivi a presidio, parziale, degli interessi patrimoniali di soci e creditori (solo nel 2005 si sarebbe aggiunta anche la società). Il danno era la chiave di volta della frammentazione del falso in bilancio in tre ipotesi distinte e l’autogiustificazione della procedibilità a querela. La marcata patrimonializzazione costituiva la rampa d’accesso alle soglie quantitative. Se quel falso era solo un modo di aggressione al patrimonio, poteva aspirare a qualche comprensibilità che il legislatore ponesse limiti dimensionali, al di sotto dei quali non c’era un’offesa tale da legittimare l’intervento penale.
Gli interventi successivi, apportati con la legge 262/2005 (a tutela del risparmio) sono stati tanto maldestri quanto inefficaci. L’apoteosi della frammentazione, raggiunta con un falso in bilancio colpito, se inferiore alle soglie, con una sanzione amministrativa, tocca il culmine dell’inefficacia mediante l’impiego di “quote” che la legge prevede solo per le persone giuridiche e non per gli individui mentre le sanzioni amministrative accessorie colpiscono più duramente delle sanzioni per i falsi penalmente rilevanti.
La costruzione normativa era sprovvista di razionalità punitiva. Ancor meno tollerabile quando si mantengono elevatissimi livelli sanzionatori per la bancarotta e si insegue un facile successo popolare con inasprimenti draconiani in materia di abusi di mercato.
Il provvedimento del Governo riporta un minimo di equilibrio nel sistema, quasi che il pendolo, esaurita la sua spinta (maliziosamente: anche la sua efficacia?), si voglia che ritorni al suo vecchio punto di origine.
Tuttavia, così non è, poiché il pendolo torna più indietro dell’antico punto di partenza, indifferente alla storia. Si possono trascurare le scorie visibilmente dovute alla fretta. Si può anche tacere sull’aggravante specifica, costruita in termini inaccettabilmente generici e sulla grottesca formula dei «fatti materiali non rispondenti al vero ancorché oggetto di valutazioni».
C’è piuttosto da segnalare la volontà di inasprire la figura (al puro servizio della prescrizione) per le società quotate e, con approssimativo parallelismo, alle società soggette a revisione obbligatoria. Nella fretta demolitrice scompare anche l’intenzionalità del falso (mentre per i revisori si richiede che agiscano “consapevolmente”).
Possono apparire segnali di poco conto. Ma testimoniano, ancora una volta, la grave mancanza di una riflessione seriamente riformatrice.
Nessuno dovrebbe dimenticare, tanto meno il legislatore (anche se affannato), alcuni dati. Era diffusa l’opinione che il vecchio falso in bilancio fosse urgentemente da riformare, anche per le intollerabili deformazioni giurisprudenziali che aveva subito; che il primo passo in questa direzione fosse quello di conferire certezza alla fattispecie; che di conseguenza occorreva ritagliare con attenzione, guardando anche al versante civilistico, l’area di rischio penale, soprattutto all’interno dei Cda (l’intenzionalità voleva essere un argine per i consiglieri non operativi), a fronte di una giurisprudenza quasi totalmente insensibile alle trasformazioni dei flussi informativi nelle società; che si dovesse inquadrare la riforma in una revisione complessiva, indispensabile per una risposta sanzionatoria equilibrata e per evitare che l’intervento sui singoli tasselli aumentasse la pressione su aree più cedevoli.
Alla fine, nel progetto del Governo, l’unico filtro selettivo è affidato all’idoneità ingannatoria, elemento nel quale anche chi scrive aveva creduto, all’epoca della commissione Mirone. L’esperienza successiva ha affievolito quell’opinione, vista la polverizzazione che di quel requisito ha compiuto la giurisprudenza, mentre ha confermato che le riforme parziali sono un sacrificio rituale sull’altare del diritto penale simbolico, che si fa ornamento di riforme epocali e cucina in fretta modifiche di piccoli frammenti. Il quadro d’insieme continua a essere eluso.

Alberto Alessandri, Università Bocconi

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