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→  ottobre 11, 2008

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Con il decreto il Governo ha agito con prontezza e in modo ben congegnato. Prima il ministro dell’Economia, poi ieri il premier hanno espresso opinioni che hanno avuto effetti negativi sui mercati

Nel piano detto “salvataggio delle banche”, il Governo, va riconosciuto, ha fatto (quasi) tutte le cose giuste. Fallito il coordinamento europeo, ha agito con prontezza, per evitare al nostro sistema bancario l’effetto spiazzamento da parte delle banche estere.

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→  ottobre 5, 2008

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Ma noi, in Italia, oggi, che cosa possiamo fare?
Ormai sulla natura della crisi, dimensione, cause, abbiamo letto tutte le analisi possibili. Lamentazioni sui valori morali perduti, sulle società troppo liquide e le banche troppo poco solide, hanno saturato anche i più esigenti. Sui rimedi che si stanno approntando in USA abbiamo sentito le opinioni di chi è contrario e non li vorrebbe in nome del liberismo, di chi è contrario ma li accetterebbe in nome del pragmatismo, di chi è contrario e vorrebbe qualcosa di più “sociale” in nome del populismo. Ma è un po’ come fare il tifo per le elezioni americane, tanto non votiamo.

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→  settembre 26, 2008

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di Giuseppe De Rita

Caro direttore,
non sono passate molte settimane da quando scrissi sul rapporto fra mercato e intervento pubblico, rapporto che, per me antico saraceniano, corrisponde al concetto e alla prassi dell’«economia mista». Scrivevo allora che non amo più di tanto questo termine, perché lo considero figlio di un’epoca passata, ma le vicende delle ultime settimane mi convincono a tornare sull’argomento, forse con un po’ di maggiore cattiveria. Sono infatti sbalordito dal modo un po’ svagato e impudente con cui politici e opinionisti ripropongono il tema.

A parte l’onesta determinata lucidità con cui Giulio Tremonti dice che «la salvezza è nel pubblico» e Francesco Giavazzi ribadisce il primato del mercato, il panorama delle opinioni è congestionato e confuso, con qualche tocco di furbizia. Ci si ritrovano infatti la propensione a pensare “a pendolo” (prima il mercato, poi il pubblico, poi il mercato, e oggi di nuovo il pubblico); la vaga definizione di nuovi necessari ruoli di intervento dello Stato (da quello diretto sulle opere pubbliche alla ridefinizione delle regole di sistema); la ricerca di nuovi mix di responsabilità, con la riproposta di un’«economia sociale di mercato»; l’avventura intellettuale e politica verso concetti e prassi di sussidiarietà orizzontale e verticale, che per ora hanno sfondato solo nella dottrina sociale cattolica. Un panorama, mi si perdoni la preannunciata cattiveria, un po’ desolante, specialmente se si mettono a confronto le opzioni sopra elencate con le spietate difficoltà poste a tutti noi dalla crisi, nazionale e internazionale, che stiamo attraversando. Dovessi io gestire la crisi, sparerei a vista a chi mi venisse a parlare di sussidiarietà o di economia sociale di mercato (chiedendo venia al professor Natalino Irti e alla Scuola di Friburgo). Con tutti i dubbi di chi l’ha vissuta in prima persona e ne ha visti il bene e il male, preferisco la rude prassi decisionale beneduciana, di un uomo che era convinto che l’economia mista prima si fa e poi la si teorizza.

Riproporre l’economia mista comporta però la presa di coscienza che oggi, rispetto al passato, vince un accentuato policentrismo dei poteri, sia privati che pubblici; e che quindi non si può riproporre una pura e semplice pendolare ripresa di un determinante intervento statale. Non siamo più la società semplice degli anni fra il 1935 e il 1960; siamo una realtà molto più complessa per cui lo Stato può essere indispensabile in casi specifici ma non può ritornare a essere quel «soggetto generale dello sviluppo» su cui tanti (quorum ego) hanno discettato fino a metà degli anni 70. Ricordiamoci infatti che il nostro sviluppo ha non uno, ma tanti soggetti. Un sistema che ha cinque milioni e mezzo di imprese è per sua natura policentrico; un sistema che ha un centinaio di migliaia di aziende che affrontano con successo e in piena autonomia la globalizzazione imperante, è policentrico; un sistema in cui alcuni settori importanti (distribuzione, logistica, trasporto) sono regolati da una concentrata dialettica fra piccole e grandi imprese, è policentrico; un sistema in cui la dimensione finanziaria e bancaria ha dato luogo a un’intensa metamorfosi dimensionale e istituzionale, è policentrico (basterebbe vedere come alcune grandi banche hanno recentemente operato con un impegno da “banche di sistema” che in passato sarebbe stato demandato alle grandi agenzie pubbliche); un sistema in cui alcuni enti locali, regionali e comunali, hanno sviluppato proprie strategie di sviluppo (in Emilia o in Lombardia, a Torino o a Milano, nella conurbazione triveneta come nei piccoli comuni dell’Italia centrale) è policentrico.

Questo non vuol dire che la responsabilità politica e l’intervento pubblico siano oggi poco importanti, vuol dire solo che essi devono sostenere il policentrismo e non sostituirlo: devono cioè dare generale orientamento politico alle decisioni e ai poteri dei vari soggetti (capendo e gestendo oggi la crisi e aiutando domani le minoranze vitali che competono sui mercati mondiali); e devono concentrarsi su singole e strategiche operazioni di infrastrutturazione che diano assetti di rete al policentrismo imprenditoriale e localistico. Per il resto asteniamoci; prendiamo decisioni e operiamo di fatto in una logica di economia mista, ma senza filosofarne, se non vogliamo innescare pericolosi atteggiamenti collettivi di securizzazione.

Si dirà da qualcuno che anche questa attiva limitata partecipazione del potere pubblico al complessivo policentrismo del sistema potrebbe collidere con le filosofie e le prassi “mercatistiche” dell’Unione europea. Ma la crescita di complessità e articolazione dell’economia europea impone a tutti un po’ di elasticità culturale, prima che politica. Attento come sono, da ricercatore, al progressivo policentrismo di interessi e di poteri che l’Europa a 27 sta creando, credo che sarebbe delittuoso governare ancora il continente con l’approccio ideologico (puramente liberista sul piano economico, ottusamente burocratico sul piano normativo, sotterraneamente lobbistico sul piano del business) che ha contraddistinto il governo comunitario negli ultimi due decenni. Qualcosa va cambiato, ma avremo la forza politica e la presenza dialettica per non restare su un piano puramente esigenziale? Io credo di si, se non ci sentiremo in difficoltà minoritarie; la nostra esperienza di economia mista e di governo policentrico del sistema non sono cose di cui vergognarsi, sono anzi componenti essenziali, e oggi indispensabili, di un moderno governo dello sviluppo.

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→  agosto 28, 2008

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di Carlo Bastasin

Sembrano slegati tra loro i temi che nelle ultime settimane hanno innervato il discorso pubblico italiano: la riscoperta dell’economia sociale di mercato, il futuro della scuola e il conformismo che si esprime nell’opinione pubblica. Ma se riuscissimo a intrecciarli metterebbero in luce una filigrana sorprendente e perfino scioccante della società italiana…

L’economia sociale di mercato non è un modello definito di società, ma una visione del ruolo centrale dell’individuo nella società. È nato nel ’48 in Germania cercando di coniugare il desiderio di libera iniziativa del cittadino con la sua necessità di sicurezza, a cui esso partecipa sia come percettore di risorse pubbliche sia come contribuente, come lavoratore e come capitalista. Dopo alcuni decenni, sulla libertà di iniziativa dell’individuo ha prevalso il ruolo politico dello Stato sociale, che aveva permesso di ricostruire un sentimento pubblico positivo. Una forma di patriottismo sociale è riuscita infatti a riscattare gli Stati nazionali screditati dalle tragedie della guerra e un sentimento di eguaglianza è diventato centrale nella tradizione repubblicana europea e nella sottostante identità etnica.

Tuttavia negli ultimi anni, nonostante uno Stato sociale enorme, la disuguaglianza e la povertà sono tornate a crescere. In Germania la quota dei poveri aumenta dal ’98 dell’1% all’anno e sfiora il 20% della popolazione. In Italia c’è uno scivolamento delle fasce medie di reddito verso il basso, mentre il debito pubblico impedisce sia di investire, sia di correggere le pesanti aliquote fiscali che colpiscono anche i redditi medio bassi.

Così, in Germania, dove pure è in atto una competizione a distribuire reddito in vista delle elezioni del 2009, la cancelliera Merkel ha lanciato una campagna di ammodernamento dell’economia sociale di mercato fondata sulla scuola. « Alla Bundesrepublik va sostituita la Bildungsrepublik»: la repubblica dell’istruzione.
Il ragionamento è semplice. I poveri sono per quasi tre quarti immigrati, spesso disoccupati, e per un’altra fetta sono genitori soli. I figli di questi cittadini sono svantaggiati dall’inizio alla fine della loro vita.

Il modo per aiutarli è l’intervento pubblico nelle scuole, dall’infanzia all’università. In tal modo si sviluppa non solo l’integrazione sociale, ma la capacità di crescita del Paese e una generale tensione alla conoscenza, alla competizione dei talenti e all’apertura delle idee.
Ciò che cambia radicalmente è che se nel passato l’obiettivo dello Stato sociale era l’elettore medio, fulcro dell’interesse politico, ora è invece quello ai margini: spesso non è nato in Germania, parla male la lingua, spesso nemmeno vota perché è troppo giovane o troppo sradicato. Il contrario dell’elettore mediano. È sufficiente questo a capire quanto anticonformismo politico sia necessario oggi per fare il bene del proprio Paese.

Merkel ha cominciato un viaggio tra asili e accademie dell’intera Germania, parla con i presidi e con i genitori e promette di riportare il sistema dell’istruzione alle vette del passato. I giornali ironizzano sul cancelliere che va a scuola e i Laender le contendono la competenza costituzionale. Ma il tema “scuola” è ormai tornato centrale, in modo semplice e credibile. Da qualche anno perfino i risultati degli studenti sono risaliti dal basso livello – pari a quello italiano – che aveva scioccato la Germania e scatenato l’allarme.

Proviamo un parallelo con l’Italia. Di questi tempi non si può nemmeno parlare di aiuti scolastici agli immigrati, che sono mal tollerati perfino se istruiti, nonostante garantiscano un futuro al Paese. Il clima di costante eccitazione elettorale inoltre porta a corteggiare il consenso della maggioranza contro quello delle minoranze e dei più deboli.

Un accenno del ministro dell’Istruzione alle disparità regionali della qualità delle scuole (approssimazione molto fedele dei dislivelli di reddito) ha suscitato irritazioni e facili ipocrisie, essendo peraltro in contrasto con l’anacronistica visione governativa di una scuola incubatrice dei sentimenti di tradizionalismo nazionale, di identità e di omologazione (fin dalla divisa). Infine alla verifica delle qualità degli insegnanti e degli studenti attraverso test nazionali, si è privilegiato il rafforzamento gerarchico dei presidi.

Chiusure nazionali, autoritarismo, pretese identitarie: la scuola non può crescere in questo conformismo. Il dibattito sull’opinione pubblica suscitato il mese scorso su queste colonne è presto deragliato su una strada ideologica, ma dovrebbe invece misurarsi proprio sul tema della scuola e dell’informazione, le piattaforme su cui si basa la libertà di scelta degli individui.
Una cornice di miseria psicologica di massa, in cui gli individui tendono a mimetizzare le proprie idee entro percorsi imitativi, sentendosi protetti solo se riaffermano ciò che è uguale a se stesso e discriminano ciò che è diverso – a scuola come nell’informazione – non è un ambiente da cui nascono idee e spirito di iniziativa. È anche così che il conformismo italiano da anni ostacola il cambiamento e lo sviluppo.

I media hanno la loro pesante responsabilità. Sarebbe infatti interessante vedere il presidente del Consiglio, così come ha fatto a Napoli con la questione rifiuti, confrontarsi sul campo con la questione della scuola. Ma che cosa succederebbe se Berlusconi imitasse la Merkel visitando licei e accademie per sensibilizzare il Paese? Telecamere, passerelle, applausi e fischi in un Paese politico trasformato dal suo sistema nervoso mediatico e dai suoi attori in un teatro vano e retorico.

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→  agosto 26, 2008

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di AA. VV.

Scuola, voucher a prova di Sud

Il bonus alle famiglie divide i poli – Aprea (Pdl): istituti responsabilizzati

L’inizio dell’anno scolastico si avvia a essere celebrato tra le polemiche: questa volta, però, ad accendere gli animi non è solo il caso del “carolibri”, ma le parole (in parte riviste e corrette) del ministro del’Istruzione Maria Stella Gelmini sul livello, a suo parere non adeguato, degli insegnanti al Sud con conseguente proposta di corsi a loro riservati. Un’idea subissata dalle critiche dell’opposizione (Pd, Idv e Udc hanno chiesto insieme che l’esponente del Governo risponda in Parlamento sullo stato della scuola italiana), dei docenti e di altri soggetti come la Chiesa che ieri, attraverso il Sir, l’agenzia dei vescovi italiani, ha fatto sentire la sua voce: «Smettiamola di gettare fango sulla scuola del Sud o del Nord, sui professori fannulloni o quant’altro. Fa solo male, alla scuola e al Paese». Piuttosto, aggiunge la Cei, si discuta nelle sedi appropriate alla ricerca di «consensi ampi».

La premessa della vicenda rimane però indiscussa: i dati dell’Ocse Pisa (acronimo di «Programme for international student assessment») mostrano da tempo che la preparazione degli studenti meridionali sulla matematica e sulle scienze è un passo indietro rispetto a quello degli alunni del Nord, in un generale divario tra l’Italia e gli altri Paesi industrializzati. Una questione è stato fatto notare di preparazione ma anche di salutazione che dà vita ad autentiche contraddizioni: quegli stessi studenti meridionali bocciati nei test internazionali, affollano poi la categoria (il 7,5% sul totale dei diplomati) di chi all’ultimo esame di Stato ha ottenuto il diploma con la lode o comunque con cento.

Una ricetta per un sistema che accanto a luoghi di eccellenza presenta situazioni limite viene dalla proposta avanzata sul Sole 24 Ore (si veda il giornale del 24 agosto) da Franco Debenedetti: una sostanziale liberalizzazione dell’istruzione attraverso la possibilità per chiunque di aprire una scuola rispettando parametri minimi; totale libertà per le famiglie che possono spendere voucher o un credito d’imposta «nella scuola di loro scelta». Una piccola, grande rivoluzione per il nostro sistema di istruzione che adotterebbe una soluzione già messa in campo con successo da Paesi come la Svezia. E che raccoglie adesioni nel centrodestra ma forti perplessità (se non addirittura netta contrarietà) da parte del Partito democratico che paventa il pericolo di un’ulteriore divaricazione tra ricchi e poveri, forti e deboli.

Condivide l’idea Valentina Aprea (Pdl), presidente della commissione Cultura e Istruzione alla Camera e già sottosegretario nel precedente Governo Berlusconi. «Quella del voucher – spiega – è una strada che molti Paesi europei hanno già intrapreso o stanno per imboccare. Penso al “buono sociale” introdotto in Francia ma anche all’ultimo periodo dell’azione di Tony Blair e al suo slogan: lo Stato from provider to commissioner, cioè lo Stato che passa da un’azione di gestione a una di controllo. Il principio è quello di riallocare le risorse finanziarie destinate all’istruzione partendo dalla libertà di scelta delle famiglie». Per l’esponente di maggioranza è un modo per responsabilizzare le scuole e indica un luogo dove questi principi potrebbero concretizzarsi: è la sua proposta di legge, depositata in commissione e già incardinata, sulla nuova governance delle istituzioni scolastiche. «Non i mancherà il confronto con tutti i soggetti, Regioni comprese» assicura la Aprea. Dall’altra parte, però, l’opposizione non sembra apprezzare troppo l’impostazione di un progetto del genere. «Il Partito democratico – assicura il suo ministro ombra per l’Istruzione Maria Pia Garavaglia (che domani al meeting di Rimini avrà un confronto pubblico con il ministro Maria Stella Gelmini) – farà di tutto per confrontarsi con il Governo su tre punti: reclutamento, merito e valutazione. Un aspetto, quest’ultimo, che viene incontro al desiderio degli stessi insegnanti, desiderosi di mostrare qual è il loro reale valore». L’idea di introdurre un sistema impostato integralmente sulla libertà di scelta delle famiglie non convince però la Garvaglia: «Non vorrei – è il suo timore di fronte all’ipotesi di un voucher – che lo Stato abbandoni la scuola per affidarla alla famiglia. La scuola deve continuare a essere un patto allargato tra Stato, famiglia, docenti e tecnici. La scuola deve tornare a essere un tempio per il futuro del Paese, un tempio del quale possono essere private le mura ma in cui tutto il resto – la qualità, il contenuto – deve essere partecipato dalla comunità, anche da chi per esempio non ha figli». Le perplessità diventano netta contrarietà nel caso di Mariangela Bastico, viceministro all’Istruzione nell’ultimo governo di Romano Prodi. «C’è innanzitutto un ostacolo formale: una proposta del genere, cozza con il dettato costituzionale perché le scuole private non possono essere finanziate dallo Stato. Un sistema del genere comporterebbe tra l’altro un raddoppio dei costi, perché la struttura pubblica rimarrebbe in piedi per assicurare l’istruzione a tutti. Ma allo stesso tempo si penalizzerebbero i più deboli, cioè quelle famiglie povere che non hanno gli strumenti per capire qual è la scuola migliore per il proprio figlio. Verrebbe introdotta così un’ulteriore divaricazione tra ricchi e poveri».

I punti di vista sembrano però riavvicinarsi quando si parla del modo per alleggerire l’«immensa macchina» della scuola: la Bastico guarda con fiducia al federalismo fiscale, dove allo Stato spetterà fissare i requisiti i minimi e alle Regioni occuparsi dell’organizzazione scolastica.

di Riccardo Ferrazza

Sostegno ai docenti per poterli valutare

I test internazionali Pisa, preparati dall’Ocse ma adottati anche da molti altri Paesi, misurano, con prove uguali per tutti alle quali partecipa un campione di studenti scelto con criteri scientifici, le competenze dei quindicenni in literacy (la capacità di comprendere un testo scritto), matematica e scienze, analizzando anche le differenze regionali all’interno degli Stati. Per la terza volta consecutiva l’Italia non solo ha deluso nel risultato complessivo ma, quel che è peggio, ha evidenziato una forte disparità a danno del Sud e delle Isole. Questo è un fatto, e il ministro della Pubblica istruzione Mariastella Gelmini ha fatto molto bene a riconoscerlo senza reticenze e a decidere, finalmente, di intervenire.

Meno noto, ma altrettanto incontrovertibile, è che le scuole del Sud, quando valutano se stesse, si danno voti superiori a quelle settentrionali. Così è avvenuto anche quest’anno nelle votazioni degli esami di Stato (ex maturità). Così è avvenuto in tutti i casi di sperimentazione dei nuovi metodi di autovalutazione degli istituti scolastici; a partire dal famigerato «Progetto pilota» del ministero della Pubblica istruzione, deriso a suo tempo – in privato – dai funzionari dell’Ocse preposti all’elaborazione dei test Pisa, dai quali le scuole meridionali uscivano malconce. La spiegazione, dicevano all’Ocse, poteva essere una sola: al Sud molti insegnanti risolvevano i test insieme ai loro allievi. Un bell’esempio di lealtà.

Ciò premesso,le disparità regionali non si possono affrontare con i corsi di aggiornamento: non solo odiosi, se rivolti a una parte soltanto dei docenti, ma anche costosi e quasi certamente inutili. È necessario, invece, introdurre invece in tutte le scuole da un lato una valutazione attendibile degli apprendimenti, dall’altro degli incentivi (aumenti di stipendio e scatti di carriera) a favore dei docenti migliori, siano essi settentrionali come Alessandro Manzoni o meridionali come Benedetto Croce.

Da anni la valutazione è considerata l’elemento chiave per migliorare la scuola; e lo ha ribadito ieri Antonio Schizze-rotto sul Sole24 Ore del lunedì. Eppure non riesce a decollare. Come mai? Misurare e confrontare i livelli di apprendimento – tenendo conto, va da sé, dei punti di partenza e del contesto culturale – è complicato ma non impossibile: la maggior parte dei Paesi sviluppati, con vari metodi, lo sta facendo. In Italia hanno pesato il disinteresse dei partiti, nessuno escluso, e la resistenza dei docenti, incoraggiati da sindacati tra i più corporativi: 85omila elettori, e relative famiglie, ai quali vanno aggiunti ^ornila precari aspiranti al posto fisso.

Superare questa resistenza è possibile soltanto offrendo agli insegnanti un’equa contropartita: il sostegno morale cui hanno diritto per una funzione sociale decisiva e sostanziosi aumenti di stipendio, riservati però ai meritevoli.
Una buona formazione non dipende tuttavia dal lavoro isolato del singolo docente bensì dall’efficienza complessiva dell’istituto. La proposta del voucher, avanzata da Franco Debenedetti sul Sole-24 Ore del 24 agosto e ripresa qui a fianco, riconosce questo fatto e affida direttamente agli utenti il compito di valutare le scuole “con i piedi”: allontanandosi dalle peggiori e spendendo il buono-scuola negli istituti più affidabili.
Ogni misura che incentivi la competizione fra le scuole è in sé positiva. Ma a una condizione: che le famiglie possano scegliere in condizioni di parità. Temo invece che le disparità di reddito e soprattutto di informazioni continuerebbero a favorire i ceti abbienti.

di Andrea Casalegno

La difesa degli editori: per i libri scolastici rincari solo dello 0,7%
Il nuovo anno scolastico

Mentre infuria la polemica sui professori meridionali, il mondo della scuola tornerà a breve anche sull’annosa questione del prezzo dei libri di testo. Da una parte associazioni di consumatori e famiglie, dall’altra gli editori, accusati di aumentare il prezzo ogni anno e sostituire troppo rapidamente le edizioni.
Gli editori non ci stanno e affilano le armi. Gli aumenti del 2008, stando all’Associazione italiana editori, «sono notevolmente sotto il tetto dell’inflazione rilevato dall’Istat. L’indice di variazione media percentuale dei prezzi di listino si attesta infatti su un +0,73%: 5 volte inferiore rispetto al 4,1% del tasso d’inflazione di luglio (dato Istat). Una crescita dei prezzi dei libri scolastici davvero minima, e in molti casi inesistente».
Gli editori presenteranno giovedì a Milano gli esiti di un’analisi, realizzata dall’Ispo di Renato Mannheimer, in cui i prezzi di listino dei libri scolastici per le scuole secondarie di I e II grado nel 2008 sono stati confrontati con quelli del 2007. L’indagine contiene anche importanti dati sull’orientamento delle famiglie rispetto alla spesa per l’istruzione dei figli.

Alla difesa degli editori, si aggiunge la protesta dei librai che, per voce del presidente nazionale, Paolo Pisanti, hanno ieri lamentato che il governo ha ignorato le proposte per la detrazione fiscale delle spese in libri scolastici. I librai avevano presentato a luglio le proposte di detrazione fiscale delle spese in libri e l’estensione dei rimborsi per il diritto allo studio fino al quinto anno della scuola secondaria di secondo grado da inserire nella manovra finanziaria 2009. I librai bocciano anche lo scarico da Internet dei testi, «una prassi – ha spiegato Pisanti – molto più costosa, sia per le famiglie che per la pubblica amministrazione, rispetto al normale acquisto con detraibilità e rimborsi così come richiesto da noi».
Bizzarra, la dichiarazione dell’ex ministro dei Beni culturali, Rocco Buttiglione, che ieri ha lamentato «aumenti dei prezzi dei libri per quest’anno fino al 70%». Il deputato dell’Udc, però, non è riuscito a fornire nessun esempio di tali rincari.

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Scuola, ripensare al voucher
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 24 agosto 2008

Una scuola per l’italia
di Ernesto Galli Della Loggia – Il Corriere della Sera, 21 agosto 20088

Quarant’anni da smantellare
di Mariastella Gelmini – Il Corriere della Sera, 22 agosto 20088

Il passato e il buon senso
di Giulio Tremonti – Il Corriere della Sera, 22 agosto 20088

UK schools need Swedish lessons
Financial Times, 14 agosto 20088

→  agosto 24, 2008

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Il dibattito sulla proposta dei voucher si allarga

Il modello applicato in Svezia è l’unico che ha dato risultati positivi in Occidente: il cardine è la libertà delle famiglie. L’idea di una macchina fondata sull’uniformità non garantisce più la meritocrazia. A Londra c’è chi pensa di abbandonare gli A-level

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