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→  febbraio 13, 2009

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Il tema della proprietà della rete Telecom Italia é riemerso, sabato scorso grazie a un nuovo intervento di Angelo Rovati, ieri con uno di Pierluigi Borghini. Franco Bernabé ha risposto immediatamente a ciascuno dei due, chiudendo ad ogni ipotesi di scorporo della rete Telecom. Ma la banda larga é un acceleratore di sviluppo, e resta aperto il problema di come debba essere fatta, in quanto tempo eseguita, e da chi finanziata. Un problema solo dello Stato, ma anche di Telecom.

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→  gennaio 30, 2009

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Fiat, Chrysler e gli altri

“Gli affari al tempo degli aiuti”. La parafrasi del titolo del famoso romanzo di Gabriel Garcia Màrquez, serve a illustrare quanto profondamente i piani di salvataggio e di stimolo che i Governi stanno varando per contrastare la grande crisi finanziaria e la susseguente recessione incida sulle strategie delle aziende, e quindi sulla concorrenza nei mercati. L’operazione che Fiat e Chrysler hanno annunciato di voler perseguire lo dimostra in modo esemplare.

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→  gennaio 25, 2009

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Lettere contemporanee

di Giuliano Amato

Ha assolutamente ragione il Presidente Obama quando dice che non basta creare nuovi posti di lavoro, ma occorre dare «nuove fondamenta all’economia». Non vorrei però che negli entusiasmi suscitati da questa sua affermazione si infilasse anche la voglia di tornare al vecchio, una voglia già sperimentata in altre situazioni di crisi e servita allora più a prolungarle che a risolverle. Separare subito il grano dal loglio nella ricerca del nuovo mi pare quindi essenziale.
Di nuove fondamenta ha certo bisogno l’economia americana, nella quale per prima ha preso corpo quell’abnorme espansione delle attività finanziarie, che sono arrivate a generare oltre il 40% dei profitti, hanno schiacciato sotto i debiti l’economia reale e hanno reso laceranti le diseguaglianze di reddito. E di nuove fondamenta hanno bisogno anche gli altri, noi compresi.

Dobbiamo valorizzare davvero i fattori da cui dipende la crescita della nostra produttività e non farne oggetto soltanto dei nostri ormai stucchevoli convegni sul tema.
Ma la dinamica stessa della crisi e gli interventi che sta suscitando non possono spingere oltre la domanda di cambiamento? Oggi rischiano di fallire insieme imprese efficienti e imprese inefficienti e per evitare i costi sociali dei due fallimenti si interviene massicciamente con aiuti di Stato oppure si autorizzano fusioni (magari per legge, come si è fatto per Alitalia e Airone) che in condizioni normali sarebbero invece proibite. Interventi transitori, si dice. Ma dei benefici della concorrenza, anni addietro sulla bocca di tutti, oggi non parla nessuno. E c’è anzi chi comincia a chiedersi se davvero ne abbia portati di benefici e se della revisione critica a cui assoggettiamo il Washington consensus con il ventennio che ne è seguito non debba far parte, senza sconti, lo stesso fondamento concorrenziale che abbiamo voluto generalizzare in ogni settore dell’economia. La questione dunque è già posta e sarebbe perciò un errore non affrontarla. Se la si affronta ci si accorge che sì, è vero, diverse cose non hanno funzionato in questi anni nei mercati aperti alla concorrenza. Ma davvero la responsabilità è della stessa concorrenza e di ciò che essa ha dato e può dare?

È di sicuro peggiorata la vita di gran parte dei lavoratori occupati in quei mercati, mentre non sono affatto migliorati, in più casi, la qualità e il prezzo dei servizi resi ai consumatori. Quando c’era la rendita del servizio in monopolio, si diceva che se la spartivano, a danno dei consumatori, il gestore e i suoi lavoratori. Ora che la rendita non c’è più, ora che molti lavori prima a tempo indeterminato e ben pagati sono diventati precari e mal pagati, una eguale insoddisfazione accomuna i lavoratori e gli utenti. Basti pensare all’incubo del povero utente con problemi di telefono, che si aggira via filo nei meandri dei call center, avendo come massima soddisfazione quella di parlare alla fine con qualcuno; oppure alla attesa dei bagagli in aeroporto, dove ormai, a parte i furti, non c’è più personale sufficiente per smistarli. Quanto alle tariffe, nei telefoni sono senz’altro diminuite, ma in molti altri servizi, per una ragione o per l’altra, la riduzione non c’è stata.

C’è poi la struttura disfunzionale e bislacca assunta da certi mercati, nei quali l’apertura alla concorrenza ha messo ai polpacci dell’ex monopolista sette piccoli e avidissimi indiani, che hanno corroso la sua forza di mercato, hanno conquistato ciascuno uno spazio troppo piccolo per diventare vitali, col risultato che alla fine, se il mercato non era solo nazionale, loro vivono di stenti (trasferiti peraltro ai dipendenti) e l’ex monopolista si ritrova indebolito e inerme davanti agli ex monopolisti di altri Paesi, meno massacrati di lui. Il caso del nostro mercato aereo, certo con una qualche unilateralità, può essere raccontato anche così. E così del resto lo sintetizza Marcello De Cecco in un paper non ancora pubblicato.

Bene, anzi male, tutto questo è accaduto. Ma è accaduto perché non funzionano la concorrenza e i privati o per difetti da imputare in primo luogo alle azioni con le quali lo Stato o gli enti locali dovevano orientare e regolare i mercati nascenti da liberalizzazioni e privatizzazioni? I privati, si sa, più che all’aureola pensano a far soldi. Ma quel che conta è che nei mercati liberalizzati la mano invisibile basta assai meno che altrove e lo sapeva bene la stessa signora Thatcher, nei cui anni di governo fu proprio il Regno Unito a sviluppare l’esperienza di regolazione più attenta e intensa per far nascere e crescere dei mercati funzionanti al posto dei vecchi monopoli.

Non voglio allargare troppo il discorso e prima di ritornare sull’Italia mi limito a ricordare che dei disastri seguiti alle privatizzazioni in buona parte dell’Est europeo (dagli arricchimenti smodati dei compradores al tasso di mortalità che sarebbe cresciuto fra le migliaia di lavoratori licenziati) giustamente Joe Stiglitz attribuisce la responsabilità alla shock therapy che si volle adottare in assenza di istituzioni statali capaci di governare il passaggio.

E torno all’Italia. Ce la ricordiamo la allegra incoscienza con la quale lasciammo crescere il Far West delle televisioni private dopo che nel 1976 la Corte costituzionale dichiarò legittimo il solo monopolio nazionale e illegittimo quello locale? Lungo anni e anni di totale omissione legislativa e di acquiescenza a ciò che veniva accadendo fiorirono e sfiorirono oltre cento fiori, si consolidò un duopolio di tre reti pubbliche contro tre reti private e poi non si seppe fare altro che sancirlo per legge. È colpa dei privati se finì così? Della liberalizzazione aerea ho già accennato e posso solo aggiungere che ogni italiano ha diritto di chiedersi perché la concorrenza abbia rafforzato British Airways, Air France e Lufthansa e abbia invece indebolito Alitalia. Invito poi chi ne ha voglia a dare una occhiata alla giungla delle discipline che regolano le nostre società aeroportuali, per rendersi conto della impossibilità che da quell’insieme dissennato esca una concorrenza funzionante. E termino con un cenno alla concorrenza che sta per aprirsi nel settore ferroviario, dove c’è un obbligo di servizio universale per le stesse percorrenze medio-lunghe non coperte dalle Regioni, che tuttavia non è regolato ed è solo occasionalmente finanziato. Che Dio ci assista.
Conclusione. La rinuncia alle norme sulla concorrenza fu adottata come medicina anti-crisi all’inizio del New Deal negli Stati Uniti e negli anni 90 in Giappone. Ne vennero benefici sociali a breve termine, che furono però largamente compensati dai danni di lungo termine sul terreno della produttività e dell’efficienza di sistema. Se è vero perciò che c’è molto da rivedere negli ingredienti del Washington consensus, teniamone fuori la concorrenza. E impariamo caso mai a farla funzionare.

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Se l’Europa trovasse una svolta comune
di Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2009

→  gennaio 25, 2009

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Strategie di rilancio

di Carlo Bastasin

Le democrazie non sono indulgenti con se stesse. E infatti Barack Obama non sta dimostrando compiacimento nei confronti del proprio Paese. «Dobbiamo rifare l’America», ha affermato nel discorso inaugurale. Ha denunciato avidità e irresponsabilità degli individui, ha evocato fallimenti e «l’inverno profondo», e chiamato un nuovo spirito di servizio e di regolazione pubblica.
Per reagire alla crisi cambierà il piano di salvataggio delle banche e con il più vasto appoggio nel Congresso varerà un pacchetto di stimolo fiscale in buona parte orientato, come ha spiegato ieri, a migliorare la produttività del Paese nel lungo termine. Sa che gli Stati Uniti non potranno uscire da soli dalla crisi e ha portato alla luce il problema della cooperazione globale, cominciando dalla Cina. A questo servono i cambi di governo in democrazia: a correggere gli errori, senza indulgenze.
Il vuoto di democrazia pesa invece sull’Europa. Legittimamente nessun governo nazionale si sente artefice della crisi, ognuno può fingersi vittima compiaciuta parlando allo specchio della propria opinione pubblica. Ma l’irresponsabilità politica induce solo a scansare le soluzioni costose, finendo per danneggiare se stessi. Mentre Obama pone le basi di un’uscita costruttiva dalla catastrofe che in gran parte gli Stati Uniti hanno provocato, l’Europa sta indebolendo le proprie fondamenta. Il Patto di stabilità e crescita e il Mercato unico, i due pilastri della cooperazione economica europea, sono infatti a rischio.
Il rilancio della domanda aggregata nell’Unione europea è stato affidato a un Piano di rilancio che prevede azioni coordinate di stimolo pari all’1,6% del Pil e un impegno al rafforzamento della competitività e della tecnologia con effetti non solo temporanei. Ma come emerge dai bilanci 2009, il Piano resta inattuato. Non solo in Italia, dove il sostegno netto, tra aiuti alle famiglie e prelievi sulle imprese, è sostanzialmente nullo, ma anche nei Paesi con minori vincoli di bilancio.
La mancanza di coordinamento e di iniziativa politica ha fatto prevalere un atteggiamento passivo: ogni Paese reagisce alla crisi, caso per caso, una volta che i sintomi si manifestano.

L’ambiguità concessa dal Consiglio europeo nella gestione dei bilanci pubblici è stata utilizzata non per sviluppare una strategia di sostegno, ma per contabilizzare gli effetti della recessione sulle entrate fiscali e per interventi ad hoc che minacciano il mercato unico. I governi nazionali hanno una comune convenienza a proteggere le proprie imprese con denari pubblici: aumentano la propria influenza sui centri di potere economico tenendoli in mani nazionali. La concorrenza infatti è un interesse caro ai cittadini, non necessariamente ai governi.

La segmentazione del mercato unico, tranne in casi specifici come quello dei mercati monetari, non è una conseguenza inevitabile della crisi. È il frutto dell’inerzia politica. La Commissione europea ha aperto la strada a una disposizione nell’art.87 del Trattato che definisce compatibili gli aiuti di Stato destinati a «porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro». Aperto questo varco, studiato per le banche in grave crisi, l’applicazione rischia di dilagare. È diventato più facile per Sarkozy stanziare fondi di sostegno diretto per le imprese dell’auto, dell’acciaio e della stampa, «purché restino in Francia». Lo stesso su scala maggiore avviene in Germania dove il Governo sta influenzando direttamente le scelte di credito alle imprese da parte delle banche nazionalizzate. Ha finanziato la fusione Commerzbank-Dresdner per aiutare Allianz, poi ha dovuto nuovamente aiutare la banca di Francoforte che ha già modificato la politica del credito alle imprese assecondando i desideri del Governo. Ha aiutato la fusione Continental-Schaeffler e ora vuole salvarne l’esito fallimentare. Vuole influenzare le scelte di credito sia alle piccole e medie imprese con 15 miliardi attraverso la Kfw, sia alle grandi distinguendo a proprio giudizio le “imprese sane” e distribuendo 100 miliardi con un fondo che non a caso si chiama “Fondo Germania”. Sta prendendo profilo una “politica industriale” e sarà inevitabilmente “nazionale”. Ieri il Governo spagnolo ha invitato i cittadini a “comprare spagnolo”. Da parte sua la Gran Bretagna sta abbandonando ogni forma di coordinamento con i Paesi europei negli interventi pubblici d’emergenza cui è costretta e che diventano più drammatici ora dopo ora.
Di questo passo la tutela della concorrenza su scala europea non potrà resistere. E probabilmente le cure faranno danni peggiori di una crisi che, risolti i problemi di circolazione del credito, si sarebbe dimostrata meno grave di quanto gli stessi responsabili politici non amino descriverla, agganciando il proprio potere a un astuto allarmismo. La settimana scorsa, spaventati dal proprio stesso osare, i governi hanno dato vita, nel Consiglio competitività, a un quadro europeo per il sostegno dei beni durevoli con obiettivi di efficienza ambientale, che daranno almeno un significato accettabile agli aiuti all’auto. Ma il senso della rinazionalizzazione dell’economia europea resta prevalente.
Se la Commissione sentisse l’era della propria responsabilità, se Barroso non fosse paralizzato dalle ambizioni di rinnovo alla presidenza, anche l’Unione europea dovrebbe porsi nell’ottica di Obama di “rifare l’Europa”, anziché di disfarla. E se Obama fosse presidente degli Stati Uniti d’Europa probabilmente saprebbe proporre l’antidoto possibile all’erosione del mercato unico: il rafforzamento di un sistema europeo di flexicurity che garantisca a chiunque perda lavoro, precario o no, una piena assistenza pubblica, un sussidio di disoccupazione pluriennale per esempio, comune a tutti i Paesi europei a fronte di un mercato del lavoro dinamico, che non nascondesse la flessibilità nell’economia sommersa o nell’outsourcing. La fiducia delle famiglie che oggi vedono a rischio il proprio reddito sarebbe confortata. Le aspettative di consumo sarebbero rafforzate e quindi anche i progetti di investimento delle imprese potrebbero far conto su uno stabile orizzonte. Con un mercato in cui il commercio extraeuropeo conta per una quota molto minoritaria, non ci sarebbe bisogno di interventi protezionistici o di nazionalizzazioni nascoste per superare la recessione. La concorrenza potrebbe essere mantenuta.

Oltre alle ovvie ragioni che spingono a tutelare il mercato e a tenere a bada l’intrusione della politica, vi sono alcune ragioni forse meno evidenti ma non meno importanti. La prima è che i Paesi che dispongono di mercati del lavoro flessibili, ma anche di sistemi di assicurazione sociale molto forti, come i Paesi scandinavi, sono quelli che dimostrano di risentire della crisi meno di tutti gli altri. Una seconda ragione è che lo sviluppo moderno dei sistemi di assistenza universale sarà al centro dell’azione di politica sociale del nuovo presidente americano, con una convergenza degli Stati Uniti verso il modello europeo che è la conferma della visione degli europeisti. Ma una tale convergenza può compiersi e può resistere alle tentazioni protezioniste solo se ispirata dall’efficienza di un’economia dinamica e sarebbe assurdo che l’Unione europea mancasse questa opportunità di affermazione e difesa del proprio modello di società.
La terza ragione è che i costi di riforma del sistema di welfare, che normalmente giudichiamo esorbitanti, sarebbero modesti rispetto al volume di denaro pubblico che i governi progettano di investire nell’acquisizione di interi sistemi bancari e nel controllo di imprese, e gli oneri diminuirebbero con la ripresa dell’economia. In questo senso la riforma della contrattazione approvata in Italia giovedì, purtroppo senza la Cgil, va nella giusta direzione ma richiede ora una riforma degli ammortizzatori. Inoltre un sistema omogeneo di flexicurity sarebbe coerente con la riduzione delle tasse sul lavoro a minor reddito, una misura efficace per stimolare sia i consumi sia l’offerta di lavoro e coordinabile a livello europeo, con effetti amplificati sul moltiplicatore fiscale. Al centro dell’azione politica sarebbero finalmente gli individui e lo sviluppo della loro capacità creativa nella società della conoscenza.

Un’ultima ragione è che l’omogeneità del modello sociale tra i Paesi europei non è indispensabile solo per mantenere senso e prospettiva al mercato unico, ma perché costringe la politica dei partiti europei di destra o di sinistra ad assestarsi ordinatamente ai due lati della mediana europea, cioè del livello medio di sicurezza e di flessibilità sul quale i Paesi si accorderanno. Solo in tal caso la vita pubblica europea potrà dare un senso al confronto tra una destra e una sinistra europee e quindi a sviluppare un discorso politico ben riconoscibile che consenta di mobilitare l’opinione pubblica su scala continentale e a rendere così finalmente compiuta la democrazia europea.

Nel prossimo giugno la crisi economica vivrà probabilmente il suo momento peggiore. Si faranno sentire più forti i venti contrari della disoccupazione. Proprio in quel mese si terranno le elezioni per il Parlamento europeo. È facile prevedere i sentimenti dei cittadini nei confronti dei loro governi e della politica europea. Nel momento in cui «l’America – scrive Barbara Spinelli – scopre il post-nazionalismo europeo», politici locali utilizzeranno l’Europa come capro dell’espiazione nazionale. È in quei momenti che si misura il coraggio di un popolo e di chi lo rappresenta. Mentre Obama chiamerà gli americani a costruire strade e ponti, reti elettriche e digitali, a imbrigliare il sole e i venti, a trasformare le scuole e le università «per rispondere alle esigenze di una nuova era», gli europei rischiano di arretrare entro vecchi confini che contengono solo le forme vuote della politica nazionale. Anche in questo caso, come ha detto Obama, la storia giudicherà chi ha saputo costruire e chi invece ha saputo distruggere.

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Sospendere la concorrenza? Più danni che benefici
di Giuliano Amato – Il Sole 24 Ore, 25 gennaio 2009

→  gennaio 20, 2009

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Rigore e Riforme

Ha ragione Tremonti quando dice che se il PIL italiano nel 2009 diminuisse del 2%, ritorneremmo al 2006 e non al Medioevo. Dimentica però di dire che nel 2006 era quasi un decennio che l’economia italiana non cresceva, e che il problema non è il livello di PIL, ma la produttività a cui ritorneremo. Questa, già allora faceva di noi il fanalino di coda dell’Europa. Possiamo solo rassegnarci? È su questo tema che bisognerebbe chiedere risposte a Tremonti. La vera prova che lo attende è sulle parole non dette, piuttosto che su quelle dette.

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→  dicembre 18, 2008

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Il caso Madoff è stato causato dalla bassa valutazione dei pericoli di investimento e i Governi potrebbero cadere nello stesso errore per le misure contro la bolla

La loro dimensione incuteva rispetto, la loro pluridecennale tradizione di serietà e riservatezza ispirava fiducia, i loro uffici erano pieni di PhD in matematica e fisica: come è possibile che proprio tali operatori finanziari siano rimasti in così gran numero vittima di una truffa da libro di testo?

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