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→  febbraio 26, 2009

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Mercati e fiducia

Per uscire dalla crisi bisogna ripulire gli attivi delle banche dai titoli cosiddetti tossici: almeno su questo il consenso è unanime. Ma alla domanda, a quanto essi ammontino, non c’è risposta. Fin dall’inizio della crisi, pressante è stata la richiesta alle banche di fare trasparenza sui loro bilanci.

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→  febbraio 24, 2009

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Si cerca l`antidoto per i titoli tossici

di Rossella Bocciarelli

È un tema che sta togliendo il sonno al presidente degli Stati Uniti, Barack Obama. Ma se ne discute molto anche in Europa; e una soluzione finanziaria, utile a risolvere eventuali problemi futuri, è stata indicata per l`Italia anche dal Governatore Mario Draghi. È il tema del cosa fare per attenuare gli effetti negativi di quella corsa allo smobilizzo degli asset che imperversa per il mondo, per effetto della sfiducia e della perdurante incertezza sul grado effettivo di tossicità degli attivi delle istituzioni finanziarie.

È una discussione. che si svolge in tante sedi: da quelle politiche e tecniche (Ecofin, G7-G2o, Fini, Financial stability forum) a quelle della comunità finanziaria e accademica internazionale: dopo la presentazione del piano Geithner sono infatti scesi in campo George Soros e Ricardo Caballero, mentre nel dibattito italiano sono da registrare i suggerimenti di Francesco Giavazzi, Giuliano Amato, Luigi Spaventa. Per contenere la distruzione di ricchezza finanziaria e ridare fiducia e credito all`economia, finora si sono immaginate, grosso modo, due strade: la bad bank e gli schemi di assicurazione degli asset a garanzia pubblica.

Bad bank, una o plurima La prima strada passa per la scelta di “segregare” le attività illiquide separandole da quelle buone. È una scelta che può essere messa in atto a livello della singola istituzione finanziaria: per ogni banca i titoli tossici verrebbero confinati in un altro soggetto giuridico e le perdite verrebbero suddivise tra là banca “buona” e lo Stato. Oppure, si può ritenere più opportuno che lo Stato costituisca un solo istituto, che acquisti i titoli illiquidi dalle banche e le rimetta così in condizione di operare in tranquillità. Nel dibattito internazionale c`è anche chi immagina che prima lo Stato metta in opera un`azione di nazionalizzazione e poi separi il grano dal loglio.

Meglio il sidecar Molti però non sono convinti da questa soluzione. Per esempio, George Soros di recente ha sostenuto che la soluzione migliore potrebbe essere quella di allocare le attività tossiche in una “tasca laterale” (side pocket) oppure in un “sidecar”, termini che indicano la costituzione di una sorta di fondo chiuso, così come hanno già fatto gli hedge funds per i loro titoli illiquidi. In questo modo si farebbe pulizia nei bilanci delle banche, ha osservato Soros, ma resterebbe aperto il problema della loro sottocapitalizzazione:ciò potrebbe essere risolto coi apporti diretti del settore pubblico, ma anche di quello privato, una volta tornata la fiducia nei bilanci puliti.

Assicurazioni a garanzia pubblica In base a questo tipo di soluzioni, gli asset problematici restano nei bilanci delle banche, ma vengono assicurati in modo parziale o totale rispetto al rischio della perdita da una garanzia dello Stato. Ad esempio, di recente il governo olandese ha fornito una garanzia pubblica al portafoglio dei mutui ipotecari cartolarizzati di categoria Alt-A del gruppo Ing. Il valore dei mutui è stato ridimensionato, per tener conto dell`incerto realizzo e lo Stato ha assicurato l`80% del portafoglio (in cambio, Ing ha aumentato il volume dei prestiti concessi all`economia). La parte più complessa in questi schemi sta nell`assegnare un prezzo a questi asset.

Soluzione Caballero Male soluzioni si possono trovare: in relazione al piano Geithner, l`economista del Mit Ricardo Caballero ha proposto di definire una stima convenzionale, rifacendosi ai prezzi pre-crisi per classi di attivi, ma usando rating più bassi. Sempre per gli Usa, l`economista Francesco Giavazzi ha proposto che il Governo americano fornisca una garanzia pubblica per tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, impegnandosi a riacquistarle tutte a un prezzo prefissato, superiore alloro valore attuale: in questo modo si riuscirebbe a far risollevare il prezzo dei titoli ma anche il valore della ricchezza delle famiglie Usa.

Ipotesi Draghi Quanto all`Italia, il Governatore Draghi al Forex di Milano ha ipotizzato per il futuro, allo scopo di contrastare gli effetti che la recessione potrà avere sui bilanci delle banche, la possibilità di prevedere garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle aziende di credito, ma su “fette” di nuovi prestiti alle imprese, da cartolarizzare con sopra il bollino blu dello Stato.

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di Giuliano Amato

I lettori sanno che io non sono fra quelli che ritengono si possa uscire dalla crisi e costruire un futuro migliore, rimuovendo le sole patologie delle attività finanziarie. C’è anche un problema di economia reale e in particolare di fondamentali squilibri fra economie in surplus ed economie in deficit. Raggiungere perciò migliori equilibri macroeconomici, coordinare di più le stesse politiche valutarie e costruire un mondo trainato non più da una sola locomotiva ma da più locomotive sono terapie che io stesso ritengo essenziali e che ho già suggerito.

Detto questo, però, non si può ignorare il fatto che i guasti finanziari hanno enormemente amplificato i crolli tanto nella finanza che nella stessa economia reale; e che nuovi crolli potrebbero intervenire a breve, se non si saprà uscire con rapidità, e anche con la necessaria, impietosa decisione, dallo stallo in cui si è finiti, ponendo rimedi a quei guasti che si stanno rivelando pericolosamente inadeguati.

Mi limiterò qui a un aspetto, che è tuttavia fra quelli cruciali della vicenda, l’aspetto che riguarda i cosiddetti troubled assets. I lettori ricorderanno che l’iniziale piano con cui si pensò di gestirli, il piano del vecchio ministro del Tesoro americano Henry Paulson, risultò ben presto inefficace. Paulson si proponeva di acquistare i troubled assets dalle banche e dagli altri istituti finanziari che li possedevano, in modo da ripulirne i bilanci e rimuovere così la sfiducia che aveva paralizzato il sistema. Paulson però si accorse presto che di troubled assets ne stavano circolando in quantità e con presunti valori incontenibili nel suo stanziamento di 700 miliardi e che, in ogni caso, sull’accertamento esatto di quei valori ai fini dell’acquisto l’intesa era più che difficile. Il Tesoro pensava infatti di acquistare al prezzo più basso possibile per non inquietare il contribuente che pagava, le banche pensavano che in futuro quegli stessi assets avrebbero potuto recuperare e non erano quindi disposte a svenderli.

Venne accolto allora il consiglio dei tanti che sin dall’inizio avevano suggerito la strada diversa dell’ingresso dello Stato nell’azionariato delle banche o comunque del rafforzamento del loro capitale, che avrebbe rappresentato di per sé una garanzia sia per i risparmiatori che per le future attività creditizie e avrebbe consentito, in altre forme, la ripulitura di cui c’era bisogno. La mossa è stata inizialmente efficace e lo è stata negli Stati Uniti come negli Stati europei che l’hanno adottata: il caso di Lehman Brothers è rimasto isolato. Ma evidentemente non è bastata a restituire al sistema la fiducia di cui aveva bisogno. Intanto non ha riguardato tutti i titolari di troubled assets, ma solo alcuni. E poi non li ha rimossi dalla pancia di nessuno, nessuno è in grado di attestarne il valore e si va avanti così con bilanci di banche e di imprese largamente fondati sulle sabbie mobili, con conseguente volatilità dei corsi azionari e paralisi delle attività.

Non a caso il secondo atto della vicenda, quello interpretato negli Stati Uniti dal nuovo ministro del tesoro, Tim Geithner, prospetta il ritorno alla separazione dei troubled assets, questa volta attraverso un’apposita bad bank. Geithner l’ha proposta, ma in termini tanto vaghi da provocare una profonda delusione e un tonfo ulteriore dei corsi azionari a Wall Street. E come mai la sua proposta è così vaga? Per la stessa ragione per cui aveva fallito Paulson, vale a dire i troubled assets non hanno un valore di mercato e non c’è intesa sul possibile prezzo di acquisto da parte della bad bank.

Ebbene, non si può andare avanti così. Se il nuovo ministro americano, e nqn solo lui, pensa che sia necessario separare i troubled assets, una ragione c’è ed è il timore che organismi tuttora inquinati da questi titoli avvelenati finiranno per morire di setticemia finanziaria e lo faranno magari più presto di quanto comunemente si creda, con terremoti ancora più gravi di quelli sin qui già subiti. Ma se è così, possiamo rimanere prigionieri di questo autentico dilemma del prigioniero attorno al prezzo ignoto del veleno?

Voglio ricordare che, già ai tempi di Paulson, George Soros, che pure gli suggeriva di abbandonare il suo piano iniziale e di entrare invece nell’azionariato delle banche a rischio, suggeriva altresì di trattare i troubled assets sulla base di un valore convenzionale che, in assenza di un valore di mercato, avrebbe fornito l’unica possibile via d’uscita. E anche in questi giorni, in un libro che sta pubblicando (“The Crash of 2008 and What it Means”), Soros ripropone la stessa idea, nel contesto non della creazione di bad banks pubbliche, ma di sidecars creati dalle stesse banche per infilarci i loro titoli illiquidì e ripulire così i loro bilanci.

Io non entro nella scelta fra bad bank e sidecar, anche se preferisco di gran lunga il secondo. Ciò di cui sono convinto sin dall’inizio di questa storia (e l’ho scritto nella mia prima “Lettera” su di essa, sul Sole 24 Ore del 5 ottobre scorso) è che non ne usciremo, perché la fiducia non tornerà, sino a quando i troubled assets non saranno espulsi. E l’unico modo di espellerli è di attribuire loro un valore convenzionale, visto che il mercato non è mai stato in condizione di prezzarli. Ci vuole coraggio per farlo e temo che la ragione per cui Geithner è rimasto nel vago sulla sua bad bank sia proprio che,quel coraggio gli è al momento mancato.

Ma se lo deve far venire e con lui se lo devono far venire i suoi colleghi del G-7 e oltre. Non si facciano troppi scrupoli. Chi ha messo in circolazione quei titoli, chi li ha impacchettati o reimpacchettati e li ha fatti ulteriormente circolare non merita particolare benevolenza. Si stabilisca un valore sufficientemente prossimo allo zero da non sprecare i soldi del contribuente nel caso li si volesse usare per comprarli. E lo si stabilisca tuttavia a un livello che non azzeri la capitalizzazio-ne delle banche. In ogni caso, se soldi pubblici dovessero servire, meglio usarli per ricapitalizzare banche pulite, che spenderne molti per comprare le loro porcherie. Se poi, in futuro, quegli stessi titoli avessero un valore, lo si potrebbe sempre ritornare ai portafogli da cui vengono.

So che ci sono delle domande a cui bisogna rispondere e la prima riguarda i titoli da includere: quelli inizialmente acquisiti “over thè counter” e cioè con prezzo non di mercato, quelli sostenuti da mutui-casa fragili, gli swaps che hanno ad oggetto i medesimi titoli, i pacchetti che includono o gli uni o gli altri?

Qui non ho la risposta, so solo che quando si è costretti a usare l’accetta, la si usa nel modo più oculato possibile, ma l’importante è tagliare i rami che possono cadere sulla testa di tutti. Altrimenti di lì nessuno tornerà a passarci. E noi, impotenti davanti agli irresponsabili che l’hanno scatenata, resteremo paralizzati nella crisi più grave degli ultimi decenni.

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di Orazio Carabini

Per il momento la domanda di servizi che hanno bisogno della banda da ioo mega non esiste. E per molti anni ancora tutto quello che serve alle famiglie e alle imprese si potrà fare con la banda da 20 mega. Investire adesso nella rete di nuova generazione non avrebbe senso». Franco Bernabè ha spiegato così, a chi l`ha incontrato nei giorni scorsi, la sua secca presa di posizione sull`ipotesi di scorporare la rete di telefonia fissa di Telecom Italia.

Il Ceo del gruppo telefonico era infatti convinto che l`accordo raggiunto con l`Autorità delle Comunicazioni (Agcom) su Open Access, la divisione di Telecom Italia che gestirà autonomamente la rete, segnasse la fine del dibattito.

Che invece ha ripreso quota con le iniziative del Popolo della Libertà, corroborate dall`intervista al Sole 24 Ore di Angelo Rovati, ex-consigliere di Romano Prodi. Perché proprio ora? «Scavare le buche e riempirle», consigliava John Maynard Keynes per battere la recessione.

E non è un caso se Bernabè, che ha una formazione da economista, ha evocato Keynes. Il suo sospetto è che a premere per la rete di nuova generazione siano soprattutto le imprese che dovrebbero costruire e attrezzare la In questa fase di congiuntura negativa la prospettiva di realizzare un`opera colossale raccoglie facilmente il sostegno entusiasta di chi combatte tutti i giorni con budget sempre più striminziti e ordini in calo.

Ma i propugnatori dello scorporo, che non sono solo di centrodestra (vedere l`articolo diFranco Debenedetti sul Sole 24 Ore del 13 febbraio), raccontano un`altra storia.

Per loro il problema vero è che, indebitata com`è, Telecom Italia non avvierà mai il progetto Ngn, la rete di nuova generazione. Occorre pertanto guardare oltre e dare una prospettiva sia alla società sia alla rete, per il bene dell`economia italiana.

Lo scorporo risponde, in quest`ottica, al duplice obiettivo.

Telecom incasserebbe dei soldi e potrebbe attrezzarsi per competere al meglio e per espandersi sui mercati internazionali.

La rete, conferita a una società autonoma, potrebbe investire nelle tecnologie del futuro.

E normale che la politica si interessi di un`infrastruttura importante come la rete delle telecomunizioni. Non c`è nulla di sconveniente se esponenti del Pdl, nei convegni e nei dibattiti parlamentari, sostengono la necessità di scorporarla da Telecom Italia per farne una società autonoma.

Così come era legittimo nel 2006 che ministri del centrosinistra si ponessero lo stesso problema.

Va tutto bene. Purché si parta dal presupposto che Telecom Italia è una società privata (al ioo%), che è quotata in Borsa e che la rete di telefonia fissa è di sua proprietà.

Può essere stato un errore, dieci anni fa, privatizzarla così com`è, con una rete che, finito il monopolio, è utilizzata da tutti i concorrenti. Ma questa è la realtà di oggi.

E la reazione di Bernabè è comprensibile. Per lui la partita è chiusa. Lo scorporo della rete lo può solo imporre l`Agcom che però ha appena accettato gli impegni di Telecom Italia su Open Access. A questo punto può essere soltanto la società, quindi l`ad e il consiglio di amministrazione, a prendere una decisione di questo tipo. Che, eventualmente, dovrebbe essere ratificata anche dall`assemblea degli obbligazionisti, oltre che dagli azionisti.

Ma Bernabè ha altri progetti.

La sua idea è di estendere la copertura dell`Adsl a 20 Mega e di introdurre la Ngn man mano che si renderà necessario.

Sempre, però, con un vincolo: raggiungere le aree dove la domanda giustifica l`investimento.

La partita tuttavia non si può considerare chiusa. Nei prossimi giorni Francesco Caio presenterà il suo piano per la banda larga. Che, secondo le indiscrezioni finora circolate, suggerisce lo scorporodi una parte dell`infrastruttura di telefonia fissa di Telecom Italia.

Finora il governo non si è esposto. Di sicuro nessun ministro ha voglia di spendere qualche miliardo di curo, sia pure attraverso la Cassa depositi e prestiti, per “nazionalizzare” la società della rete in questa fase congiunturale.

Il presidente dell`Antitrust Antonio Catricalà ha già fatto capire, in un`audizione parlamentare, di non vedere di buon occhio una Rete spa in cui fornitori e gestori si ritrovano tutti insieme e magari ne approfittano per “coordinarsi”.

Bernabé ripete che l`epoca delle Partecipazioni statali è finita e che ogni intrusione della politica nelle scelte della società va respinta. Ma le parole d`ordine quali italianità, ammodernamento e indipendenza della rete torneranno all`ordine del giorno.

Con il rischio che l`azienda debba scontrarsi, come è già accaduto in passato, con la politica. E che tocchi ai maggiori azionisti una difficile mediazione.

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di Antonella Olivieri

Il dibattito politico sullo scorporo della rete Telecom ha finito per risolversi in un braccio di ferro con l’ex monopolista nazionale. La questione è complessa perché si tratterebbe di conciliare due esigenze differenti. L’una, quella pubblica, di dotare il Paese di un’infrastruttura all’avanguardia, sostenendo nel contempo l’occupazione, l’altra, quella privata di un gruppo come Telecom, di investire in un’ottica di ritorno reddituale.
È chiaro che la strada non potrebbe che essere quella dell’accordo consensuale, perché qualsiasi formula che suonasse come un esproprio sarebbe accolta con sospetto dal mercato e non potrebbe che finire per pesare sul valore dei titoli. D’altra parte la costituzione di una rete di nuova generazione a prescindere dall’esistente – e il “grosso” della rete è in mano a Telecom- rischierebbe di tradursi in un’inutile duplicazione oltre che rivelarsi certamente troppo dispendioso.

Il dialogo sarebbe più semplice se non ci fosse Telefonica? Che, da operatore del settore, non ha nascosto il suo scetticismo (qui alcuno la chiama contrarietà) su un’ipotesi di scorporo della rete. Può darsi che ci si intenderebbe meglio parlando la stessa lingua, ma la questione Telefonica potrebbe presto porsi su un altro piano.

È di ieri la notizia che l’Antitrust dell’Argentina ha respinto il ricorso di Telefonica, Telco, Pirelli e Generali contro la mancata notifica formale del passaggio del pacchetto di riferimento di Telecom alla holding cui partecipano gli stessi spagnoli con la quota di maggioranza. È sempre ammissibile il ricorso alla giustizia ordinaria, ma è chiaro che l’Authority di Buenos Aires sta tirando dritto per la sua strada, partendo dal presupposto di una commistione tra i due maggiori operatori telefonici del Paese. Al vaglio è cioè se Telefonica, pur possedendo indirettamente meno del 2% di Telecom Argentina, non sia in realtà da considerare controllante del suo più diretto concorrente tramite la partecipazione in Telco. Presupposto che cadrebbe se Telefonica possedesse direttamente il 10% di Telecom che oggi detiene tramite la holding.

Evento che potrebbe verificarsi, come prevedono i patti tra i soci Telco, se l’Antitrust argentino dovesse disporre «oneri o disinvestimenti» a carico dell’uno o dell’altro operatore. In quel caso scatterebbe la facoltà di scissione da Telco di Telefonica o dei soci italiani di Telecom, se per esempio fosse quest’ultima a essere penalizzata nell’inibizione a esercitare le opzioni per rilevare il controllo di Telecom Argentina.

Ma in America Latina, un’altra situazione in evoluzione è quella del Brasile, dove la Consob locale ha chiesto a Telco l’Opa sulle minoranze di Tim Participaçoes, sullo stesso presupposto che sia passato di mano il controllo di Telecom. Richiesta, che se andasse avanti, potrebbe portare l’Anatel, l’Authority locale delle tic, a riconsiderare le sue valutazioni sul dossier Tim Brasil-Vivo-Tele-fonica, rendendo scomoda la presenza degli spagnoli nell’azionariato di Telco. Telecom però ha ribadito con i fatti di considerare strategica la sua presenza in Brasile. Tanto che Tim Brasil sta studiando il modo di rientrare nella telefonica fissa a cui aveva rinunciato uscendo da Brasil Telecom.

Su richiesta della Consob locale, ha infatti confermato ieri che sta negoziando con l’imprenditore Nelson Tanure, titolare di testate come la Gazeta mercantil e il Jornal do Brasil, per rilevare la compagnia telefonica Intelig. Con un’operazione economicamente sopportabile, che potrebbe anche essere carta contro carta, e che soprattutto eviterebbe a Tim di affittare la rete fìssa dei concorrenti.

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La separazione sarà una delle proposte del Rapporto governativo

di Carmine Fotina

Tra poco più di due settimane Francesco Caio, il superconsulente incaricato dal Governo, presenterà il suo piano per il rilancio della banda larga e per il riassetto della rete di telecomunicazioni. Tra le proposte che sottoporrà al sottosegretario alle comunicazioni Paolo Romani, al ministro dello Sviluppo economico Claudio Scajola e probabilmente direttamente al premier Silvio Berlusconi ci sarà anche lo scorporo dell’infrastruttura fissa di Telecom Italia per creare una società delle reti aperta a nuovi investitori.

Sarà solo una delle diverse soluzioni messe sul tavolo per varare un grande piano di investimenti nelle tic, ma è anche quella che piace di più a un’ampia area della maggioranza e del Governo. Il convegno organizzato ieri a Roma dal Popolo della Libertà ha riportato la questione in primo piano dopo le esternazioni favorevoli allo scorporo fatte dall’ex consulente di Prodi Angelo Rovati e dal presidente della Commissione Trasporti e tic della Camera Mario Valducci (entrambe pubblicate su questo giornale) e dopo la risposta a distanza, la settimana scorsa, dell’amministratore delegato di Telecom Franco Bernabè: «L’operazione non è in agenda». Il pressing non cessa: alla finestra ci sono i fornitori di tecnologie, che chiedono una svolta per trovare nuove commesse, gli altri operatori del settore ma anche possibili outsider di lusso. Fastweb potrebbe conferire la sua rete nelle nuova società e Mediaset, il gruppo che fa capo alla famiglia del presidente del Consiglio, potrebbe tentare il grande salto nelle tic e nella tv via internet. Anche se su quest’ultima ipotesi Bernabè sembra subito mettere le cose in chiaro: «Telecom non vuole fare la media company. E non c’è possibilità per Mediaset, Sky o Rai di diventare proprietaria esclusiva di una rete a banda ultralarga. La rete è una sola, di proprietà di Telecom Italia che intende farne una piattaforma per la Ip television aperta a tutti».

Ieri, attraverso Pierluigi Borghini, coordinatore del Dipartimento Attività produttive di Forza Italia, il partito del premier ha lanciato la sua proposta per lo scorporo e anche in questo caso Bernabè ha risposto con tono deciso: «Qualsiasi intervento di tipo dirigistico sarebbe illegittimo e inappropriato. Per fortuna siamo a un convegno del Popolo della Libertà e non di Gosplan». Eppure, secondo le indicazioni che filtrano da ambienti finanziari e politici, in casa Telecom l’opzione della separazione societaria della rete, da aprire a nuovi investitori per contribuire alla riduzione dell’indebitamento e al piano di investimenti sul network di nuova generazione, non è mai tramontata. Anzi, il piano potrebbe realizzarsi anche in tempi brevi se si concretizzeranno alcune condizioni. Innanzitutto dovrà essere una pura operazione industriale, con una soddisfacente valorizzazione dell’asse per gli azionisti e nessuna implicazione sotto il profilo delle regole, già adeguate secondo Bernabè grazie agli impegni assunti con l’Authority.

In secondo luogo, anche se tra i soci italiani di Telco sono saliti i consensi per l’operazione, restano da superare le riserve di Telefonica. Infine, ma non è un punto secondario, c’è da fare chiarezza sulla gestione e il management della ipotetica nuova società, che le indiscrezioni periodicamente accostano a Stefano Parisi, a.d. di Fastweb, o addirittura allo stesso Caio.
Rispetto a questo mosaico incompleto la proposta di Forza Italia è decisamente più avanti. Lo schema delinea una società separata, «Telecom Larga Banda», in cui l’ex monopolista avrebbe la maggioranza mentre il 40% sarebbe ceduto a nuovi azionisti a partire da Cassa depositi e prestiti e il fondo F2i. I grandi fornitori di tecnologie – Siemens, Ericsson, Zte, Alcatel – farebbero la loro parte fornendo un miliardo di euro ciascuno in attrezzature con pagamento differito. Chiamato in causa, il presidente della Cdp Franco Bassanini ricorda che sarà l’azionista ministero dell’Economia a decidere se lanciarsi in quest’operazione e che se ne saprà di più tra poche settimane, quando sarà emanato l’elenco dei settori in cui la Cassa, sulla base della recente riforma voluta da Tremonti, potrà investire le risorse del risparmio postale.

Davanti alla platea il sottosegretario Romani prova a ridimensionare la portata della proposta e invita alla cautela, ma dell’ipotesi scorporo ha già abbondantemente parlato con il consulente Caio. Tutto ovviamente sarà subordinato al definitivo via libera degli azionisti Telecom, come in serata, dopo il clamore suscitato dal convegno, ha precisato il ministro dello Sviluppo Scajola: «Sulla base del rapporto Caio, e nel confronto con tutti gli operatori interessati, il Governo assumerà le opportune decisioni. Per quel che riguarda la reteTelecom ribadisco che nessuna eventuale iniziativa potrà essere assunta senza il pieno consenso della società».

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