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→  ottobre 20, 2009

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Il tempo di Berlusconi: un’era è finita

È stato eletto e rieletto perché gli italiani vogliono limitare i sindacati e i pm, pagare meno tasse, scegliere da chi farsi guidare

Dopo l’ultima estate, la fine anticipata del ciclo politico di Berlusconi è parsa diventare una concreta possibilità; è quindi aumentata la tensione a centrare questo obiettivo. Che un ciclo politico così lungo dovesse finire, era scontato. Ma c’è modo e modo. E nel modo in cui la retorica politica sta contribuendo al framing delle particolari condizioni in cui la lunga corsa del Cavaliere verrà a finire, c’è un rischio grosso: corriamo il pericolo di buttar via più di 15 anni della nostra storia.

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→  ottobre 20, 2009

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Tante le sfide da vincere

di Maurizio Lupi

C’è una parola che, negli ultimi anni, è diventata centrale nel dibattito politico italiano. È la parola «anomalia». Anomalo è, secondo studiosi e intellettuali, Silvio Berlusconi. Al punto che dal 1994, con cadenza più o meno regolare, gli stessi ci preannunciano la sua fine. Il ragionamento è chiaro: un’anomalia non può durare in eterno anzi, proprio perché si tratta di un evento eccezionale, è naturalmente portato a esaurirsi.

La mia impressione è che ad essere anomala sia tutta questa discussione. Da 15 anni quest’uomo continua a governare il paese e a godere della fiducia degli elettori. Impossibile non domandarsi: perché? Io credo che ci sia anzitutto un motivo storico. Dopo la fine della prima repubblica il sistema politico italiano ha imboccato la strada della semplificazione. Via via sono andate affermandosi aggregazioni politiche forti, guidate da leadership riconosciute e consacrate dal voto di milioni di cittadini. Le tre cose sono profondamente legate: non può esistere aggregazione stabile in grado di governare se non guidata da una personalità forte in cui gli elettori si riconoscono. Per capirlo basterebbe guardare cosa sta accadendo nel Pd dove, dopo mesi, si è ancora alla ricerca di un leader. E questo ha prodotto, come risultato immediato, un calo di consensi.

Fondamentale però, affinché chi guida sia politicamente credibile, è che si presenti non contro qualcuno, ma con una proposta, con dei contenuti. Il fallimento di tutti i governi di centro-sinistra degli ultimi anni ne è la dimostrazione concreta.

C’è poi un altro elemento che, secondo me, sta alla base del successo di Berlusconi, ed è l’aver capito prima di altri che una forza come la Lega, che dopo la fine della prima repubblica raccoglieva il malumore di una parte importante del paese, potesse governare dentro l’alleanza con un partito di dimensione più nazionale. Questo ci ha permesso di rispondere in maniera efficace ai bisogni del Nord senza dimenticare le esigenze del Sud. Non è un caso che oggi, anche i nostri avversari, si interroghino su come riuscire ad essere una forza nazionale e, allo stesso tempo, federale.

Infine la sfida più grande vinta da Berlusconi è stata sicuramente quella di ricomporre la distanza tra politica e cittadini. Come? Traducendo ideali, valori e programmi in fatti e azioni concrete. Avendo sempre ben chiaro che questa “moralità del fare” vive non sulla centralità dello stato, ma sulla capacità di puntare sulla persona e sulla sua libertà. Questi elementi mi fanno dire che Berlusconi incarna in maniera perfetta l’evoluzione del sistema politico nazionale. Un’evoluzione che è stata fortemente voluta dai cittadini. Non si tratta quindi di un’anomalia, ma della risposta a una domanda del paese che è ancora viva, oggi più che mai.

Per capirlo basterebbe un dato: in questi 15 anni il consenso intorno alla sua figura e al centro-destra è cresciuto esponenzialmente. Anche adesso che è al governo, nonostante le campagne mediatiche e gli assalti giudiziari, non si registrano significative flessioni. E siccome la fine di una leadership non la decidono né gli intellettuali né i politologi, mi sembra che il rischio di una prematura conclusione dell’esperienza berlusconiana sia da escludere categoricamente.

Certo, sappiamo bene che il consenso non è tutto. Quando questa maggioranza si è presentata alle urne nel 2008 lo ha fatto cosciente che ciò che l’attendeva era una sfida: riuscire a far ripartire una paese fermo sulle emergenze quotidiane che rischiava di essere spazzato via dalla crisi economica. Oggi quel compito non è esaurito, tutt’altro. Nei primi 18 mesi (appena 18 mesi di governo!) sono state messe in cantiere riforme importanti come il federalismo fiscale, la giustizia civile, la scuola o quelle delineate nel libro Bianco redatto dal ministro Sacconi, ma ancora tanto resta da fare. Servono, come scriveva Giuliano Ferrara alcuni giorni fa sul Foglio, «palesi atti di liberalizzazione istituzionale, politica, economica e sociale».

Ma non è la sola sfida che attende Berlusconi. Se da un lato bisogna continuare a camminare decisi lungo la strada delle riforme, dall’altro occorre portare a compimento il progetto del Pdl come partito dei moderati, sintesi delle grandi tradizioni politiche del nostro paese (socialista, liberale, cattolica e della destra moderata), che, primo e unico nella storia della seconda repubblica, è riuscito a raccogliere il consenso di quasi il 40% degli elettori. Questi sono i compiti che attendono Silvio Berlusconi. Con buona pace di chi, da 15 anni, preannuncia la sua fine.

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Troppe aspettative tradite
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2009

→  ottobre 12, 2009

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Dieci grandi esperti indicano i termini più d’attualità e quelli destinati all’oblio

Abs, cartolarizzazione, cdo: quali sono le parole, i neologismi sorti nel corso della crisi economica 2007-2008 cui possiamo dire addio? Quali termini finiranno (o vorremmo vedere finire) nel cassetto, nella speranza di non dover fare più i conti con il loro significato negli anni a venire? E quali termini invece potrebbero tenerci compagnia nei prossimi anni, arricchendo il dibattito e il nostro vocabolario quotidiano? L’abbiamo chiesto a dieci dei maggiori economisti italiani. A ognuno è stato domandato di individuare due termini, nati sulle labbra degli esperti per arrivare sulla bocca della gente comune, che abbiamo contrassegnato – nel male, quindi “out” – e siano destinati a contrassegnare – nel bene, quindi “in” – l’evoluzione dei cicli economici trascorsi e futuri. Parole da cui liberarsi quasi fossero zavorre, insomma, e vocaboli cui attaccarsi nella speranza che i sistemi economici siano più solidi e vigilati di un tempo. La risposta? Meno scontata di quella che si possa immaginare, come si può vedere dalle loro testimonianze raccolte qua sotto.

a cura di Luca Davi

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→  ottobre 12, 2009

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di Giacomo Vaciago

OUT: 35 ORE
Il concetto cui possiamo con serenità dire addio è quello relativo alle 35 ore. E’ un’idea che oramai appartiene al passato e che non può essere presa più in considerazione. Per anni si è ritenuto che questa fosse la durata massima della settimana lavorativa. I francesi ci hanno fatto sopra anche una legge. Oggi invece è quanto di più vecchio si possa ipotizzare e il motivo è semplice: con l’avvento della crisi, è finita l’idea che la ricchezza sia a disposizione di tutti e che si possa anche lavorare meno.

IN: CAMBIAMENTO
Prima la “rupture” di Sarkozy, poi il “Yes, we can” di Obama. Il futuro, in politica come in tutti gli altri ambiti, è segnato dalla voglia di discontinuità, dal bisogno di cambiamento su tutti i fronti. I prossimi anni saranno segnati dall’urgenza della trasformazione: non a caso i due uomini politici hanno vinto proprio facendo leva su questa necessità. E come dice il Papa nella sua vecchia enciclica Caritas in Veritate, il “nuovo” che uscirà dalla crisi – grazie al discernimento e alla nuova progettualità – avrà bisogno di etica per il suo corretto funzionamento.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009

→  ottobre 12, 2009

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di Ferdinando Targetti

OUT: CICLO A W

Il Ciclo a W è un rischio che le economie di tutto il mondo stanno correndo. Significa che dopo una breve ripresa, leconomia subisce un tracollo. E’ un fenomeno che si presentò negli anni Trenta. Oggi può succedere se le autorità monetarie e fiscali dei principali paesi sbagliano la “exit strategy”.
Se è troppo presto i boccioli della ripresa vengono gelati, se è troppo tardi si rischia un aggravarsi della spirale del debito pubblico e l’insorgere dell’inflazione, soprattutto da materie prime, a causa della grande liquidità nei mercati.

IN: G20
La crisi ha insegnato una cosa importante, che le sorti economiche dei paesi sono talmente intrecciate nel bene e nel male che è necessaria una forte azione di coordinamento delle politiche economiche, quella che si chiama una “Governance mondiale”.
Rispetto al passato si ampliano gli ambiti di “governance” alla regolazione dei mercati finanziari e al riequilibrio delle cosiddette “macroimbalances” e si ampliano i paesi coinvolti negli accordi degli otto paesi del G8, alle economie emergenti dei Bric.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009

→  ottobre 12, 2009

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di Pietro Reichlin

OUT: CARTOLARIZZAZIONI
Molti economisti ritengono che, quando tornerà la calma sui mercati, le cartolarizzazioni torneranno importanti come prima della crisi. Non dimentichiamo i benefici: maggiore accesso delle imprese al capitale, minori costi di intermediazione, migliore allocazione del rischio e maggiore liquidità per le banche. Tuttavia il modello ha molti difetti. Le banche d’affari cartolarizzano crediti di cui è difficile valutare il rischio sottostante, il modello originate-and-distribute è caratterizzato da rischio morale, la valutazione del rischio di obbligazioni complesse si basa su modelli statici incapaci di valutare il rischio sistemico. Per il momento, e forse per anni, la parola cartolarizzazioni manterrà un’accezione negativa.

IN: BRIC
La crisi finanziaria ha coinvolto le economie sviluppate, mentre quelle dei principali paesi emergenti hanno resistito in modo inaspettato. La Cina non ha solo evitato una grave crisi economica, ma ha anche contribuito ad attutirne gli effetti mediante un gigantesco piano di stimoli ed il sostegno al dollaro. Il superamento degli squilibri mondiali dipende da una domanda interna dei Bric. Le soluzioni ai problemi economici (e politici) del mondo dipendono sempre meno dalla volontà dei governi europei e sempre più dai paesi emergenti. La vecchia Europa potrà ancora insegnare agli altri qualcosa sui temi della sicurezza sociale e delle politiche contro la disuguaglianza, ma la sua leadership è a rischio.

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FRANCO DEBENEDETTI
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 12 ottobre 2009