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→  dicembre 22, 2009

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di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Numerosi studi di sociologi ed economisti mostrano che una delle principali cause dell’arretratezza del Mezzogiorno ha radici antiche dalle quali dipende una carenza di “capitale sociale” e di “senso civico”. Al sud manca una sufficiente fiducia reciproca e una capacità di collaborare che vada oltre le mura familiari e che, quindi, faciliti contratti e interazioni economiche tra estranei. La produzione e lo scambio di beni diventano difficili, se non ci si può fidare delle persone con cui si interagisce.

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→  dicembre 17, 2009

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Intervista a Francesco Caio

«L’annuncio della Francia, due giorni fa, di un forte stanziamento pubblico per la banda ultralarga s’accompagna all’iniziativa del governo Brown che metterà 50 pence su ogni bolletta per finanziare la rete di nuova generazione. Gli altri paesi accelerano».
L’Italia non è al palo, ma su un passaggio tecnologico cruciale, rischia di scivolare verso l’eterna affabulazione avvolta com’è in un dibattito senza fine. Francesco Caio già responsabile di Olivetti, Omnitel, Merloni, Cable & Wireless, oggi nei ranghi più alti di Nomura e consulente sia del governo inglese sia di quello italiano sullo sviluppo del digitale, spinge ad agire.

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→  dicembre 13, 2009

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La fiducia nella società manca perché ci si rifugia nelle mura domestiche o viceversa? Un nodo che la politica non scioglie

«Cucine linde e cartacce per strada», università ovunque e figli fuori corso a casa fino a 35 anni. L’analisi di Alberto Alesina e Andrea Ichino sui valori che fanno perdere terreno all’Italia.

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→  novembre 22, 2009

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di Alberto Mingardi

In nome dell’acqua bene comune, viene sprecato ogni anno un terzo delle risorse idriche captate. Se si parte da questo dato di fatto, è difficile leggere nella vasta mobilitazione contro “l’acqua ai privati” altro che un tic ideologico.

Con il sì del Senato al decreto Ronchi “salva infrazioni comunitarie”, a partire dal 2011 i servizi pubblici locali dovranno in via ordinaria essere affidati tramite gara. Non è prevista alcuna “privatizzazione dell’acqua”: il tentativo del legislatore è semplicemente quello di razionalizzare la fornitura del servizio. E’ noto quali siano, perlomeno sulla carta, le virtù della gara rispetto all’affidamento “in house”: in primis, una maggiore accountability e meno conflitti di interessi per le Amministrazioni. Quello idrico è un ciclo chiuso:quanti si aggiudicheranno il servizio, si impegneranno a raccogliere l’acqua, renderla potabile, portarla ai rubinetti e smaltirla dopo averla depurata. La gara serve per rendere contendibile un monopolio tecnico, rispetto al quale l’ipotesi di replicare l’infrastruttura è poco praticabile. La parte in commedia assegnata ai privati è fare profitto sulla riduzione dello spreco, ponendo in essere investimenti che il pubblico non potrebbe permettersi o non saprebbe selezionare, per rendere più solide le reti e assicurando una gestione più lineare e imprenditoriale.

Che la riforma dei servizi locali sia andata a segno, è un merito non da poco del governo. Rispetto ai tentativi precedenti, però, bisogna anche segnalare che l’articolato di legge è meno netto sul tema dell’in house. Il ddl Lanzillotta (nella sua prima versione) avrebbe costretto gli enti locali a rimuovere gli impedimenti allo svolgimento delle gare. Con il decreto Ronchi, quest’obbligo non è contemplato e l’affidamento diretto è ancora ammesso sia pure in via “straordinaria” (in presenza di esigenze ambientali o sociali variamente declinabili), e previo parere dell’Antitrust.

L’altro nodo da sciogliere attiene il fronte della regolazione, sul quale non si segnala nulla di nuovo. Sorveglianza e valutazioni tecniche restano in capo ad una Commissione presso il Ministero dell’Ambiente, e alle Autorità di ambito territoriale ottimale. L’idea di un regolatore indipendente (o dell’attribuzione di funzioni specifiche all’Agcm, oppure delle competenze su acqua e rifiuti all’Autorità per l’Energia) per ora non è neppure sulla carta, ma è evidente che se la liberalizzazione deve implicare la “de-politicizzazione” un passo in quella direzione è auspicabile. Il rischio è altrimenti quello di creare delle nuove zone d’ombra fra privato e pubblico, che assieme legittimerebbero i peggiori sospetti e vedrebbero le imprese giocare un ruolo residuale, in buona sostanza finendo per assomigliare a una “burocrazia meno onerosa”. Si perderebbe così parte dei benefici dinamici della concorrenza, quelli legati all’applicazione della creatività imprenditoriale ad un certo settore – e quindi alle innovazioni nella fornitura di un servizio.

Per loro natura, le gare sono strumenti molto imperfetti per sostenere lo sviluppo di questo genere di competizione. Tuttavia, sono l’unica arma attualmente a nostra disposizione, ed è comunque incoraggiante che finalmente il Parlamento abbia cominciato un percorso. Ora si aprono altre partite, persino più vischiose, a cominciare da quelle per il controllo delle aziende municipalizzate quotate di cui dal 2015 il pubblico dovrà possedere meno di un terzo. Sempre che non si continui con la prassi dei rinvii, come verranno scelti e chi saranno i nuovi soci è una questione cruciale, e sarà la cartina di tornasole sia della capacità dei territori di adattarsi alle logiche di mercato, sia della volontà della politica di mollare la presa. Purtroppo le polemiche di questi giorni ci dicono che restiamo liberalizzatori riluttanti, e ci sfugge la lezione più importante. Cioè che è proprio perché si tratta di servizi essenziali, come il pane, che è meglio fare assegnamento sul mercato, che sulla benevolenza del fornaio o del politico.

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L’acqua privata e le paure dei consumatori
di Franco Debenedetti – La Repubblica, 22 novembre 2009

Acqua, tutte le falle di un decreto
di Massimo Mucchetti – Il Corriere della Sera, 22 novembre 2009

La battaglia dell’acqua
di Paolo Rumiz – La Repubblica, 18 novembre 2009

→  novembre 20, 2009

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Abbandonare il maggioritario sarebbe un disastro: governi fatti e disfatti in parlamento evitano le decisioni difficili, recando danno ai conti pubblici

Siamo entrati nella prospettiva del postberlusconismo. A segnalarlo con chiarezza, ancor più delle confuse turbolenze che agitano la maggioranza, sono i fatti politici concretamente avvenuti nell’opposizione: l’elezione di Pierluigi Bersani a segretario del PD e la decisione di Francesco Rutelli di uscire dal partito per dar vita alla sua formazione autonoma. Ci si posiziona in vista delle combinazioni politiche che diventeranno possibili con la fine del potere coalizionale di Silvio Berlusconi.

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→  novembre 15, 2009

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Resta escluso dal calcolo l’enorme contributo delle donne nell’economia domestica. Una risorsa ma anche un modello che genera le inefficienze del «familismo amorale»

Sarà in libreria nei prossimi giorni per Mondadori il volume «L’Italia fatta in casa. Indagine sulla vera ricchezza degli italiani» di Alberto Alesina e Andrea Ichino. Ne anticipiamo uno stralcio.

di Alberto Alesina e Andrea Ichino

Quando cuciniamo gli spaghetti per la cena facciamo un lavoro il cui valore non viene incluso nel conteggio statistico del Prodotto interno lordo. Se, invece di cucinare, andassimo a mangiare gli spaghetti al ristorante, il lavoro di chi li prepara e di chi ce li serve sarebbe incluso nel pil. Lo stesso accade per la pulizia della casa, per la cura dei bambini e degli anziani e per tutti gli altri beni e servizi che la famiglia produce e che potrebbero essere acquistati nel mercato aumentando il pil. Non è diversa la situazione degli spagnoli quando cucinano la paella o dei norvegesi quando pescano il merluzzo per la cena. Ma in Italia l’entità della produzione familiare non rilevata dalle statistiche ufficiali è maggiore che altrove. Possiamo, allora, sostenere che il nostro Paese, grazie a quanto le sue famiglie producono in casa, sia più ricco di quel che normalmente si pensi? E se fosse vero che produciamo in casa più di quanto prodotto dai cittadini di altri paesi, non dovremmo forse chiederci se questo abbia dei costi, ovvero se dare un ruolo così rilevante alla famiglia possa avere controindicazioni, in particolare per la condizione della donna, per il sistema educativo, per il mercato del lavoro e per la struttura del welfare state?

Nel 1956 un politologo dell’Università di Chicago, Edward Banfield, poi passato ad Harvard, decide di studiare le cause del ritardo di sviluppo nel Sud d’Italia. (…) Da questa esperienza deriva uno straordinario libretto di un centinaio di pagine intitolato Le basi morali di una società arretrata. Queste cento pagine, talvolta anche divertenti, ci aiutano a capire il Sud d’Italia molto più delle migliaia di pagine scritte da economisti, storici, politologi e sociologi sulla «questione meridionale». La spiegazione dell’arretratezza del Sud d’Italia secondo Banfield deriva dalla struttura della famiglia e dal suo rapporto con la società. Ma a nostro avviso questo libro ha molto da insegnare anche su tanti altri problemi del nostro Paese, ben al di là di Montegrano e della Questione meridionale.

Vivendo a Montegrano, Banfield si convince che l’arretratezza economica, politica e sociale del Sud risiede in quello che lui definisce il «familismo amorale». Con questo termine vuole cogliere il comportamento basato sulla convinzione che ci si possa fidare esclusivamente dei propri familiari; non solo, ma che ci si debba aspettare che tutti gli altri a loro volta facciano altrettanto, ossia si fidino solo dei propri consanguinei. Quindi, atteggiamenti collaborativi fondati su un reciproco rispetto e fiducia possono esistere solo all’interno della famiglia. A Montegrano ci si deve aspettare di essere truffati dagli estranei, cioè da chi non appartiene alla propria famiglia. E di riflesso, la risposta al timore di una possibile truffa è un atteggiamento altrettanto truffaldino. Una società basata sul familismo amorale si trova quindi in un equilibrio pessimo: nessuno collabora e si fida degli altri perché nessuno si aspetta che gli altri lo facciano e offrire collaborazione e fiducia significa la certezza di essere truffati.

Si tratta proprio di un equilibrio nel senso più tecnico di questo termine: ovvero questa è una configurazione sociale stabile nel senso che a nessuno individualmente conviene cambiare atteggiamento, a meno che non lo facciano anche gli altri, tutti insieme, e con la certezza che nessuno continui negli atteggiamenti truffaldini.
Non a caso, le cosche mafiose si autodefiniscono «famiglie». La norma in queste organizzazioni è che ci si può fidare, appunto, solo dei membri della «famiglia», mentre da qualunque altra persona non appartenente alla «famiglia» ci si devono aspettare solo trabocchetti e tradimenti e quindi bisogna agire di conseguenza. In particolare, per prudenza, conviene prevenire il tradimento altrui con quello proprio.
Banfield dimostra come le conseguenze del familismo amorale siano devastanti per l’economia e la società di Montegrano, soprattutto perché impediscono la creazione e la gestione di beni pubblici fruibili da tutti, che favorirebbero la crescita economica e sociale del paese. (…)

Una famiglia molto unita che produce beni e servizi necessita di una figura che mantenga l’unità familiare e svolga il ruolo di fulcro della casa. Questa figura è tipicamente la donna, moglie, sorella e madre. Ne consegue che dove i legami familiari sono più forti la partecipazione al lavoro femminile nel mercato è più bassa perché la donna è più impegnata in casa. Non per nulla nel Sud d’Italia le donne lavorano meno nel mercato e i legami familiari sono più forti, qualche volta addirittura «perversi», come nel caso del familismo amorale di Montegrano. In un Paese che scelga di dare un ruolo importante alla famiglia, una persona che svolga la funzione di fulcro di questa istituzione è forse necessaria: ma perché deve essere necessariamente la donna a svolgerla?
Potrebbe essere che alle donne italiane piaccia così. Oppure che non piaccia affatto, ma che per caratteristiche genetiche e culturali non rapidamente modificabili siano più adatte ed efficienti degli uomini nella produzione familiare. Oppure ancora potrebbe far comodo ai mariti, ai figli e ai fratelli che le donne non lavorino o che lavorino relativamente poco nel mercato e moltissimo a casa.

In questo caso quindi le donne sarebbero costrette a questo ruolo da un maggiore potere contrattuale degli uomini. Senza stravolgere e indebolire l’intensità dei legami familiari a cui gli italiani tengono in modo particolare, non sarebbe preferibile che gli uomini partecipassero di più a sostenere la famiglia nelle sue funzioni? In Italia molti uomini se ne guardano bene, delegando tutti i lavori di casa alle loro mogli, madri e sorelle.

Forse proprio all’interno della famiglia, più che a causa della discriminazione nel mercato del lavoro, si determina lo squilibrio di ruoli che osserviamo in tutti i Paesi e soprattutto in Italia.

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