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→  aprile 19, 2013


di Donato Masciandaro

Adesso se ne accorge anche il Fondo monetario internazionale: inondare il mercato di liquidità e portare verso lo zero i tassi di interesse non risolve il problema del credito alla piccola e media impresa, che impiega oltre il 70% della forza lavoro in Europa. Occorre altro. Nel suo rapporto periodico sulla stabilità finanziaria l’Fmi dedica attenzione all’inefficacia che le abbondanti iniezioni di moneta a tassi di interesse minimi attuati dalla Banca centrale europea stanno avendo in termini di credito per la parte del tessuto produttivo più rilevante in termini di occupazione: le Pmi. La questione è la rottura del l’ingranaggio che parte dalla moneta, passa dal credito e i depositi, e arriva a dar frutti in termini di investimenti, crescita economica e occupazione.

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→  aprile 16, 2013


di Luigi Guiso e Guido Tabellini

Come ha ricordato Roberto Napoletano nel suo editoriale di domenica, la stretta del credito sull’economia italiana sta diventando sempre più soffocante, ed è urgente fare tutto il possibile per allentarla. In un contesto in cui la domanda interna è assente l’industria italiana sopravvive solo se riesce a esportare. Ma per raggiungere i mercati più lontani ed essere competitivi, occorrono nuovi investimenti. Chi li può finanziare?
Prometeia stima che da qui al 2015 le imprese manifatturiere italiane dovranno fare nuovi investimenti per almeno 150 miliardi – di più per rinnovarsi e raggiungere i tassi di investimento delle imprese tedesche –. È quanto mai improbabile che il sistema bancario italiano sia in grado di fornire questa liquidità. I vincoli di capitale sulle banche e lo stato dei loro bilanci non lo consentono. Sempre secondo Prometeia, i flussi di nuovo credito bancario alle imprese in questo stesso periodo difficilmente supereranno i 60 miliardi. Cioè tra la domanda e l’offerta di credito vi sarà un gap di almeno 90 miliardi nei prossimi tre anni. Per colmare il gap e consentire ai piani di investimento di realizzarsi, occorre trovare finanziamenti alternativi al credito bancario. Ciò non è impossibile, perché le banche centrali stanno inondando i mercati di liquidità e questa è alla ricerca di rendimenti elevati. Il problema è come far arrivare i fondi a piccole e medie imprese (Pmi), che tradizionalmente si finanziano solo con il credito bancario.
Vi sono due strumenti che potrebbero essere potenziati (per una discussione più dettagliata, si veda il sito www.ideeperlacrescita.it).

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→  aprile 14, 2013


di Roberto Napoletano

«Direttore, lo scriva per favore che non ce la facciamo più». «Le nostre aziende sono sane, ripeto sane, ha capito bene, ma possono comunque fallire da un giorno all’altro, un Paese ridotto così non è un Paese serio». Sono a Torino, al Lingotto, il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, ha chiuso i lavori di una due giorni della piccola impresa segnata da un minuto di silenzio in piedi «per chi ha perso l’impresa e per chi resiste».

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→  aprile 13, 2013


In occasione del convegno Piccola Industria, Torino, 12-13 aprile 2013

Non c’è stato intervento, ieri a Torino, in cui non venisse toccato il tema dei debiti pregressi della pubblica amministrazione. Quei 40 miliardi di debiti commerciali che ora Bruxelles ha sbloccato, per le imprese che sono riuscite a sopravvivere alla crisi che riduce volumi e margini, mentre le banche razionano il credito, sono come l’acqua per chi muore di sete. E non c’è stato intervento in cui non si parlasse di politica europea: a cui la questione dei debiti pregressi è strettamente connesso. Italiano è il debitore, italiani i creditori, italiani i codici che ne regolano i reciproci rapporti: ma la decisione se pagare o no si prende a Bruxelles.

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→  aprile 10, 2013


di Roberto Perotti

Per molti Margaret Thatcher è il simbolo e la fonte dei mali del capitalismo moderno. Il necrologio scritto da Romano Prodi sul Sole di ieri è un esempio di questa interpretazione. Ma è una interpretazione ingiusta, che si ferma ad alcuni stereotipi senza fondamento. Qualunque valutazione della Thatcher deve partire da un dato storico: la Gran Bretagna veniva dal tunnel degli anni 70, in cui era diventata lo zimbello d’Europa, in preda all’inflazione e alla recessione, e costretta addirittura a presentarsi con il cappello in mano al Fondo monetario internazionale.

Per oltre dieci anni era stata governata dalla classe politica più inetta del ventesimo secolo, Wilson e Callaghan nel partito laburista e Heath in quello conservatore.
Scrive Romano Prodi: “Diciamolo come va detto: la Thatcher ha ridotto lo stato a niente”. Un osservatore che scendesse da Marte troverebbe questa espressione incomprensibile. Nel 1990, quando la Thatcher si dimise, la spesa corrente al netto degli interessi come percentuale del Pil, era esattamente al livello che aveva trovato nel 1979, e ben più alta che all’inizio degli anni 70. E chi oggi combatte l’austerità fiscale avrebbe apprezzato la famosa manovra del cancelliere Lawson del 1983, che abbassò le tasse e alzò la spesa pubblica.
Per Prodi Margaret Thatcher “ha dato forma politica e dignità istituzionale alla ribellione anti-tasse trasformandola in una vera e propria dottrina economica diventata addirittura senso comune”. Un’altra affermazione molto forte senza riscontri nella realtà. La Thatcher abbassò sì le aliquote marginali da livelli assurdi ed autolesionistici di oltre l’80%, ma questo, lungi dall’essere l’espressione di un’inesistente ribellione anti-tasse, fu un regalo della Thatcher a tutti i governi occidentali, inclusi quelli di centrosinistra, che ne seguirono l’esempio e continuano a seguirlo.E anche in questo caso, un marziano noterebbe che le entrate correnti come percentuale del Pil erano ben più alte alla fine del mandato della Thatcher che nel 1979.

Le politiche della Thatcher (e le applicazioni seguenti) avrebbero anche “creato le condizioni per l’esplosione della più drammatica crisi finanziaria (e ormai anche economica) del dopoguerra”. Come esattamente? Certo, sotto Margaret Thatcher ha iniziato l’espansione della City, che oggi è il più grande datore di lavoro e il più grande contribuente della Gran Bretagna; questo di per sé non può essere un demerito. Forse Margaret Thatcher non ha regolato abbastanza i servizi finanziari, diventando così la matrigna della crisi subprime? Può essere, ma sarebbe utile sostanziare questa accusa con fatti e dati. Sarà un compito arduo: è francamente difficile immaginare un nesso fra Margaret Thatcher e le politiche di Greenspan negli anni 2000.

È vero che la disuguaglianza, come sostiene Prodi, aumentò sotto Margaret Thatcher, ma durante il suo mandato salì il reddito disponibile di tutte le fasce della popolazione, anche del quintile più basso, che era invece sceso durante la recessioni dei terribili anni 70. È un po’ quello che succede, su scala enormemente superiore, in Cina: è vero che le disparità aumentano, ma centinaia di milioni di persone sono uscite dalla povertà. Se voi foste un povero, preferireste “tutti poveri ma uguali” o “tutti più ricchi anche se un po’ più diseguali”?

Margaret Thatcher ha avuto altre colpe, alcune molto gravi. Su certe cose era ideologizzata fino all’infantilismo: insistette rabbiosamente, probabilmente senza comprenderlo fino in fondo, sull’esperimento monetarista all’inizio del suo primo mandato. Avrebbe potuto evitare l’altissima disoccupazione che ne conseguì? Forse – anche se oggi è facile dimenticare i disastri dell’inflazione degli anni 70. La sua devozione ai cambi flessibili come manifestazione del libero mercato fu altrettanto maniacale, e le costò caro: spaccò il governo e la costrinse a dimettersi. La sua testardaggine a imporre la poll tax rimane ancor oggi politicamente incomprensibile.
La colpa più grande che le viene attribuita, però, è lo storico scontro con i minatori, che divise la società inglese come pochi altri eventi. Non c’è dubbio che la Signora di ferro si intestardì anche in quell’occasione, guidata da un’etica economica protestante esasperata, quasi incapace di empatia per i meno fortunati. Ma è troppo facile dimenticare che la Gran Bretagna veniva da un decennio in cui ogni inverno ci si chiedeva se le scorte di carbone sarebbero state sufficienti in caso di sciopero, e in cui i sindacati bloccavano gli ospedali e perfino la sepoltura dei morti. Ci si dimentica anche che la maggioranza dei consigli locali aveva votato contro lo sciopero, che il capo del sindacato dei minatori Scargill si rifiutò si indire un referendum nazionale, e mandò ostinatamente i suoi uomini allo sbaraglio anche per motivi personali.

Per onestà storica, Prodi avrebbe anche potuto ricordare che se oggi chiunque può chiamare i propri famigliari a continenti di distanza a un decimo del costo di 30 anni fa, e se in Italia abbiamo un solo caso MontePaschi invece che dieci, lo si deve in gran parte alle privatizzazioni di Margaret Thatcher. Ciò che allora era definito estremismo oggi è la norma per tutte le economie più evolute, e nessun governo posteriore, e men che meno quelli laburisti, ha disfatto le riforme della Thatcher.
Ma più di tutti dovrebbero essere grati a Margaret Thatcher le centinaia di milioni di persone che si sono liberate dalla schiavitù comunista. In questo campo, più che in quello economico, la Signora di ferro fu la vera maestra di Reagan, e lo convinse a resistere alla decrepita élite sovietica nella convinzione che solo così si sarebbe disintegrata naturalmente, come poi avvenne.

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I meriti della Lady di ferro, le privatizzazioni e le riforme di Prodi
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 10 aprile 2013

→  aprile 10, 2013


Giustificare ciò che si è fatto di male è naturale, accusare l’avversario politico per ciò che non ha fatto di bene, pure. Strano è il contrario, vergognarsi delle cose buone proprie e non incalzare l’avversario per le occasioni perse: è quello che traspare da alcuni commenti in morte di Margaret Thatcher.

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