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→  dicembre 3, 2014


I grandi fornitori di servizi on line hanno modelli di funzionamento strutturalmente diversi dalle imprese tradizionali, non riconoscerlo porta a commettere errori: ci possono incappare le aziende stesse o i legislatori. Come insegnano due casi recenti. Uber, l’azienda fondata da Travis Kalanik, continua a espandersi, vincendo, città dopo città, la resistenza dei tassisti che temono di perdere il valore della licenza pagata a caro prezzo. Con quella licenza il Comune concede al tassista di operare in un mercato a numero di operatori contingentato e di offrire al cliente la garanzia pubblica che il servizio sarà di buon livello e soprattutto sicuro. Uber disintermedia il servizio taxi: nessun controllo comunale sul numero degli operatori, ma anche nessuna garanzia pubblica per la sicurezza del cliente. Alla fine della corsa si può dare un voto, il cliente sul conducente e il conducente sul cliente. Ma il conducente rischia di più, se finisce nella lista nera, ha finito di lavorare: un’asimmetria informativa di cui un cliente disonesto potrebbe approfittare.

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→  dicembre 2, 2014


di Paolo Bricco

L’Ilva colpisce al cuore, economico e giuridico, il nostro Paese. Ed esprime due verità amare. Prima verità: l’Italia ha necessità dell’acciaio prodotto a Taranto. Dunque, una soluzione industriale va trovata. E bene fa Renzi a gestire in prima persona il dossier. Seconda verità: lo Stato Imprenditore non ha dato buone prove, nel nostro Paese, ed è una opzione culturale che non ci appassiona. L’auspicio è che l’ansia di evitare il collasso non faccia cadere il Governo in tentazioni neo-stataliste. Per questo, non si può essere favorevoli alla nazionalizzazione tout court. Nazionalizzazione che è una pratica estrema, da non confondere con il mix ben temperato – anche con dosi massicce – di politiche industriali pubbliche e di concorrenza privata. La quale sarà pure la peggiore forma di ingegneria delle istituzioni economiche. A parte, però, tutte le altre. L’Italia, peraltro, ha bisogno che il profilo della sua cultura giuridica non sia sbrecciato e divelto da soluzioni di emergenza che, ricorrendo in misura eccessiva a strumenti pervasivi come la Legge Marzano, minino i meccanismi di funzionamento del mercato e i principi basilari del diritto a partire dalla proprietà privata. Nessuno chiede sanatorie extra-giudiziali.

Nessuno auspica sconti in tribunale. Ognuno dovrà rispondere – fra i proprietari e gli amministratori locali, i politici e i sindacalisti – di quanto ha fatto, negli ultimi vent’anni, fra Taranto e Roma. E nessuno vuole sottacere le responsabilità della famiglia Riva, che andranno ovviamente verificate e giudiziariamente accertate. Resta, però, il fatto che il contesto giuridico è segnato da un profluvio di leggi speciali che ha creato una sedimentazione gelatinosa, che ormai ricopre il sistema economico italiano e su cui difficilmente gli investitori stranieri avranno un gran piacere di mettere i loro piedi (e di puntare i loro soldi). Adesso, nell’ultima ipotesi di salvataggio ventilata dal Governo, c’è appunto un uno-due che rischia di colpire al mento l’Ilva e di fare barcollare contestualmente l’intero sistema economico: il default pilotato, con il fallimento sostanziale e l’applicazione della legge Marzano.
L’Italia deve dimostrare di sapere gestire problemi complessi, in cui le componenti industriali e finanziarie, politiche e sociali, giudiziarie e di policy si trasformano in un unicum indistricabile.

L’Ilva è uno di questi.  La Legge Marzano non può diventare lo strumento con cui gestire queste complessità. In questo caso specifico, l’Ilva è stata gestita dai legittimi proprietari, i Riva, con efficienza. Non ha mai perso soldi. Gli utili, dal 1995, sono sempre stati reinvestiti nell’impresa. L’impianto, il maggiore d’Europa, ha avuto livelli di produttività industriale pari o superiori agli standard tedeschi. I problemi ambientali – quelli reali e quelli percepiti, quelli della verità storica e quelli della verità giudiziaria – hanno portato a un commissariamento che, in maniera graduale ma inesorabile, si è trasformato nei fatti in una cancellazione sostanziale dei diritti di proprietà. Un percorso accidentato, in cui molti principi del diritto liberale e del funzionamento dell’economia di mercato sono stati poco alla volta compromessi. Adesso, il paradosso finale: lo Stato ha commissariato l’azienda, l’ha gestita bruciando qualcosa come 2,5 miliardi di euro di capitale netto in poco meno di due anni e mezzo, ha deciso di venderla come fosse una impresa sua e non di imprenditori privati e adesso, dato che la fabbrica perde a bocca di barile, pensa – fra le ipotesi ventilate – di chiederne l’amministrazione straordinaria attribuendo alla Marzano una centralità che ha già avuto nel caso Parmalat, nel 2003, e nel caso Alitalia nel 2008.

Nel paradosso Ilva, dunque, adesso c’è il rischio – come può capitare con la Marzano – di uno spossessamento della proprietà. L’Ilva rischia, infatti, di sperimentare una insolvenza, originatasi nella miscela di provvedimenti giudiziari e di atti di Governo. In conseguenza dell’amministrazione straordinaria, la società potrebbe diventare un asset che viene utilizzato per soddisfare i creditori o potrebbe diventare un asset con cui alimentare la distinzione fra bad company e good company. Nel caso specifico, dunque, verrebbe così sancito formalmente l’“esproprio” che la famiglia proprietaria ha già subito nei fatti. Sul processo ambientale di Taranto, i Riva peraltro non solo non hanno subito una condanna, ma nemmeno sono stati rinviati ancora a giudizio. Dunque, non appare corretto che passi il principio di uno “spossessamento” attuato da uno Stato che ha già mandato in tilt finanziario una impresa che, a sua volta, si è brutalmente incartata – in questi due anni e mezzo – nei meandri di un procedimento giudiziario. Così come è, invece, corretto che si accertino, nelle sedi opportune, tutte le responsabilità che riguardano la vitale questione ambientale. Naturalmente, in questo quadro, è bene che il Governo sostenga l’irrinunciabilità dell’Ilva. La sensibilità evidenziata da Renzi verso questa architrave della nostra manifattura mostra la sua consapevolezza che, senza l’acciaio prodotto a Taranto, la fisiologia economica italiana diventerebbe più gracile e ancora più esposta alla dipendenza dalle forniture straniere. Serve, in questa fase, equilibrio. Viviamo tempi difficili. Ci sono soggetti pubblici di diritto privato, investitori industriali esteri e italiani. Strumenti adeguati di mercato esistono: nella partita Ilva ci sono e appaiono disponibili. Possono essere le tessere di un mosaico articolato e complesso. Il mosaico dell’industria italiana prossima ventura.

→  novembre 18, 2014


Centinaia di imprese coinvolte, multinazionali per giunta, tasse evase nella sola Germania per 30 miliardi l’anno: la notizia è già da prima pagina. Se poi il paradiso fiscale non è tra le palme dei Caraibi ma negli austeri palazzi del Lussemburgo, di cui presidente del Consiglio e ministro delle Finanze è stato per 15 anni Jean-Claude Juncker, il primo presidente della Commissione europea a essere votato dal Parlamento di Strasburgo, il fatto è politico e potenzialmente esplosivo.

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→  novembre 13, 2014


di Beda Romano

Il Parlamento europeo ha fatto quadrato ieri intorno al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, la cui credibilità è stata messa alla prova da uno scandalo fiscale che riguarda il suo Paese d’origine, il Lussemburgo. In un dibattito in plenaria, Popolari e Socialisti hanno espresso la loro fiducia nell’ex premier, chiedendo nel contempo nuovi sforzi nella lotta all’evasione. Dal canto suo, Juncker ha ribadito di voler promuovere una maggiore armonizzazione fiscale.

Nella sua prima presa di posizione dopo la pubblicazione giovedì scorso di una inchiesta giornalistica che ha messo in luce accordi fiscali, generosi e controversi, concessi dal suo Paese tra il 2002 e il 2010 a numerose multinazionali, Juncker durante una conferenza stampa imprevista ha affermato qui a Bruxelles: «Mi assumo la piena responsabilità politica di quanto è stato deciso in Lussemburgo mentre ero al potere. Ciò detto, questi accordi fiscali sono una abitudine radicata in 22 Paesi dell’Unione».
«Tutto ciò che è stato fatto è avvenuto nel rispetto delle regole nazionali e internazionali», ha aggiunto il nuovo presidente della Commissione, in carica da due settimane. Juncker ha poi spiegato che se ciò è stato possibile è perché non esiste armonizzazione fiscale in Europa. Anzi, le imprese hanno a disposizione «un arsenale di regole fiscali nazionali divergenti» da utilizzare per arbitraggi, probabilmente legali ma che non corrispondono «al concetto di giustizia sociale».

Juncker ha negato vi sia un conflitto d’interesse tra la sua posizione di ex premier lussemburghese e di attuale presidente della Commissione, nonostante proprio quest’ultima stia indagando su accordi fiscali concessi ad Amazon e a Fiat. Ha ribadito che la commissaria alla concorrenza Margrethe Verstager ha piena libertà di azione. Nel contempo, l’uomo politico ha ricordato che negli ultimi anni il Lussemburgo ha accettato lo scambio automatico di informazioni bancarie.
Parlando successivamente in Parlamento, Juncker ha ribadito di voler lottare contro l’evasione fiscale e la frode fiscale: «Non sono parole, parole. È quanto la Commissione intende fare (…) Intendiamo agire risolutamente e con ambizione». Abilmente, l’uomo politico ha annunciato la rapida presentazione di una nuova direttiva che dovrà imporre ai Ventotto lo scambio automatico tra i Paesi membri dell’Unione dei diversi accordi fiscali concessi ad aziende multinazionali.

In Parlamento, Popolari e Socialisti hanno dato il loro pieno appoggio a Juncker, dando l’impressione di voler chiudere la partita al più presto. Il capogruppo popolare Manfred Weber ha ricordato la presenza di regole fiscali controverse in molti Paesi dell’Unione. Il suo omologo socialista Gianni Pittella ha apprezzato «l’atto di sensibilità e responsabilità» di Juncker nel presenziare al dibattito: «Non accettiamo di indebolire il presidente Juncker. Sarebbe un regalo agli euroscettici».
La vicenda Juncker appare, se non risolta, almeno sopita. D’altro canto, il Parlamento ha voluto l’ex premier alla guida della Commissione dopo che i partiti hanno fatto campagna elettorale con dei capilista candidati alla presidenza dell’esecutivo comunitario. Un voto di sfiducia a Juncker rischierebbe di ridare il potere di scelta del presidente della Commissione ai Ventotto, poiché è difficile immaginare elezioni anticipate. Anche in questa ottica al Parlamento non conviene sfiduciare Juncker.
Sul fronte fiscale, la partita è aperta. Nel dibattito di ieri i partiti hanno spronato Bruxelles a lavorare per una maggiore armonizzazione fiscale. Il problema è che la questione viene decisa all’unanimità. Due i dossier già sul tavolo che saranno la cartina di tornasole per valutare il nuovo spirito europeo: la direttiva sui rapporti tra casa madre e filiale, discussa dall’Ecofin la settimana scorsa; e quella su una nuova base imponibile comune per tutte le società dell’Unione, presentata nel 2011.

→  ottobre 12, 2014


Un lavoratore oggi prende in busta paga il 50% di quanto costa all’azienda. Che cosa succederebbe per le casse dello Stato se, anche solo per i neoassunti, anche solo per la durata di 4 anni, il lavoratore, invece del 50% prendesse l’80 per cento?

Luca Ricolfi non ha dubbi: con il “job-Italia” – questo il nome che ha dato alla sua proposta – ci sarebbero almeno 300mila posti di lavoro in più. Diminuirebbero i contributi Inps e Inail, ma aumenterebbero le tasse (Iva, Irpef, Irap, Ires) derivanti dal maggior valore aggiunto del lavoro creato da ogni nuovo assunto, che altrimenti non ci sarebbe stato. E siccome il gettito delle tasse è 5 volte quello dei contributi, a un certo punto il minor gettito dei contributi è più che compensato dal maggior gettito delle imposte.

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→  ottobre 7, 2014


Che abbia ragione chi sostiene che quella sull’articolo 18 è una battaglia ideologica, perché a difendere i diritti di chi lavora ci sono fortini giuridici, e a frustrare gli interessi degli imprenditori lo Stato provvede con mezzi ben più intrusivi? A far sorgere il dubbio è la questione dei licenziamenti disciplinari.
Una sorta di residuo secco tra i licenziamenti discriminatori, – che mai nessuno si è sognato di legittimare – e quelli per giustificato motivo economico – per cui non ci andava molto a capire che il giudice non è la persona adatta a decidere.
È quindi comprensibile che in questa battaglia politica, i licenziamenti individuali siano il contenitore delle riserve mentali: sia di quanti pensano di conquistare riformismo con i decreti delegati sia di chi conta di recuperare garantismo nei tribunali.
Se diventassero il contenitore di casi ambigui nella definizione e incerti nella risoluzione, questa sarebbe davvero stata soltanto una battaglia ideologica interna alla sinistra. Per evitarlo c’è una strada molto semplice: stabilire senza equivoci che per tutti i cosiddetti licenziamenti disciplinari l’azienda ha il diritto a sostituire l’eventuale reintegro con un indennizzo di entità nota ex ante.

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