→ novembre 2, 2008
di Stefano Feltri
UNTORI. Si temeva che potessero scatenare una crisi globale e invece ne sono vittima. Ma i fondi speculativi restano il simbolo di una finanza sofisticata e alimentata dal debito che molti sperano venga spazzata via. Eppure, dicono i loro sostenitori, sono più trasparenti delle banche. Dibattito dopo il caso Porsche-Volkswagen.
Secondo Giluio Tremonti sono «entità assolutamente folli», che «non hanno nulla a che fare con il capitalismo». In questa fase della crisi non si possono più attaccare gli speculatori sulle materie prime (i prezzi sono scesi) e prendersela con i banchieri è troppo facile, quindi il ruolo di capri espiatori per la catastrofe finanziaria è passato ai fondi speculativi che di mestiere comprano azioni che ritengono sottovalutate e ne vendono altre giudicate sopravvalutate, il tutto finanziandosi con i soldi delle banche.
Dopo le analisi dell’economista Nouriel Roubini dell’Economist, la polemica è arrivata anche in Italia sulle colonne dei Corriere della Sera dove Massimo Mucchetti applaude al «bagno di umiltà» cui sono stati costretti i gestori dei fondi hedge: devono rassegnarsi ad ammettere che, a differenza “di quanto promettevano, non sono in grado di garantire alti rendimenti sia quando i mercati salgono (facile) che quando scendono (molto più difficile)”.
Lo spunto è il caso Volkswagen: da tempo il gruppo Porsche diceva di voler comprare azioni di Volkswagen (oltre a quelle già in suo possesso), voci che hanno spinto in alto il titolo fino a un livello che gli osservatori hanno giudicato eccessivo.
In settimana fondi hedge hanno quindi cominciato a scommettere che il prezzo sarebbe sceso: stipulano un contratto con una controparte con cui si impegnano a consegnare domani delle azioni Volkswagen (che ancora non possiedono) al prezzo di oggi. Se la scommessa funziona, il fondo compra l’azione quando è già scesa di prezzo, la gira alla controparte al prezzo superiore concordato prima e intasca la differenza.
Quello che i fondi non potevano sapere era che, di nascosto, Porsche aveva rastrellato quasi tutte le azioni Volkswagen disponibili sul mercato e quindi, quando è arrivato il momento di comprare le azioni per onorare il contratto, gli hedge fund hanno dovuto farlo a un prezzo molto più elevato (sono salite da 200 a 1000 euro), contendendosi le poche rimaste sul mercato.
Sempre sul Corriere, Franco De Benedetti ha replicato dicendo che «in realtà chi critica gli hedge fund fa, certo involontariamente, il gioco di chi vuole un mercato poco trasparente perché lì può fare quel che vuole». I fondi hedge, dice la teoria economica (e i dati lo confermano), contribuiscono a fissare il giusto prezzo sui mercati, perché identificano ed eliminano gli eccessi, in alto o in basso, nelle quotazioni dei titoli. Ma Porsche si è mossa nell’ombra, sfruttando l’opacità del mercato tedesco, e ha trasformato una decisione razionale dei gestori di fondi in una catastrofe (per loro).
Eppure la caccia agli untori che hanno portato la crisi continua a indicare gli hedge fund, maltrattati dalle Borse di tutto il mondo che vietano la pratica del nakedshort selling (la vendita di titoli che non si possiedono). Molti invocano nuove regole per il settore degli hedge che è meno regolato di quello delle banche, ma non si discute mai dell’efficacia delle norme, che per le banche erano già rigide ma si sono rivelate inutili.
Si temeva che i fondi potessero innescare una crisi bancaria non rimborsando i debiti e invece sono stati i fallimenti bancali a mettere in crisi i fondi, strozzati dall’assenza di liquidità.
Mentre le banche nascondevano fuori bilancio i titoli tossici e bruciando i soldi dei risparmiatori in investimenti sbagliandi, i fondi dovevano rendere conto dei propri risultati ogni tre mesi, incassando commissioni solo al raggiungimento degli obiettivi.
La scarsa trasparenza rimproverata ai fondi sembra piuttosto tìpica del sistema bancario: anche nel mezzo della crisi c’è una grande banca italiana che riesce a vendere ai propri clienti le sue obbligazioni con un rendimento del cinque per cento inferiore rispetto a quello che deve pagare agli investitori professionisti.
Ma nessun governo sembra intenzionato a soccorrere i fondi, mentre le banche vengono salvate con il denaro pubblico.
ARTICOLI CORRELATI
Gli hedge funds e il caso Volkswagen
di Franco Debenedetti – Il Corriere della Sera, 01 novembre 2008
La crisi degli hedge funds «Una mina contro il sistema»
di Massimo Mucchetti – Il Corriere della Sera, 31 ottobre 2008
→ ottobre 22, 2008
Commenti
Fortuna sfacciata o preveggente tempismo? Con Berlusconi al 70% di consensi e il Pd sotto il 30%, davanti al nuovo giornale si spalanca la pianura di un’eccezionale opportunità. Non per il 30%, of course, ma per il 70%.
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→ ottobre 14, 2008
Caro Direttore,
Premessa prima: sacrosanta la tua accusa alla puntata di Annozero su Unicredit, e alla costruzione di una tesi su presunte fonti anonime interpretate da attori professionisti. Tu licenzieresti un cronista che scrivesse un’intervista falsa; ricordo che in America non ebbero esitazioni a cacciare un giornalista che faceva reportage perfetti, ma viaggiando su Internet anziché andare sul posto.
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→ ottobre 13, 2008
La crisi americana e i fascistelli italiani
di Antonio Polito
C’è un nesso tra gli editoriali dei giornali che annunciano la fine del secolo americano, dell’egemonia americana, della leadership americana, e la masnada di fascistelli italiani che salutano romanamente allo stadio di Sofia? Ovviamente no. Ma potrebbe esserci presto. Questo mondo “multipolare” che dovrebbe nascere dal grande disordine mondiale, di cui tutti ci annunciano gongolanti l’avvento, c’è già stato, prima della Grande Guerra e tra le due guerre, e ha prodotto in Europa i peggiori rigurgiti nazionalisti, populisti, razzisti, xenofobi, e infine fascisti e nazisti. Anni in cui non c’era egemonia americana. Anni in cui la crisi economica ha liberato le forze più oscure che si agitano nel petto degli uomini. Se vogliamo cercare le radici di questo nuovo fascismo pop, più moda che ideologia, più comportamentale che politico, talvolta violento e talvolta solamente esibizionista, dobbiamo dunque cercare nel mainstream della cultura nazionale, e non nei campi hobbit e nemmeno nelle convulsioni finali del partito che una volta lo rappresentava, e che è scioccato anche più di noi dal risorgere di un fenomeno da cui i Fini, i La Russa, gli Alemanno credevano di essersi finalmente liberati.
Primo: io non credo alla fine del secolo americano. Anzi, mi sembra che la crisi stia clamorosamente confermando la permanente centralità dell’America. Nessuno di voi va a guardare al mattino come ha aperto la Borsa di Shangai, ma alla sera sappiamo tutti come ha chiuso Wall Street. È vero che l’America è l’epicentro del terremoto, ma di conseguenza è anche il luogo dove sta nascendo ciò che verrà dopo. Se ogni crisi è trasformazione e opportunità, si può star certi che la trasformazione avverrà prima là e l’opportunità, se mai ce ne sarà una, scaturirà da là. Quali sarebbero questi nuovi poli che possono sostituire l’America nell’arco della nostra vita? La Cina, il cui socialismo di mercato fondato sulla burocrazia del partito unico distribuisce latte al veleno a decine di migliaia di bambini? La Russia, la cui Borsa va più a rotoli di Wall Street mentre i soldati marciano in Georgia? L’Europa, la cui ambizione culturale e politica è naufragata di fronte all’emergenza finanziaria, sollevando il velo su 27 paesi in ordine sparso, i cui leader fanno un vertice a settimana, si trovano d’accordo sul loro disaccordo, e poi tornano a casa e ognuno fa a modo suo con i suoi soldi e le sue banche e i suoi elettori? L’America ha commesso grandi errori in questi ultimi anni. Errori di arroganza e di “greed”, di avidità. Greenspan ha largheggiato col credito e Bush con le armi intelligenti. Però se alla fine di questa storia se ne uscirà con il capitalismo – un capitalismo magari diverso e con meno derivati – c’è solo un paese che può esserne il traino, e quello è l’America. Soprattutto perché, tra venticinque giorni, avrà di nuovo un leader.
Oppure non è così, io sono un inguaribile filo-americano e il mondo che verrà non avrà mutui a tassi bassi, carte di credito per tutti, accesso facile a Internet e tv satellitare. E allora, se così sarà, potete star sicuri che ci saranno molti più fascisti. Consapevoli e inconsapevoli. Del resto il nostro dibattito politico già trabocca di pensiero autoritario. Il premier preferisce ormai apertamente il Cremlino alla Casa Bianca. Il ministro del Tesoro ci ha avvisato che il suo motto è “Dio, patria e famiglia”. I fantasmi di Maurras e di De Maistre già si aggirano nell’arena pubblica. I pestaggi ai neri non nascono di là, ovviamente; ma sono l’equivalente di tanti piccoli casi Dreyfus, il solidificarsi di un sentimento popolare che individua nelle demo-plutocrazie la colpa dei mali, nella concorrenza dello straniero la causa dell’impoverimento, nell’establishment dei banchieri e degli uomini d’affari quel demonio che l’arte di Weimar dipingeva con tanta grottesca efficacia mentre covava l’uovo del serpente nazista, e che oggi è raffigurato nelle fiction di Annozero. Non dico che da questa crisi si uscirà nel modo vergognoso in cui l’Europa uscì da quella del ’29, a loro Roosevelt e a noi Hitler e Stalin e Franco e Salazar. Ma prego Iddio che l’America conservi la sua leadership e che il secolo che è appena cominciato resti almeno per un po’ americano. Perché se così sarà, allora possiamo star tranquilli che per la terza volta nella storia saprà svuotare di senso i nostri fascistelli allo stadio, i nostri teppistelli di Tor Bella Monaca, i nostri razzistelli mafiosi di Castelvolturno, con la forza del benessere, di Hollywood, delle Visa e di Google, diffondendo i valori democratici dell’everyman, dell’uomo attivo e laborioso che prova a vincere la sua lotta per l’esistenza nel tanto vituperato mercato, invece che nella guerra dell’odio col vicino di casa. E allora forse, ma solo allora, si riaprirà una prospettiva per questa vecchia sinistra europea, che ha già perso tutto, ma che se si lascia incantare dalle sirene del populismo post-americano perderà presto anche l’onore.
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SÈ l’anno zero dell’informazione
di Antonio Polito, Il Riformista, 11 ottobre 2008
→ ottobre 11, 2008
Quante balle in TV
di Antonio Polito
Non vedo molta tv. Sono al lavoro quando comincia il prime time. Però l’altra sera ho visto Anno zero. Vi confesso che a me Santoro piace. È uno che sa fare televisione, come si dice in gergo. Solo che quella televisione non ha più alcun rapporto con l’informazione. Volete chiamarla fiction, docu-drama, infotainment? Chiamatela come volete, ma non è informazione. Però la gente che guarda è indotta a credere che lo sia. E qui nasce un problema serio. Quando parlano di politica, e magari massacrano Berlusconi, chi se ne frega. La politica è chiacchiera. Ma quando parlano di mercati, dei soldi della gente, delle banche? Se mentre le autorità di tutto il mondo implorano i risparmiatori di non vendere, per evitare il disastro comune, la tv alla sera ti dice che i tuoi soldi sono in mano a dei banditi che li usano per scopi personali, il risultato è che il servizio pubblico diffonde il panico, e istiga a vendere. Diventa un attore della crisi, invece che un osservatore che informa sulla crisi.
Davanti alla tv. La puntata di giovedì sosteneva questo: i banchieri sono dei truffatori seriali, i banchieri amici di Berlusconi sono più truffatori degli altri. Banche come Unicredit fregano i loro clienti mollando loro consapevolmente titoli spazzatura per pura avidità, facendosi firmare contratti capestro che poi stracciano per eliminare le prove del misfatto. C’è un Grande Vecchio, indicato in Geronzi, che sulla piazza di Londra ordisce colossali speculazioni per regolare i suoi conti personali con Profumo, provocando lo sconquasso che è sotto i nostri occhi. Sono tesi ardite, spesso complottarde, sempre senza contradditorio, comunque legittime. Ma l’informazione è tale se dimostra le tesi con fatti. I fatti di Anno zero sono conversazioni con fonti anonime, ma trasformate in piccoli sketch dove al posto della fonte anonima compare un attore, che parla con la sua voce e la sua faccia, cosicché lo spettatore è indotto a pensare che si tratti di un’intervista vera con persona informata dei fatti, mentre quello sul video è un attore pagato che ripete voci non dimostrate e spesso indimostrabili. Siamo al di fuori di ogni deontologia professionale. Se un mio cronista scrivesse un’intervista falsa, sarebbe una giusta causa di licenziamento. Ad Anno zero è un titolo di merito professionale.
Al Quirinale. La visione notturna di Santoro mi è tornata in mente ieri mattina, mentre ascoltavo al Quirinale il presidente Napolitano che ricordava ai giornalisti il loro dovere professionale e civile: Non alimentate un allarmismo che in questo campo può diventare immediatamente fattore di aggravamento della crisi. E mi sono chiesto che fa la Rai. Intendiamoci: giù le mani da Santoro, nessuno tocchi Caino, basta con gli editti bulgari; ma, diamine, imponetegli almeno delle regole di deontologia professionale, ricordategli che ci vuole una fonte attendibile e identificabile per dare del malfattore alla gente, e soprattutto proibite le finte interviste televisive con attore, che sono la depravazione finale del giornalismo televisivo.
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di Franco Debenedetti – Il Riformista, 14 ottobre 2008
Se tramonta l’egemonia degli Usa, rinasce l’uovo del serpente
di Antonio Polito, Il Riformista, 13 ottobre 2008
→ ottobre 7, 2008
Dopo un settimana di fuoco, i rimedi messi in atto da governi e banche non hanno tranquillizzato i mercati, e quella nuova è cominciata con un’altra giornata nera in Borsa. Ci vogliono nuove regole, si dice: senza rendersi conto che l’affermazione, che si vorrebbe confortante, è in realtà problematica. Dire che ci vogliono nuove regole equivale a dire che quelle esistenti sono sbagliate. E se sono sbagliate, allora a sbagliare sono stati quelli che le hanno scritte.
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