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→ ottobre 10, 2017
Intervista di Paolo Bracalini a Franco Debenedetti
L’ex senatore dei Ds: “È meglio che quelli che non accettano la modernità se ne vadano via. Pisapia faccia l’accordo col Pd”
Non sembra particolarmente affranto dalla rottura tra Mdp e Pisapia, Franco Debenedetti, ex tante cose (amministratore delegato della Olivetti e della Sasib, ex senatore Ds), oggi consigliere in diversi Cda, presidente del think tank liberale Bruno Leoni e raffinato osservatore politico.
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→ marzo 9, 2016
articolo collegato di Cinzia Meoni
Le utility non sempre sono la risposta giusta allo sviluppo della rete nelle tlc. L’Enel punta, come noto, a posare e gestire una rete in fibra ottica. Ma non tutto è così semplice come sembra. Lo dimostra il caso di Dong Energy (Danish oil and natural gas). Il colosso dell’energia danese controllato dal governo di Copenaghen, proprio 12 anni fa aveva provato a percorrere la strada della sinergia tra i due business, quello delle utility e quello delle rete tlc, forte della prospettiva dei numerosi vantaggi teorici. Il modello di business, quello infrastrutturale, è in effetti simile, quanto meno in apparenza. Le reti richiedono sempre forti investimenti, garantiscono ritorni prevedibili, generano consistente cassa e vantano una diffusa capillarità, presupposto per possibili vendite trasversali di servizi.Su queste basi, nel 2004, Dong Enegy ha deciso di sfruttare la propria capillare infrastruttura di rete per entrare nel mercato dell’Ftth (ovvero fiber to the home). Tempo tuttavia cinque anni e l’esperimento è stato ufficialmente dichiarato chiuso, con la vendita delle attività di rete di Dong Energy a Tdc. Un’uscita mesta, attraverso cui la multi-utility ha recuperato meno della metà degli investimenti effettuati per posare 5,5mila km di rete e raggiungere 220mila immobili (ma solo 15mila famiglie). Nonostante le attraenti premesse, i vantaggi teorici di cui Dong Energy avrebbe dovuto beneficiare, erano rimasti solo sulla carta, dimostrando che il business tlc non è solo questione di fibra. Proprio mentre in Italia tornano di attualità simile tematiche, il caso Dong Energy, come evidenziato da uno studio di Diffraction Analysis – società di ricerche di business – insegna che saper trasportare energia non significa, necessariamente, saper far utili attraverso le autostrade delle telecomunicazioni. A Dong è mancata, secondo gli esperti, la creazione di un’economia di scala che permettesse al gruppo di ottenere efficienze e riconoscibilità del brand, anche attraverso accordi con altri operatori. Non solo. Uno dei grandi errori è stato quello di non prevedere né una chiara politica di prezzi comprendente oltre all’accesso alla rete anche i servizi, né un’allettante proposta di contenuti premium tali da spingere i danese a sottoscrivere contratti.
→ febbraio 17, 2013
Nella lettera che la Bce ha mandato al governo nell’agosto 2011 c’erano dei vincoli, delle prescrizioni e delle raccomandazioni che andavano al di là di ciò che normalmente l’Europa chiede di fare ai vari Paesi», dice Mario Monti intervistato da Federico Fubini.
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→ novembre 29, 2011
di Giampiero Berti
È vero che la storia riserva sempre sorprese, ma è anche vero che si ripete in continuazione. Ne abbiamo un’ennesima conferma con il libro fresco di stampa di Vilfredo Pareto, Il mito virtuista e la letteratura immorale (Liberilibri, 2011, pag. 210, introduzione di Franco Debenedetti) la cui prima edizione apparve in Francia nel 1911 e in Italia nel 1914. In quest’opera Pareto denunciava la stupidità e l’ipocrisia del suo tempo espressi dai virtuisti (virtuista è un neologismo coniato dallo stesso Pareto), cioè da coloro che, invece di occuparsi dei problemi veri che affliggevano il Paese – miseria, corruzione, analfabetismo, dominio della mafia e della camorra in intere regioni – si interessavano a reprimere la letteratura immorale, rappresentata soprattutto da libri che davano spazio a vicende amorose e sessuali.
Ispirata da un ethos profondamente liberale, l’opera è un’incursione a tutto campo nella letteratura greca, latina, moderna, con particolare riguardo agli scrittori illuministi, a partire da Voltaire. Pareto dimostra non soltanto l’impossibilità logica di definire la letteratura immorale, l’impotenza pratica di ogni censura, ma anche l’assoluta incapacità del ogni moralismo di trasformare la società. Pone in primo piano la questione decisiva del potere politico, che trova nell’enfasi statalistica la sua attuazione. Il moralismo di Stato propugnato dai virtuisti tende di fatto a distruggere una delle più grandi conquiste della civiltà liberale: la divisione tra la sfera privata e quella pubblica.
Pervaso da un irriducibile individualismo, dall’insofferenza per l’invadenza soffocante di ogni potere, il grande sociologo italiano, beffeggia e seppellisce i moralisti sotto una valanga di sarcasmi, dimostrandone tutte le contraddizioni. In piena sintonia con il realismo e il disincanto di Machiavelli, rivendica la vera etica, che deve consistere nell’essere rigorosi e inflessibili su ciò che riguarda la sfera pubblica, tolleranti su ciò che riguarda quella privata. È stata persa, a giudizio di Pareto, una delle più grandi conquiste del Risorgimento: la separazione cavouriana fra Chiesa e Stato, fra etica dello Stato e morale privata.
È sottesa qui, infatti, la questione centrale già posta già da Benjamin Constant: la distinzione fra «la libertà degli antichi» e «la libertà dei moderni». La libertà degli antichi è la libertà conferita ai cittadini politicamente attivi, i quali sono liberi in quanto esercitano dei diritti politici, il cui espletamento implica il coinvolgimento nella vita della polis. La libertà dei moderni scaturisce invece dalla fonte imprescrittibile dei diritti naturali, che dichiarano che nessun potere, nessun sovrano, nessuna collettività può dare o può togliere tale libertà originaria. Mentre la libertà dei moderni, preesistendo al potere, impone a quest’ultimo il dovere di preservarla, la libertà degli antichi comanda che essa si realizzi attraverso l’attiva partecipazione alla vita pubblica. La prima è la libertà dallo Stato, la seconda è la libertà nello Stato. Non è un caso che la libertà dei moderni, ovvero la libertà liberale, sia stata attaccata ferocemente da tutte le ideologie totalitarie.
Ne Il mito virtuista e la letteratura immorale sono già presenti alcuni schemi teorici che innerveranno qualche anno dopo l’opera più importante di Pareto, il Trattato di sociologia generale, dove, fra l’altro, viene delineata la distinzione fra azioni logiche e azioni non logiche: le azioni logiche sono quelle che utilizzano mezzi appropriati al fine, le azioni non logiche sono quelle che non connettono in modo logico i mezzi con il fine. Gli uomini si lasciano convincere soprattutto dai sentimenti (definiti da Pareto residui), mentre a dare aspetto logico alle azioni non logiche vi sono le forme pseudo logiche delle argomentazioni definite con il termine derivazioni. Il moralismo d’accatto dei virtuisti non è altro che la proiezione dei residui, che si manifestano sotto la forma delle derivazioni, le quali, pertanto, sono espressioni ipocrite e impotenti.
Il mito virtuista dimostra che la storia si ripete, se si pensa alle polemiche relative alla vita privata di Silvio Berlusconi. Scriveva Pareto: «I tempi eroici del socialismo sono passati: i ribelli di ieri sono i soddisfatti di oggi. Non si tratta più di distruggere il socialismo, di rovesciare la società, di pervenire ad una nuova costituzione sociale interamente diversa, eccoli diventati difensori della morale e del pudore». Scrive Franco Debenedetti nell’introduzione: «L’antiberlusconismo militante è il nuovo mito virtuista, i girondini in corteo sono i nuovi “monaci domenicani”». Al tempo di Pareto il virtuismo «chiedeva al potere di dare la caccia all’immorale e impedire che si mostrasse in pubblico, il virtuismo di oggi sbircia e origlia nel corridoio del palazzo».
→ giugno 3, 2009
Intervista a Il Giornale
Franco Debenedetti, lei è stato parlamentare dell’Ulivo ma non voterà Pd alle elezioni europee. Perché?
«Prima di tutto, diciamo che darò comunque un voto all’opposizione. Il voto per il Pd in questo momento non mi desta alcun entusiasmo. L’alternativa di votare uno come Antonio Di Pietro è per me improponibile. E quindi voterò per la lista Bonino-Pannella».
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→ settembre 8, 2008
di Geminello Alvi
In queste ancora calme settimane di fine estate s’è avviato sui giornali un utile dibattito sulla economia sociale di mercato. E già l’aggiunta della parola sociale fa intendere al nostro lettore come si sia mitigata quella mitizzazione del mercato astratto che ci tormenta da anni. Il ministro Tremonti intende farne uno dei temi d’azione di cui si discuterà a settembre. La qual cosa un po’ turba Mario Monti, il quale però, con ogni suo prudente garbo, paventa il discredito del liberismo. Teme che dietro la critica alle follie globalizzanti si celi un ritorno al mercantilismo. Ovvero a più dazi, arbitri del potere statale. Michele Salvati a sua volta da una parte approva il timore di Monti, dall’altra rimprovera Tremonti di poca socialità. Di non aver ridotto abbastanza le tasse ai redditi meno elevati. Insomma Monti o Salvati l’esito è uguale: per fare più sociale l’economia di mercato si dovrebbero dosare redistribuzione statale e controlli: si dovrebbe usare lo Stato per lenire i guai del mercato globale, ma non troppo. Ecco la conclusione che si ricava a leggerli, e che con franchezza, mi pare un po’ troppo poco.
Se ne ha l’impressione di rimasticaticcio, di giri di parole per parare il colpo, ricondurre il tema ai soliti liberismi di sinistra. Negli anni ’70, l’economia era ridotta dalle sinistre a lotta per ridistribuire il reddito, e più Stato. Queste aberrazioni si sono negli anni corrette, ma a dosi di conformismo liberal. L’idea di socialità in economia è restata infatti la stessa: qualcosa che lo Stato deve imporre, e tutela. Idea, direi, del tutto sbagliata. E però è la sola possibile per una cultura di sinistra stanca, e che non ha mai voluto rinnovarsi. Sarebbe solo bastato in effetti già leggersi Omero, per capire che la parola «oikonomia» significa redistribuzione ospitale. Dunque è inerente, originaria all’atto economico una solidarietà, che non implica lo Stato. Perciò Olivetti nei suoi esperimenti a Ivrea parlava della sua fabbrica come di una comunità: influenzato da Rudolf Steiner, voleva tenerne ben fuori lo Stato politico. Ma non gli si badò, tutti presi da Marx o Sraffa. E trascurando per esempio pure von Hayek, liberista estremo, ma che vedeva nello scambio una catallassi, un’ammissione nella comunità.
Insomma la mia tesi è che un’economia sociale può compiersi meglio per via comunitaria e libertaria, limitando le tasse, e ogni intrusione statale. Nel migliore dei casi con la cultura e la sanità finanziate da fondazioni. La socialità in economia richiederebbe del resto il meno possibile di far intervenire Stati o super Stati. Ma è quanto meno aggrada alle sinistre. Le quali, screditatisi tutti i loro statalismi, si sono messe a difendere i super Stati: la Ue o il Wto. Obliando le comunità concrete tormentate da tasse, immigrati, globalizzazioni, e alle quali gioverebbero perciò un po’ meno Stati e super Stati. E servirebbe invece un’impresa in armonia alla comunità, che mantenga il vincolo di sani bilanci; ma riunisca consumatori e lavoratori, in disegni di sussidiarietà. Calate così le tasse lo Stato potrebbe ridursi a poche funzioni; in confederazioni di comunità libere, anche di sottrarsi alle follie globalizzanti. Giacché non deve obliarsi: persino per il liberista estremo von Hayek lo scambio era una libera ammissione nella comunità.
In altri termini il dibattito sull’economia sociale non richiede le solite chiacchiere stanche sull’equilibrio tra Stato e mercato. Non può svolgersi all’altezza dei tempi senza riferimenti alla cultura comunitaria e libertaria. Essa è varia e vasta, pure se ignorata in una cultura italiana, così impoverita dalle sinistre.
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di Carlo Bastasin – Il Sole 24 Ore, 28 Agosto 2008