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→  settembre 8, 2015


Al direttore.

Perché mai la posizione di Angela Merkel sulla Siria dovrebbe essere una “conversione” rispetto quella che aveva avuto sulla Grecia, metafora di un cambio sia di rotta su una “strada lastricata di buone intenzioni” sia, Dio ne scampi, di confessione religiosa, proprio non lo capisco. Se a dirlo sono quelli che, se neghi gli eurobond sei un sadico strangolatore dell’Europa del sud, e se hai il bilancio in pareggio hai tendenze naziste, non ci sarebbe da spenderci tempo: ma nell’articolo di Giuliano Ferrara quella parolina mi ha colpito. Che sia per contrasto con la soddisfazione di vedere (ancora una volta) tanto autorevolmente espressa la necessità di intervenire là dove divampano gli incendi che fanno fuggire la gente, come avevo azzardato sul Foglio fin dall’inizio di maggio? Neppure a Franco Venturini possono essere attribuiti pregiudiziali antitedesche, ma è esplicito: “Berlino”, scrive, sul Corriere di venerdì, “riconquista la sua credibilità morale messa a dura prova dalla linea intransigente nei confronti del dramma socio-finanziario greco”.

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→  agosto 25, 2015


Fughe lontane di ebrei, fedeltà sabaude. Avvocature, eserciti e visite in Monferrato. La lirica e Torino, le belle calligrafie. Storia di un’educazione non solo sentimentale.

Venivano entrambi da gente che era dovuta fuggire, i miei due nonni. Quello paterno si chiamava Israel, era uno dei quindici figli di nonna Dolcina, la sorella di Isacco Artom. Il diminutivo Lilin doveva portarselo dietro dall’infanzia, se lo trovò lì bell’e pronto per quando il suo nome vero sarebbe suonato un po’ troppo esplicito. Me lo ricordo, il nonno Lilin, quando andavamo a trovarlo ad Asti: non mi piacevano tanto i suoi baffi un po’ umidi quando mi salutava con un bacio.

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→  agosto 14, 2015


articolo colleato di Massimiliano Trovato

La notizia della privatizzazione di Poste Italiane è fortemente esagerata. Molto resta da stabilire – l’entità del collocamento, la forchetta di prezzo, la ripartizione tra risparmiatori e investitori istituzionali – ma, a distanza di quasi due anni dall’iniziale annuncio del governo (allora presieduto da Enrico Letta), la strada per lo sbarco in Borsa del colosso pubblico è ormai tracciata. Con la consegna alla Consob della richiesta di ammissione alle negoziazioni e dei prospetti informativi, comincia l’iter che – salvo intoppi – condurrà al debutto dell’ex monopolista del recapito a Piazza Affari tra fine ottobre e inizio novembre. Confermata l’impalcatura dell’operazione: la cessione riguarderà fino al 40 per cento del capitale, con una quota di consistenza ancora incerta da destinarsi ai dipendenti, e un tetto al possesso azionario del 5 per cento. Dall’iniziativa l’esecutivo si attende ricavi compresi tra i 2,4 e i 4,4 miliardi di euro. A queste cifre, è comprensibile che il dossier catalizzi l’entusiasmo di un mercato disabituato alle dismissioni pubbliche e, più in generale, poco avvezzo a partite di simile portata: ma, muovendo dalle implicazioni finanziarie a quelle industriali e concorrenziali, è possibile sostenere – come fanno, con una voce sola, i commentatori – che l’Ipo dell’anno sarà anche la privatizzazione dell’anno?
In senso proprio, una privatizzazione persegue tre obiettivi convergenti: il primo è il recupero di risorse per l’erario, cui il progetto di collocamento di Poste sembra poter assistere efficacemente – mentre nessuna garanzia si può rinvenire ai fini dell’alienazione del controllo e dell’apertura del mercato, le altre due finalità di una privatizzazione rettamente intesa. Sotto il primo profilo, anzi, ogni indicazione punta nella direzione opposta: il Tesoro manterrà una salda maggioranza; il limite del 5 per cento scoraggerà l’ingresso di partner industriali; l’attribuzione ai dipendenti (cioè ai sindacati) cementerà gli equilibri esistenti e rischierà d’ipotecare l’evoluzione dell’azienda. Quanto all’impatto sul mercato, sui concorrenti, sui consumatori, l’inerzia del legislatore (sordo alle sollecitazioni dell’Antitrust) è significativa. Basti ricordare la vicenda della riserva sulla consegna degli atti giudiziari, tuttora garantita a Poste a un lustro dalla formale liberalizzazione del settore; privilegio limitato – s’intende – ma rivelatore, e difeso anche in queste settimane proprio con l’intento di non deprimere le prospettive d’incasso della quotazione. Si tratta di un argomento pericoloso, perché procedere a legislazione invariata rischia di scolpire nel prezzo di collocamento un’aspettativa d’intangibilità delle regole, allontanando ulteriormente il completamento della liberalizzazione. Naturalmente ci sono questioni assai più scottanti della riserva sul recapito delle multe.

La principale è quella della natura ibrida di Poste e del suo reticolo di 14.000 uffici. Già oggi è estremamente complesso dipanare le commistioni e i sussidi incrociati esistenti tra il core business postale, strutturalmente in sofferenza, e i comparti bancario e assicurativo, da cui provengono la larga maggioranza dei ricavi e pressoché la totalità degli utili del gruppo. La storia delle liberalizzazioni insegna che l’integrazione (verticale o orizzontale) tra attività diverse può portare efficienza, se emerge in un contesto di mercato, ma può ostacolare lo sviluppo concorrenziale di un settore se viene trasferita da un monopolista pubblico al suo erede (integralmente o parzialmente) privato. Allo stato attuale, sarebbe persino banale pensare alla separazione del Bancoposta dalle altre attività di Poste, che si esaurirebbe in una decisione unilaterale dell’azionista pubblico; a collocamento avvenuto, un’analoga risoluzione incontrerebbe le giustificate resistenze degli azionisti privati. Completare la dismissione senza sciogliere questi nodi competitivi, mettendo in vendita quella che a tutti gli effetti si configura come una rendita monopolistica, è l’opzione più redditizia. Ma rimane una maldestra operazione di cassa.

→  giugno 26, 2015


Troppo impegnati a inseguire Tsipras, i leader europei non si lascino sfuggire Londra mercatista, liberale e filoamericana

Non è ancora successo, ma so come andrà a finire: il solito papocchio, la Grecia resta nell’euro. Non è ancora successo, ma temo come andrà a finire: nessun compromesso, l’Inghilterra uscirà dell’Unione europea. I due fatti non sono uno conseguenza dell’altro, ma sono conseguenza di un terzo a monte di entrambi: una gestione politica dell’Europa che non esita a perdere la faccia per far restare la Grecia, e che non esita a perdere l’anima anche a rischio che ci lasci l’Inghilterra. Lloyd Blankfein ha detto che l’errore era stato accettare l’entrata della Grecia: impedendone l’uscita, si raddoppia. Allora Atene aveva falsificato i conti consuntivi, adesso falsifica quelli preventivi. Impressiona la manifestazione di debolezza: che cosa si teme? Se è per le drammatiche conseguenze per la Grecia, l’Europa – rectius la Banca centrale europea – ha risorse sufficienti per tenere a galla un paese che ne è qualche punto percentuale. Se è per le conseguenze geopolitiche per l’Europa, già ci è già stato preannunciato il ricatto a cui oggi, cedendo, ci consegniamo. Se le conseguenze temute sono poi quelle per il resto dei paesi dell’euro, è impressionante la manifestazione di debolezza che implica: i conti pubblici italiani, spagnoli, eccetera, hanno dunque la solidità delle promesse greche? Non volendo riconoscere che la rigidità rende i sistemi fragili, si pensa di rimediare alla fragilità del sistema irrigidendolo: guai se uno esce dell’euro, avanti a testa bassa, fiscal union, political union. Una situazione di insolvenza è stata trattata come crisi di liquidità, i finanziamenti sono stati spostati dalle banche agli organismi istituzionali, cioè dal privato al pubblico, eliminando la possibilità che l’aumento dei tassi segnali il rischio. Un problema economico è stato reso politico.

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→  giugno 23, 2015


Caro Direttore,

un fondo di disoccupazione europeo? Benissimo, ma per farlo ci vuole un CSM europeo. La proposta del Ministro Padoan, che il Foglio aveva anticipato, è stata ripresa da Eugenio Scalfari. I soldi che il fondo mette in tasca a cittadini di un paese, sono pagati dalle tasse di cittadini di altri paesi: che vorranno sapere come vengono spesi. Per questo non basterà uniformare le leggi, ma come vengono interpretate e applicate dai magistrati.

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→  giugno 17, 2015


Al direttore.

Decidere di cambiare i vertici di una delle più grosse istituzioni finanziarie del paese (la Cdp ha un attivo di 400 mld) con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale è un fatto clamoroso. Tempestività di informazione e trasparenza su ragioni e obiettivi erano dovute all’opinione pubblica, ai civil servant che vi hanno lavorato senza demeritare; era dovuta al mercato: Cdp non è quotata in Borsa, ma investe e potrebbe investire in aziende anche quotate. (Dell’”atteggiamento anguillesco” di Banca, banche, e fondazioni ha scritto il Foglio di ieri). Ma arriveremo a scusare l’opacità se alla fine avremo chiarezza.

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