→ Iscriviti
→  dicembre 5, 2015


articolo collegato di Giulio Meotti
E’la storia indicibile di una famiglia che ci porge, come pochissime altre, la normalità sofferente di Israele. Una lunga coda di buio carica di dolore e di vitalità. La storia inizia a Zdeneve, un piccolo villaggio sui Carpazi ungheresi, negli anni Trenta. Lipa è un ragazzino ebreo. Famiglia poverissima, si sfama con due mucche che danno ogni giorno tre litri di latte e le patate coltivate nell’orto. Gli abiti vengono rammendati e passati da un bambino all’altro. Nel 1944, durante la Pasqua ebraica, arrivano i nazisti e ordinano a tutti gli ebrei di preparare un bagaglio di venti chili. Salgono sul treno per Auschwitz. All’arrivo, sulla rampa di Birkenau, Lipa si ritrova solo. La madre, il padre, la sorella e il fratello di un anno dopo due ore verranno inghiottiti dalle camere a gas. “Alla mia sinistra vedevo il fumo dei crematori, i corpi presi per i piedi e le mani e gettati nel fuoco”, mi ha raccontato Lipa. Gli fu data una divisa, un cappello e una gavetta di alluminio.
Era tutto ciò che aveva al mondo. “Ad Auschwitz pensavo che se fossi stato forte, i tedeschi avrebbero avuto bisogno di me”. Passano i mesi, si avvicina la fine della guerra e Lipa viene deportato in Austria, nel lager di Mauthausen. Da quel momento si sarebbe chiamato con un numero. “68.864 era il mio nome”. Quel numero era impresso sui pantaloni e la giubba, assieme a un triangolo rosso e alla lettera “J”. L’iniziale di Juden, ebreo. Sopravvive anche a Mauthausen, arriva la Brigata Ebraica, assieme ai soldati inglesi e americani. “Ci aiutarono a credere che gli ebrei potevano difendersi da soli e avere il loro stato. Diventare ‘ebrei in Palestina’”. Lipa entra nella sinistra sionista di HaShomer Hatzair. Ma gli inglesi avevano posto restrizioni all’immigrazione, così Lipa restò nei campi fino al marzo 1948. Il 14 maggio di quell’anno, Lipa si trova a Marsiglia, dove si imbarcherà sulla prima nave diretta in Israele. Era il giorno della proclamazione dello stato ebraico. “Salpammo sapendo di avere uno stato”. Attracca a Haifa, c’era fermento nell’aria e l’esercito ebraico lo arruolò subito. Lo misero di guardia a un kibbutz, Ein Hashofet. Due anni dopo nasce il primo figlio, Avner, che significa “ricordo di mio padre”, per onorare il padre gassato ad Auschwitz. Sei anni dopo arriva il secondo figlio, Yanay.
Passano gli anni e nasce anche Gidi. Servono tutti nell’esercito israeliano, chi nell’artiglieria, chi nell’aviazione. Da una Shoah a un’altra.
Il terrorismo palestinese inizia a portarsi via pezzi di questa famiglia. E’ l’inizio della Seconda Intifada. La prima vittima delle bombe umane è la bellissima Inbal, la figlia di Avner. Lavorava agli archivi del Beit Locamei Haghetaot, il centro che documenta la resistenza ebraica ai nazisti. Prendeva sempre l’autobus per tornare a casa dall’Emek Yisrael College nella fertile valle di Jezreel. Ma quel giovedì, Inbal sceglie una strada diversa per incontrare i genitori al ristorante. La strada passa attraverso numerosi villaggi arabi. Ancora non c’era la barriera antiterrorismo, ingiustamente condannata da tutto il mondo come “il muro”. I genitori la chiamano al cellulare per sapere dove fosse.
Due minuti dopo un terrorista di Jenin si fa saltare in aria. Il bus è quasi vuoto: tre israeliani uccisi, fra cui Inbal. Le conseguenze di quel giorno, come vedremo, si avvertiranno anche a tanti anni di distanza. Come una cometa carica di dolore.
Passano due anni da quell’attentato terribile e il 29 aprile la famiglia rivive lo stesso film. E’ la giornata della memoria della Shoah in Israele. Nelle stesse ore, i jet dell’aviazione con la stella di Davide sorvolano i prati di Auschwitz, dove vennero sparse le ceneri di un milione di ebrei, tra cui quelle dei genitori e dei fratelli di Lipa. La dimostrazione è guidata dal generale israeliano Amir Eshel. “La piattaforma delle selezioni, la linea ferroviaria, i campi verdi, un innocente silenzio”, disse Eshel. “Così appariva l’inferno sulla terra, nel cuore dell’Europa. Abbiamo compreso l’enormità della nostra responsabilità, nel garantire l’eternità del nostro popolo e della nostra terra. E’ stato un grande privilegio essere i delegati del nostro popolo e portare la sua grandezza sulle nostre ali”.
Quella sera, mentre lo stato ebraico sarà chiamato a stringersi nel ricordo dalla stessa sirena che annuncerà alla popolazione il lancio dei missili dei terroristi da Gaza, Yanay si stava esibendo in un pub del lungomare di Tel Aviv. Il kamikaze fu fermato all’ingresso dalla guardia, che volò alcuni metri in aria ma che sarebbe sopravvissuto. Yanay era appena uscito fuori per una boccata d’aria, e venne ucciso sul colpo. L’attentatore, entrato da Gaza, aveva il passaporto inglese. Era arrivato dall’Europa soltanto per uccidere ebrei innocenti. Il terzo tragico capitolo di questa straordinaria famiglia, che aveva sempre creduto nella coesistenza con i palestinesi, che ha sostenuto il rilascio di Gilad Shalit in cambio del mandante dell’uccisione della loro figlia (il terrorista del Jihad islamico Tabeth Mardawi), è stato scritto una settimana fa.
E’ il giorno dell’anniversario dell’uccisione di Inbal, quando suo fratello Ami, terzogenito di Avner, militare con lodi della marina israeliana, estrae la pistola di ordinanza e si uccide. Non lascia neppure un biglietto. Il giorno dopo sua sorella dà alla luce una splendida bambina. La storia di questa famiglia è la storia stessa di Israele, dove ogni vita che finisce si annoda a una che nasce, i sei milioni di ieri con i sei milioni di oggi. E’ il buco nero che l’Europa ha scelto tragicamente di ignorare.

→  dicembre 4, 2015


Al direttore

Se a un’azienda che aveva in appalto un servizio pubblico (nei settori dell’acqua, energia, trasporti, servizi postali) oppure un servizio di call center ne subentra un’altra, questa dovrà: assumere tutti i lavoratori della precedente gestione; mantenere nel tempo i livelli occupazionali (qualunque cosa ciò voglia dire); applicare i contratti della precedente gestione, se più favorevoli ai dipendenti. E’ quello che vorrebbero imporre degli emendamenti introdotti nella legge delega per il recepimento di alcune direttive comunitarie appunto sugli appalti pubblici.

leggi il resto ›

→  novembre 11, 2015


Per bene che il prodotto sia progettato, il successo dipende dal funzionamento della macchina, cioè la Pa.

Non l’ho studiata, la legge di Stabilità, ma ne ho letto le analisi degli editorialisti, ne ho sentito le sintesi di personaggi che hanno l’indirizzo “@governo.it”, gli uni a rivendicare i fini, gli altri, perlopiù, a criticare i mezzi. La legge infatti è un manifesto politico, che sulla base di qualche punto di decimali – come ha sottolineato Luca Ricolfi sul Sole 24 Ore di domenica scorsa – estrapolati dai dati degli ultimi trimestri, si propone di non alienarsi Bruxelles, di infondere fiducia negli italiani e, soprattutto, di conquistare i consensi che permettano a Renzi di fare le cose che, se le fa giuste, confermeranno le tendenze che si intravvedono. L’Imu-Tasi, le pensioni, i contanti, gli incentivi non sono singolarmente né giusti né sbagliati, conta solo l’effetto che farà il concerto dei vari strumenti: la finanziaria è un documento rivolto all’esterno.

leggi il resto ›

→  novembre 5, 2015


Che cosa vuole Xavier Niel e perché sta investendo in Telecom? Che abbia scelto di fare un investimento nell’azienda puntando sul suo potenziale di crescita, è del tutto incredibile. Che voglia prendere il controllo a suon di aumento della sua quota azionaria, meno ancora. Che ci sia concerto con Vivendi è da escludere dopo le pubbliche dichiarazioni di entrambe le parti: raccontare storie all’autorità di controllo può costare molto caro. Che chi mette i soldi in un’azienda ha una sua strategia è naturale; e avrebbe interesse a palesarla per trovare alleati, anche se per ora non l’ha fatto. Comunque, se fosse per una qualsiasi di queste ragioni, non ci sarebbe motivo di agitarsi. Se Niel vuole superare Vivendi quale primo azionista, dato che non abbiamo fatto obiezioni quando Vivendi ha arrotondato la partecipazione che le risultava dagli accordi con Telefònica, non c’è ragione che si discrimini tra un francese e un altro. Che la sua strategia possa comportare anche spezzatini, fusioni, vendite, è normale, come pure che queste possano essere giudicate contrarie all’interesse nazionale: se ne parlerà quando si saprà in che consiste. E il giudizio non dipenderà dalla nazionalità del proponente: anche perché non c’è nessuna ragione per cui un italiano faccia sempre l’interesse del paese.

leggi il resto ›

→  settembre 18, 2015


Oggi, ha scritto Stefano Firpo sul Foglio in “Come evitare che la politica industriale rimanga chiacchiera da bar”, “è possibile disegnare un’azione di politica industriale senza che questo comporti un maggiore intervento dello stato nell’economia”. La “politica industriale” consisteva nello scegliere chi doveva giocare e vincere nella gara competitiva. Il governo era come l’allenatore della squadra di calcio, decideva lui chi giocava e chi no, e, dato che aveva buone relazioni con gli arbitri, chi vinceva e chi perdeva. Solo che in Champions si perdeva secco, e pure ci multavano. Adesso oltretutto avere una squadra è diventato troppo caro: invece che avere una squadra, il governo fa lo sponsor, vorrebbe finanziare un po’ tutti. O magari solo la domenica andare in tribuna a fare il tifo, e per tutta la settimana discutere con gli amici sulle scelte dell’allenatore: al bar.

leggi il resto ›

→  settembre 17, 2015


articolo collegato di Stefano Firpo

Dopo una lunga e incomprensibile damnatio memoriae è stata finalmente riconosciuta da più parti l’esigenza di tornare a parlare di politica industriale nel nostro paese. Questo stesso giornale ha meritoriamente aperto una discussione sul tema animata da un approccio pragmatico e per questo credo sia opportuno mettere a fuoco alcuni punti utili per un dibattito costruttivo. E’ ormai assodato che il motore della crescita, della competitività, della stessa sostenibilità sociale e finanziaria di un paese risieda nello stato di salute della sua industria ed è ormai assodato che senza ragionare con serietà su questo campo un paese non potrà mai crescere come potrebbe. Oggi abbiamo una grande occasione, grazie anche a un contesto internazionale favorevole, e il nostro governo ha la possibilità di mettere insieme alcune idee per sfruttare il vento favorevole. Andiamo con ordine e mettiamo in fila un po’ di dati per capire da dove possiamo partire. Il settore manifatturiero oggi produce poco meno di un quinto del nostro pil e contribuisce all’80 per cento delle nostre esportazioni, determinando la quasi totalità della spesa privata in ricerca e sviluppo. Un quarto dell’occupazione totale del comparto è direttamente ascrivibile al settore industriale, ma se considerassimo anche i servizi all’industria questa percentuale quasi raddoppierebbe. Grazie al surplus della bilancia commerciale manifatturiera il paese paga la bolletta energetica, sostiene la posizione finanziaria netta garantendo solidità alla nostra posizione debitoria nei confronti con l’estero. In questi anni di crisi il manifatturiero ha pagato un prezzo pesante. Ha perso quasi 25 punti percentuali di produzione, il 17 per cento in termini di valore aggiunto e oltre 400 mila occupati diretti. Il suo indebolimento ha anche contribuito al prolungarsi della crisi stessa, alla sua persistenza e oggi frena quel rimbalzo che stenta a trovare slancio e vigore. La crisi ha di fatto congelato gli investimenti industriali: fino al 2007 esprimevamo una capacità di spesa in linea con quella tedesca, ma oggi investiamo almeno 15 miliardi all’anno di meno della Germania. In queste condizioni la nostra posizione di secondo paese manifatturiero in Europa risulta difficile da mantenere. Il rilancio degli investimenti industriali deve per questo essere al centro degli obiettivi di politica economica. Già, ma come? Per molti anni, prima della crisi del 2008, in Italia si è investito tanto. Purtroppo spesso si è investito male. Gli economisti direbbero che l’efficienza allocativa del capitale nel nostro Paese è stata subottimale. Provando a tradurre si potrebbe dire: troppi capannoni oggi vuoti, capacità produttiva in eccesso e oggi largamente inutilizzata, troppo credito facile che conduceva a investire anche in progetti non remunerativi. La produttività del nostro manifatturiero ne ha risentito ed è entrata in un lungo periodo di deprimente stagnazione. Non basta quindi tornare a investire di più, occorre soprattutto investire meglio, puntando al rafforzamento di quei fattori di competitività che si stanno facendo decisivi in un mondo globalizzato e nell’economia della conoscenza: ricerca e innovazione, digitalizzazione, proiezione internazionale, consolidamento dimensionale. Il paese ha un estremo bisogno di un quadro di politica industriale capace di scongelare gli investimenti in questi ambiti.

Sul fronte dell’innovazione qualche primo segnale importante il governo ha iniziato a darlo. Il credito di imposta alla R&S e il patent box, introdotti nella scorsa legge di stabilità, sono strumenti concreti che introducono un fisco più amico dell’impresa. In particolare di quelle imprese che investono (e che rischiano) puntando su percorsi di crescita sostenibili e duraturi. Anche diversi provvedimenti inseriti nei decreti attuativi della delega fiscale si muovono nella medesima direzione: penso ad esempio alle novità introdotte in tema di cooperative compliance. Sono strumenti che vanno ulteriormente rafforzati e, soprattutto, resi di facile accesso e utilizzo per le imprese. La prossima legge di stabilità dovrà continuare a muoversi lungo il solco dello stimolo agli investimenti e all’innovazione: un buon esempio arriva dalla Francia dove la legge Macron ha introdotto un misura fiscale di accelerazione delle quote di ammortamento degli investimenti industriali.

Sugli altri fronti occorre disegnare una strategia complessiva. L’Italia, a oltre due anni dell’integrazione di Sace in Cdp, non si è ancora dotata di un modello di export bank forte, integrato e competitivo capace di sostenere al meglio la proiezione internazionale delle nostre imprese (fortunatamente cresciuta in modo spontaneo in questi anni).

Sulla digitalizzazione, molti territori a forte vocazione industriale rimangono tutt’oggi scoperti da una decorosa copertura di rete a banda ultralarga e i piani del governo stentano a trovare le coperture necessarie all’infrastrutturazione digitale, soprattutto nell’ingaggio con risorse private. Per tornare a investire servono risorse finanziarie. Politica industriale e mercati finanziari sono come non mai legati. Molte imprese sono ricche di liquidità e attendono solo un segnale di fiducia per tornare a investire in maniera importante. Altre invece, per quanto ancora sane dal punto di vista industriale, sono spesso frenate dai livelli di indebitamento accumulati e non trovano adeguati strumenti per il loro “esdebitamento”, turnaround e rilancio (qui vi è il timore che le cose non miglioreranno dopo le recenti modifiche alla legge fallimentare e all’istituto del concordato). Il sistema bancario a sua volta, a causa di regole prudenziali sempre più stringenti (soprattutto in Europa), non è in grado di fare da indifferenziato magazzino di rischio e di intermediare le risorse con un significativo effetto moltiplicatore sugli impieghi.

Da qui l’esigenza – colta anche a livello europeo con il progetto di una Capital Market Union – di attivare un canale di intermediazione diretto fra il grande risparmio di cui ancora il nostro paese dispone (parliamo di centinaia di miliardi di risparmio che si sta accumulando sia sul pilastro previdenziale che su quello assicurativo) e gli investimenti nell’economia reale. Purtroppo oggi meno dell’1 per cento del nostro cospicuo risparmio privato trova una qualche forma di impiego nel settore industriale italiano. Certo, una parte significativa sostiene il nostro debito pubblico, ma un cifra davvero imponente finanzia gli investimenti di imprese non italiane. Insomma esportiamo il nostro risparmio, quando in molti Paesi avanzati la canalizzazione del risparmio di lungo periodo sull’economia nazionale costituisce un preciso strumento di politica industriale.

L’industria ha poi bisogno di nuovo slancio imprenditoriale. Il nostro capitalismo è anziano e si trova nel guado di delicatissimi passaggi generazionali e manageriali. Sono le nuove imprese ad alto contenuto innovativo quelle che contribuiranno all’occupazione del domani. Il nostro paese si è da qualche tempo dotato di una legislazione di avanguardia per sostenere e diffondere imprenditorialità innovativa: occorre fare di queste prime sperimentazioni positive un modello per una platea ben più ampia di imprese. Si è iniziato a farlo con le pmi innovative ma sarebbe bene proseguire.

Infine occorre attrarre e attivare investimenti e sviluppare nuove iniziative imprenditoriali in quelle filiere – e sono molte – in cui l’Italia gode ancora di significativi vantaggi competitivi. Nella filiera della componentistica automotive, per esempio, ci sono tutti gli spazi per attrarre un secondo produttore auto, lungo il solco tracciato con l’accordo con Audi-Lamborghini che ha portato un significativo investimento in R&S e una nuova linea di produzione.

Nelle tante filiere dell’industria agroalimentare ci sono spazi di crescita ancora inesplorati. Il successo di Expo ce lo sta dimostrando ogni giorno. E’ prioritario lavorare al rafforzamento della capacità distributiva internazionale dei nostri prodotti. Ma soprattutto non si può pensare di tenere il nostro Made in Italy alimentare, riconosciuto e apprezzato dal consumatore per la sua straordinaria qualità, costantemente impegnato in una battaglia di retroguardia con il mondo agricolo sull’origine effettiva della materia prima. Così, altro che sostenere il Made in Italy: non esisterebbe il caffé italiano, non esiterebbe il cioccolato italiano, non esisterebbe la pasta italiana.

Ci sono spazi per consolidare le nostre filiere nell’aerospazio, nella microelettronica, nella meccanica strumentale, nella cantieristica, nella produzione sostenibile e nella distribuzione smart dell’energia, nell’information technology portando avanti progetti di investimento in chiave Industry 4.0, rendendo più strategici ed integrati i rapporti fra i capi filiera, le aziende pivot e la catena di fornitura e sub-fornitura. Si possono cogliere tanto le opportunità di efficientamento incrementale dei processi produttivi, quanto le possibilità rivoluzionarie di ripensamento vero e proprio dei modelli di business che si stanno aprendo grazie all’impetuosa trasformazione digitale del manifatturiero, all’utilizzo estensivo dei dati – un vero e proprio nuovo fattore di produzione – per gestire le fabbriche in tempo reale, per intercettare e persino anticipare i bisogni dei clienti, per integrare sempre più prodotti e servizi post vendita.

Oggi, finalmente, un segno positivo sta di fronte ai dati dell’economia. Non accontentiamoci. Il Paese merita di esprimere più fiducia nelle sue capacità e potenzialità. È possibile tornare a disegnare un’azione di politica industriale senza che questo comporti un maggiore interventismo dello Stato nell’economia. Occorre creare tutte le condizioni affinché si torni ad investire di più e soprattutto meglio, abbandonando la stagione degli incentivi distribuiti un po’ a tutti e premiando i comportanti virtuosi di quei tanti imprenditori che innovano e rischiano, che competono su mercati sempre più lontani e complessi, che modernizzano processi e prodotti, che costruiscono progetti per lo sviluppo competitivo nelle nostre filiere industriali.