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→  novembre 29, 2019


La vicenda della Tirreno Power è davvero lo specchio di quella dell’Ilva, come titola un editoriale del 27 novembre? Se nel senso che entrambe furono bloccate da un “intervento giudiziario paralizzante”, certamente sì. Sì, probabilmente, perché come a Savona, anche a Taranto potrebbe risultare che non sono dimostrabili i nessi causali tra le emissioni, quelle reali e ancor più quelle consentite, e i danni sanitari. Sì, ancora, perché i provvedimenti giudiziari colpirono le aziende in un momento di gravissime crisi di Mercato, a Vado per la concorrenza delle fonti rinnovabili unita al calo della domanda dovuta alla crisi, a Taranto per la concorrenza della sovrapproduzione cinese, che colpa gravemente tutti gli acciaieri europei.

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→  novembre 12, 2019


Se lo stato non fa rispettare i contratti perché mai dovrebbe gestire un’acciaieria che non è il suo mestiere?

L’Ilva, oltre che acciaio, produce dividendi politici. È così fin dalla sua origine, nel 1959, quando Antonio Segni, presidente del Consiglio, per creare posti di lavoro nel Mezzogiorno, e contro il parere dei tecnici dell’Italsider, decide di dare il via a Taranto alla costruzione del quarto centro siderurgico.

Sessant’anni dopo sia la decisione di continuare a produrre acciaio, sia quella di chiudere tutto, pagano ciascuna un dividendo politico a una parte di cittadini. Se si fa la scelta di mantenere l’Ilva si incassa il dividendo da chi era favorevole. Ma poiché il grido di chi si oppone è più forte della voce di chi è d’accordo, diventa più forte il dissenso di chi era contrario, e quindi più alto il dividendo politico che si può incassare rovesciando la decisione.

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→  ottobre 9, 2019


Al direttore.

Rai radio classica, insieme al suo predecessore Fd5 Auditorium, è un prodotto dell’azienda Rai. Il suo valore è quello della sua immagine, costruita anno dopo anno sulle scelte di palinsesto, sulla correttezza con cui sono pronunciati i nomi dei pezzi trasmessi e dei loro esecutori: ma soprattutto sul fatto che “trasmette musica classica 24 ore al giorno senza interruzioni pubblicitarie”, come veniva orgogliosamente vantato. Così, in mezzo secolo, Rai classica è diventato un brand. Veniva: perché da diversi mesi la pubblicità è entrata anche in Radio classica. E, da qualche settimana, in modo sfrontato: il “buona idea, dottor Scotti” è infatti addirittura preceduto da una musichetta, la cui volgarità risalta ancor più al confronto di quelle il cui suono si è appena spento. Novità nella programmazione sono avvertite in un tempo lungo, pronunce scorrette possono essere giustificate come infortuni: l’irrompere della pubblicità è invece immediatamente percepito. E a soffrirne è il valore del brand. E’ come se, aprendo Wikipedia, trovassimo una striscia di pubblicità: il suo valore di fonte autorevole di informazioni sarebbe gravemente compromesso. C’è da chiedersi: i ricavi in conto economico di quei pochi secondi di annuncio sono maggiori della perdita in conto patrimoniale derivante dal danno al valore di un brand costruito in 50 anni? Il fastidio per l’inserimento della pubblicità riguarda un ascoltatore fedele dai tempi della filodiffusione. Ma la Rai è un’azienda pubblica: quindi la perdita di un valore immateriale dell’azienda è questione che riguarda ogni contribuente.

→  ottobre 1, 2019


Il Pd disinteressato a bloccare l’entrata in vigore della riforma e Renzi dà ragione a Bonafede. Molto male.

Al Direttore.
“La prescrizione, diceva sabato Giorgio Armillei al convegno di LibertàEguale, garantisce la non punibilità solo quando la punizione non è più manifestazione del potere dello Stato di usare la forza per sanzionare i comportamenti incriminati, ma rappresenta l’autorità arbitraria e cieca che annienta l’individuo a proprio piacimento” E’ questione di legalità costituzionale: sono in gioco diritti dell’individuo, non scambiabili con la durata del processo, che è un fatto di efficienza dell’amministrazione. Che bloccare l’entrata in vigore delle disposizioni sulla prescrizione non sia tra le richieste non negoziabili della sinistra, è grave. Che non ne faccia parola Matteo Renzi nella lunghissima intervista, arrivando anzi a dire di essere più d’accordo con Bonafede che con Orlando, ha dell’incredibile. Infatti, per molti di noi, l’uscita di ItaliaViva del PD è in linea di continuità con il rifiuto di Renzi di portare il PD al tavolo delle trattative con il M5S: dopo le elezioni, prima delle prove date dal governo gialloverde, il PD si sarebbe perso. E oggi risponde alla necessità politica di evitare che l’eccessiva cedevolezza del PD dimostrata nella fase di formazione del governo abbia a proseguire. L’impegno a bloccare la legge sulla prescrizione è l’occasione di dimostrare che non ci siamo sbagliati.

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→  settembre 25, 2019


Al viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina il mercoledì 18, avesse preso la sua quotidiana copia del Financial Times, saranno strabuzzati gli occhi: una copertina giallo canarino a racchiuderlo, recante un solo titolo, a caratteri cubitali (tipo “Fate Presto”, tanto per capirci): “Capitalism, time for a reset”. Che cosa si debba intendere (“reset” si traduce con ripristinare o con azzerare) lo spiega sul retro una lettera del direttore Lionel Barber: la ricerca di massimizzare il profitto, la dottrina della shareholder value è sotto pressione, da oggi profitto sì ma con una finalità (purpose). Un autentico cambio di paradigma: chi da decenni ha letto il FT come la bibbia del libero mercato nel Paese dell’IRI prima e della CDP oggi, come la voce del mercato finanziario moderno nel Paese del capitalismo delle scatole cinesi e delle partecipazioni incrociate, ha ben di che strabuzzare gli occhi.

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→  settembre 13, 2019


Fake news, hate speech, interferenze sulla sicurezza nazionale: quando i Big Tech fanno male. Ma una regolamentazione privata dei contenuti è preferibile a una pubblica

Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che proibiscano di professarla liberamente, o che limitino la libertà di parola o di stampa, o il diritto delle persone di riunirsi pacificamente in assemblea e di fare petizioni al governo per la riparazione dei torti”.

Il Primo Emendamento della Costituzione americana sancisce l’inviolabilità della libertà di parola; parola è la “materia” di cui sono fatti i social media. Questa intersezione, tra il pilastro su cui si fondano la società e la cultura americana e il nuovo prodotto dell’industria e della tecnologia americana, è stata cruciale per il formarsi dei social media e per le decisioni su come regolamentarli; consente anche di capire il diverso sviluppo che essi hanno avuto in Usa e nell’Unione europea.

Oggi i social media sono al centro di molteplici accuse: di favorire una parte politica rispetto a un’altra, di essere strumento di interferenze straniere nelle elezioni, di non eliminare messaggi che diffondono odio e falsità, di intrappolare i loro utenti in bolle cognitive. Donde le richieste che un intervento governativo ne regolamenti i contenuti. John Samples, in un paper per il Cato Institute (“Why the Government Should Not Regulate Content Moderation of Social media, Policy Analysis”, Cato Institute, 9 aprile 2019, nr. 865) approfondisce le implicazioni giuridiche del testo costituzionale, e ne deriva una conclusione che suona eretica nel nostro discorso politico: che è preferibile il controllo privato della parola, e che i tentativi di un controllo pubblico normalmente falliscono; per cui è bene che a controllare i contenuti siano soggetti privati e non funzionari pubblici.

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