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→  giugno 14, 2010


di Pietro Ichino

Caro Direttore, quale che sia il risultato finale della partita che si sta giocando in queste ore alla Fiat di Pomigliano d’ Arco, essa costituisce l’ ennesima conferma della grave inadeguatezza del sistema italiano delle relazioni industriali rispetto alle sfide dell’ economia globale. L’ immagine del sindacato italiano che questa vicenda dà al mondo è la stessa che diede due anni fa l’ inconcludente trattativa con Air France-KLM per il futuro di Alitalia: quella di un sindacato profondamente diviso, ma anche incapace di darsi le regole necessarie per evitare che la divisione generi paralisi. In un sistema ispirato al principio del pluralismo sindacale, deve considerarsi normale che nella valutazione di un piano industriale a forte contenuto innovativo le associazioni sindacali si dividano.

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→  novembre 3, 2009

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In Senato si discute una legge sullo sfruttamento dell’«oro del futuro»

di Dacia Maraini

Ci sono poche notizie sui giornali e nessuna in Tv sulla privatizzazione dell’acqua. Eppure proprio in questi giorni si decide del nostro futuro. Si sta discutendo infatti in Senato la nuova legge che esclude ogni gestione pubblica delle acque. Non si tratta di un dilemma solo nostro. Tanti Paesi del mondo si stanno chiedendo, su stampa e televisione, fino a che punto sia lecito privatizzare un bene comune, di cui tutti dovrebbero disporre.
Il fatto è che l’acqua è in procinto di diventare l’oro del futuro e c’è chi pensa di guadagnarci sopra. Da qui la fretta di alcune grandi multinazionali per accaparrarsi i diritti di erogazione. Ho già scritto sull’ argomento. E c’è chi mi ha risposto sostenendo che le mie preoccupazioni sono esagerate perché la proprietà delle sorgenti e delle reti resterà comunque pubblica nonostante la cessione alle ditte private. Ma il diritto all’acqua si esplica solo se questa sgorga dal rubinetto e se è potabile. Il cittadino non va con il secchio al pozzo o alla sorgente o si mette in fila all’ acquedotto.
Il diritto all’acqua potabile si esercita solo attraverso la gestione e l’erogazione. In quasi tutta Europa d’altronde la privatizzazione si è bloccata o addirittura, come succede in Francia, è in atto un processo di ripubblicizzazione. La Svizzera ha dichiarato l’acqua e le reti idriche monopolio di Stato, non suscettibile di privatizzazione. Il Belgio ha fatto una legge per cui tutti i rubinetti vengono gestiti da Spa «in house», ovvero il cui pacchetto azionario è tutto in mano ai Comuni. Gli Stati Uniti rifiutano di privatizzare la gestione delle reti idriche locali che restano salde in mano ai Municipi. In tutta l’America latina poi e in atto un grande laboratorio sui beni comuni. In Uruguay, Bolivia, Ecuador e ora in Cile i parlamenti cambiano addirittura le Costituzioni per affermare tali principi. Da ricordare che in Cile la privatizzazione è avvenuta appena Pinochet è andato al potere. Oggi il governo cileno sta tornando alla proprietà pubblica. Ma perché preoccupa tanto la gestione privata delle acque? Il fatto è che quando un bene così importante passa nelle mani dei privati, la prima conseguenza è la diminuzione dei controlli, la seconda è che aumentano i prezzi (è successo a Latina dove la cessione alla multinazionale Veolia ha portato all’aumento delle tariffe del 300%) e spesso vi si infila pure la mano della criminalità organizzata (cosa accaduta in Sicilia e in Calabria).
La Lega che era contraria alla privatizzazione, da ultimo ha cambiato idea. Perché? Oggi firma una legge Fitto-Calderoli che propone addirittura di fare scendere al 30% la partecipazione dei Comuni per le società di gestione già quotate in borsa. Ai senatori e ai parlamentari chiediamo che riflettano prima di approvare una legge che arricchirà le grandi aziende private (quelle piu favorite oggi sono straniere) e impoverirà le nostre amministrazioni pubbliche.

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Acqua bene pubblico ma servizio (se possibile) privato
di Franco Debenedetti – Il Corriere della Sera, 05 novembre 2009

→  marzo 30, 2005

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Eccessiva la sintonia di Prodi con Chirac, sull’Iraq si è preferita l’afasia

Franco Debenedetti, domani lei, come senatore ds, sarà tra i partecipanti a un convegno sulla politica estera della Fed organizzato dall’associazione LibertàEguale. Ci saranno, fra gli altri, anche Amato, Maccanico, Mussi, Napolitano: quale sarà la proposta?
«Credo che il convegno nasca da una riflessione innescata dal1′ultimo voto sul rifinanziamento della missione in Iraq. In Parlamento, pur di evitare una contro-mozione di Rifondazione che avrebbe evidenziato una spaccatura nell’alleanza e anche nel Ds, 1′opposizione ha scelto di non dire nulla, ha preferito l’afasia».

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→  febbraio 23, 2005

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Intervista

Il senatore Franco Debenedetti dice che è piuttosto complicato decifrare questa sostituzione alla guida del quotidiano l’Unità, con Antonio Padellaro, il condirettore, che prende il posto di Furio Colombo. «Sulle prime sembrerebbe un cambiamento che non cambia, se mi è consentito il gioco di parole… e invece, sotto sotto, io credo che…».

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→  agosto 14, 1999

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di Mario Draghi

Se il controllo di una società ha un valore, significa che i controllanti ottengono benefici privati a danno dei piccoli azionisti: proprio per proteggerli da questo rischio la legge prevede norme a tutela della trasparenza nelle operazioni all’ interno di un gruppo. Il Tesoro, nel privatizzare Autostrade e Aeroporti di Roma, non venderà con un’ offerta pubblica il 100 per cento delle società , ma metterà all’asta una quota di controllo. Cosi’ facendo, dimostra di ritenere che il controllo ha un valore superiore a quello delle azioni vendute sul mercato. Delle due l’ una: o il Tesoro ha ragione, e quindi la legge è inefficace nella tutela del pubblico e deve essere cambiata. Oppure la legge è efficace, e il Tesoro sbaglia nel mettere all’asta la quota di controllo, mentre dovrebbe collocare il 100 per cento sul mercato.
Questo il ragionamento di Luigi Zingales (“Privatizzazioni, il valore del controllo”, Corriere della Sera, 1 agosto). Ma e’ sicuro, Zingales, che il valore del controllo sia tutto in questa possibilità di manovrare liberamente i consigli di amministrazione e le società di un gruppo per ottenere benefici privati per gli azionisti di controllo? In generale, nel mondo i passaggi di controllo avvengono con un premio rispetto al mercato: è possibile che ciò sia dovuto sempre e soltanto alla carenza delle leggi che tutelano gli azionisti? Non lo escludo, ma mi sembra artificioso pensare che ogni passaggio di controllo, che avviene con un premio rispetto al mercato, riveli solo la capacità superiore dell’ acquirente di vedere, egli solo, queste carenze, nonché la sua perversa volonta’ di approfittarne. Se questo fosse lo stato dei fatti, avrebbe ragione Zingales: il Tesoro, che ha il dovere istituzionale di difendere gli interessi dello Stato e quindi dei contribuenti, farebbe benissimo a pretendere dai futuri azionisti di controllo il valore dei benefici privati che questi si attendono a danno degli altri azionisti. Ma la realtà può essere meno schematica (e il Tesoro meno cinico) di quanto appaia nel ragionamento di Zingales. Il valore del pacchetto di controllo di una società può essere particolarmente elevato per un acquirente in virtù di sinergie il cui sfruttamento andrebbe non a scapito, bensì a beneficio (almeno parziale) degli stessi azionisti di minoranza. Così è stato ad esempio nel caso della cessione alla General Electric del Nuovo Pignone, una privatizzazione che ha rafforzato l’azienda italiana, consentendole di occupare un posto importante nell’organizzazione produttiva e di ricerca e sviluppo di una grande società multinazionale. Si potrebbe obiettare: perche’ non lasciare che sia il mercato stesso a individuare questo soggetto controllante, privatizzando con una Offerta pubblica di vendita (Opv) al 100 per cento, invece di selezionarlo direttamente mediante un’ asta? A parte alcune considerazioni istituzionali, di cui dirò tra poco, la questione, come Zingales sa, è di per sé complessa.
Una prima risposta è questa: vendendo l’ intera società a un azionariato disperso, e’ improbabile che dal mercato emerga un soggetto controllante capace di migliorarne la conduzione. Saranno gli azionisti
stessi a impedirlo, paradossalmente, qualora essi siano perfettamente consapevoli del valore di ogni possibile piano industriale dell’aspirante controllante: gli chiederanno un premio che eliminerà in lui
ogni incentivo a perseguire l’ obiettivo del controllo. Se però, in qualche modo, sul mercato riuscisse a coagularsi un blocco di controllo che andasse al migliore offerente, il mercato arriverebbe al medesimo
risultato al quale perviene una selezione compiuta attraverso un’asta competitiva. In questo caso, il Tesoro non farebbe peggio del mercato.
Ma, come si e’ detto, non necessariamente il mercato raggiunge questo risultato, o, se vi riesce, non necessariamente il modo sarà rapido e indolore. Inoltre, ritengo che il caso più frequente sia quello in cui
varie imperfezioni dei mercati, non sempre modificabili con decreti del Principe, ne influenzino la capacità di valutazioni rapide e corrette.
In questi casi l’ asta competitiva permetterebbe allo Stato di appropriarsi parte di quei benefici generati dall’ acquirente (ad esempio plusvalenze potenziali nel piano industriale), senza eliminare completamente il suo incentivo all’ acquisto del controllo. Ma veniamo ai casi specifici che sono tra loro diversi. Per Aeroporti di Roma l’asta riguarderà la quota di proprietà dell’Iri, pari a circa il 55 per cento del capitale, con l’ obbligo per l’ acquirente di lanciare un’Offerta pubblica d’ acquisto (Opa) sul rimanente flottante.
Nel caso di Autostrade, la quota che viene messa all’ asta non e’ la quota di controllo di diritto, ma il 30 % del capitale ordinario: ciò significa che l’ acquirente non rileva (contrariamente all’ esempio del Nuovo Pignone e di Aeroporti di Roma) il controllo, che potrebbe essere sempre acquisito sul mercato lanciando un’Opa totalitaria, ma paga solo la comodità di comprare il 30 % in un’ unica operazione e,
presumibilmente, di conseguire la maggioranza nella prima assemblea che si svolgerà dopo la privatizzazione. Il Tesoro governa il primo passaggio di proprietà, il mercato governerà i successivi.
Chiedere agli azionisti dell’ originario nocciolo Telecom per credere. Quindi, indipendentemente dalle considerazioni sull’ efficacia della legge, il valore delle quote che il Tesoro mette all’ asta non credo rifletta benefici privati a danno della maggioranza degli azionisti: la legge, infatti, offre loro gli strumenti per cambiare controllante. Veniamo infine agli aspetti istituzionali. Nei casi previsti dalla legge 474 del
1994 sulle privatizzazioni, tra cui prominente è quello delle aziende di pubblici servizi, il Parlamento chiede che le modalità di cessione vengano stabilite tramite un Decreto del presidente del Consiglio (Dpcm) sul quale le competenti commissioni parlamentari esprimono un parere. È quanto è avvenuto con i decreti su Autostrade e Aeroporti di Roma nei quali, come in altri casi, esplicita è la prescrizione che i soggetti controllanti non si trovino in conflitto di interesse. A parte la chiara indicazione in materia, è evidente che quando il venditore deve operare distinzioni tra i diversi potenziali acquirenti la strada del
collocamento integrale sul mercato e’ difficilmente percorribile, (anche se a sua volta l’ambito della stessa asta competitiva si restringe molto). In conclusione, vendere all’ asta la quota di controllo delle società da privatizzare non si giustifica necessariamente con lo scopo di ottenere dai futuri controllanti il valore dei benefici privati di cui essi potranno godere a danno degli azionisti di minoranza. Ragioni teoriche e considerazioni sulla realtà dei mercati inducono anzi a ritenere che tale procedura possa realizzare un’allocazione del controllo superiore (o almeno altrettanto buona) rispetto a quella che risulterebbe da una Offerta pubblica di vendita sul 100 per 100 delle azioni della società, non solo nel senso di selezionare il migliore offerente per il pacchetto di controllo, ma anche di valorizzare la società nel suo insieme. Detto ciò, occorre riconoscere con modestia che non esiste una teoria completa delle modalità ottime con cui privatizzare una società. La scelta del primo consiglio di amministrazione di una società privatizzata può essere fatta con nomina del governo, oppure può emergere spontaneamente dalla prima
assemblea. Entrambe le strade sono state percorse in Paesi con più solide tradizioni di mercato delle nostre. Il legislatore della 474 fu più prudente: ritenne, data l’esperienza italiana in materia, che la prima strada non avrebbe incontrato il favore del mercato e valutò che la seconda avrebbe allora prodotto effetti distorsivi, dato lo scarso grado di contendibilità previsto nella precedente legislazione sui mercati.
La scelta del Tesoro riflette questa storia istituzionale e la sua evoluzione: anche in passato, per le operazioni direttamente gestite, ma soprattutto oggi che la legislazione in materia di Opa ha liberalizzato il mercato del controllo, il Tesoro, per le società di maggiore dimensione, offre sul mercato una proprietà contendibile accompagnata da un’ offerta al pubblico. Imperfezioni dei mercati, espressioni di volontà politico – istituzionali rendono difficili queste scelte proprio perché esse avvengono in un ambiente lontano dai nitidi paradigmi della teoria: gli errori sono possibili da parte del mercato e da parte del governo, ma ciò che conta e’ avere leggi che permettano al mercato di correggere le scelte iniziali, sia quelle proprie, sia quelle del governo.

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