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→  luglio 13, 2014


Intervista di Maria Teresa Meli a Matteo Renzi

Polo viola, jeans, sneakers , il presidente del Consiglio è loquace e sarcastico come sempre: «Scusi se la ricevo così, ma tanto qui il sabato mattina non c’è praticamente nessuno». Lui c’è. Anche perché ha in programma diverse telefonate con i leader del Pse in vista della «cena delle nomine», il 16. Poi deve chiamare il presidente ucraino Petro Poroshenko e il premier spagnolo Mariano Rajoy.
Ha l’aria di uno che ha fatto le ore piccole. Ed effettivamente è così. Si è svegliato alle cinque del mattino per leggere il suo livre de chevet , «la mia lettura quotidiana», lo chiama lui, il libro che ha sempre sotto mano e che ieri mattina troneggiava anche sulla sua scrivania: il riassunto del bilancio dello Stato, voce per voce. Lo compulsa (da solo) quotidianamente e con Pier Carlo Padoan, Carlo Cottarelli e i loro rispettivi staff settimanalmente. Lo sa quasi a memoria. Tanto che l’altro giorno un funzionario addetto alla spending review è rimasto stupito perché conosceva l’esatto ammontare di una voce che non gli tornava. Sulla sua scrivania c’è anche un altro dossier. Ben più agile. Glielo ha dato Denis Verdini. Allungando lo sguardo, nell’attesa che il premier multitasking si occupi della politica internazionale, saltano all’occhio le simulazioni dei diversi sistemi elettorali. Si finirà per parlare di entrambi i dossier. Non perché giacciono lì sul suo tavolo, ma perché lui lega la politica italiana e quella europea con un nodo indissolubile.
Colto l’occhio della giornalista sul suo tavolo, l’avvio della conversazione è questo: «Calcisticamente parlando, qualcuno pensa che io sia un fantasista, cioè quello che inventa il colpo a sorpresa, o il portiere fortunato, che para i rigori perché provoca l’avversario. Non hanno capito che, dal punto di vista amministrativo, io sono un mediano (o in termini non calcistici, accessibili anche a chi non si interessa di pallone, un mulo), che su tutti i palloni si mette lì e “butubum-butubum” studia le carte. Ma è meglio che non lo abbiano compreso: così arrivo a fari spenti lì dove voglio arrivare, con buona pace di tutti i commentatori e dei professionisti della gufata».

Presidente, lei parla così, ma intanto c’è chi dice che la troika potrebbe commissariarci.
«Mai e poi mai. È un’ipotesi che non esiste. Dirò la verità: io non vivo nel terrore dei mercati. L’Italia è più forte delle paure dei vari osservatori e i dati lo dimostrano».

Be’, tutti i dati, no.
«Ogni giorno ci sono istituti che sfornano montagne di dati e ognuno legge quelli che vuole. Qualcuno poi si è accorto che nell’ultimo mese c’è stato un aumento di oltre 50 mila posti di lavoro? No, perché, com’è naturale, fa notizia l’albero che cade e non la foresta che cresce. L’Italia è molto più forte di come si racconta in sede internazionale: ha un alto debito pubblico, è vero. Ma ha ricchezza privata e se rimette finalmente a posto il fisco, la burocrazia e la giustizia ce la può fare. Il problema, però, è che la ripresa europea è fragile. Molto fragile. Più del previsto. Il problema è che la produzione industriale non segna negativo solo in Italia ma in quasi tutta Europa, a cominciare dalla Germania».

Ma noi abbiamo qualche problemino in più. Non ha paura dei mercati?
«No. Non mi preoccupano gli investitori internazionali. Al massimo, possono preoccuparmi i frenatori italiani. Ma sono convinto che li stiamo sconfiggendo ogni giorno di più. Tre anni fa, i mercati segnalarono un “problema Italia” in Europa. Adesso c’è un problema Europa nel mondo. Certo, alcuni analisti continuano a dire che noi non ce la faremo. Ma mi piace pensare agli esperti di alcune banche che dieci anni fa dicevano che l’Italia sarebbe fallita. In questi dieci anni sono fallite le banche e nessuno ce l’aveva annunciato. L’Italia, invece, è sempre qui».

Ma non si può dire va tutto bene, madama la marchesa.
«D’accordo con lei. Infatti non va tutto bene. È una situazione difficile, da gestire con grande responsabilità. Ma essere responsabili non significa essere catastrofisti. Responsabile è chi quando vede un ostacolo prova a cambiare strada, non chi urla più forte».

Presidente, può assicurare che i bonus verranno confermati anche il prossimo anno?
«Gli 80 euro verranno senz’altro riconfermati. Stiamo ragionando se sia possibile allargare la platea, partendo da famiglie, partite Iva, pensionati. Questo non lo sappiamo ancora».

Dipende da quel librone che tiene sulla scrivania?
«Anche e non solo».

Cioè?
«Se noi vogliamo avere la forza di mutare il modello di politica economica della Ue, basato tanto sul rigore, e poco sulla crescita, dobbiamo dimostrare di essere capaci di cambiare prima il nostro Paese. Ecco perché attribuisco grande importanza alla riforma del Senato e del Titolo V della Costituzione, perché simbolicamente significa che la classe politica non ha paura di cambiare se stessa. E questo le dà l’autorevolezza di dire, in Italia, che si possono abbassare i tetti degli stipendi dei manager pubblici e dei magistrati, per fare un esempio, e di spiegare in Europa che è ora di cambiare verso».

A proposito di Italia, sul Senato non avete ancora convinto tutti .
«Impossibile convincere tutti. Però mi pare che in Commissione si sia registrato un consenso più ampio della maggioranza. Ed è la prima volta che questo accade: non era successo nel 2001, non era successo nel 2006. Certo, sono un po’ stupito. C’è un consenso di quasi tutti sull’impianto. Persino chi mi accusa di autoritarismo riconosce che semplificare i livelli istituzionali, ridurre il potere delle Regioni, superare il bicameralismo perfetto, costituisce un obiettivo condiviso. Ci sono un paio di punti – un paio, non di più – su cui si è scatenato un dibattito molto duro. In particolar modo sull’articolo 57 che disciplina la composizione del nuovo Senato seguendo il modello tedesco. Mi piacerebbe discutere sulle grandi questioni del disegno di legge costituzionale. Invece stiamo a discutere se l’elettività del senatore sia di primo o di secondo livello. A mio giudizio l’obiettivo dei frondisti non è questo».

Qual è, allora?
«Affermare l’elezione diretta per poter dire che il Senato deve avere più poteri. Non si rassegnano all’idea della semplificazione e del fatto che non ci sia indennità per i senatori. Inoltre, metto nel conto le resistenze fisiologiche e comprensibili delle burocrazie. Anche per questo, il risultato della Commissione è un passaggio straordinario. E non è che l’inizio. In questa settimana noi abbiamo lavorato su agenda digitale, riforma della pubblica amministrazione, servizio civile universale, riforma della giustizia: il fatto che voi giornalisti siate più attenti ai sospiri di Mineo, Minzolini e Mucchetti che non a questi provvedimenti, mi sembra più il frutto di un affetto tra colleghi che di una valutazione di merito».

Venendo al merito: i frondisti dicono anche che con questa riforma del Senato e con l’Italicum chi vince le elezioni vince tutto e addio democrazia.
«Ho notato come il suo occhio andava a quel documento che riguarda le simulazioni sulla Camera dei diversi sistemi elettorali sulla base delle ultime Europee. Ebbene sa quali sono i risultati? Con il Mattarellum senza lo scorporo, sui 475 collegi uninominali, il centrosinistra ne avrebbe 458, con lo scorporo ne avremmo 438, con il Mattarellum corretto ne guadagneremmo 504 (e Grillo ne avrebbe zero), con il Consultellum 340 (perciò avremmo sempre la maggioranza) e gli stessi con l’Italicum. Quindi, di quale Parlamento a mia immagine e somiglianza si parla?».

Intanto Grillo prepara il sit in.
«È la cosa che gli riesce meglio. Organizzare proteste è il suo mestiere. Il mio, invece, è cambiare l’Italia. Vorrà dire che martedì mattina, mentre si prepara alla 27esima marcia su Roma, che ormai mi sembra una retromarcia su Roma, e mentre urla al 42esimo colpo di Stato dall’inizio della legislatura, gli faremo trovare una puntuale risposta del Pd – argomento per argomento – al suo decalogo della settimana scorsa. Alcuni parlamentari e amministratori 5 stelle sono molto bravi. Spero che abbiano la forza di farsi sentire e non siano zittiti dal blog o espulsi. Le loro idee ci stanno a cuore, la loro passione non merita di disperdersi in un insulto o in una manifestazione».

Perché tutta questa fretta per il Senato? Per paura che arrivi prima la sentenza sul caso Ruby?
«Non la chiami fretta. La chiamo urgenza di dare agli italiani il messaggio che finalmente si cambia. Comunque, Forza Italia sta mantenendo un atteggiamento di grande responsabilità, come del resto tutti i partiti che hanno votato la riforma. Le vicende giudiziarie di Berlusconi sono slegate dal processo di riforma costituzionale. A dispetto di alcune dichiarazioni di fuoco dei suoi, Berlusconi fino a questo momento non ha mai fatto venir meno la sua parola e il suo impegno: diamo a Cesare quel che è di Cesare».

Sembra che lei stia agendo su due fronti in contemporanea: la partita italiana e quella europea.
«Sono legate indissolubilmente. Le faccio qualche esempio pratico. Nel piano sblocca Italia c’è un progetto molto serio sullo sblocco minerario. È impossibile andare a parlare di energia e ambiente in Europa se nel frattempo non sfrutti l’energia e l’ambiente che hai in Sicilia e in Basilicata. Io mi vergogno di andare a parlare delle interconnessioni tra Francia e Spagna, dell’accordo Gazprom o di South Stream, quando potrei raddoppiare la percentuale del petrolio e del gas in Italia e dare lavoro a 40 mila persone e non lo si fa per paura delle reazioni di tre, quattro comitatini. È vero: stiamo combattendo su due fronti. Vogliamo restituire autostima all’Italia, ma anche dire che bisogna cambiare. Ed è per questo che ci siamo impegnati sulla legge Madia, quella sulla pubblica amministrazione: sarà una vera rivoluzione. Semplificherà e velocizzerà tante cose, migliorando la vita degli italiani e abbattendo i costi. E anche per questo incontra tante resistenze. Dall’altro verso, vogliamo far capire all’Europa che bisogna imboccare un’altra strada. Il mio unico cruccio è che non riesco – per colpa mia – a spiegarmi bene su quanto sia importante fare le riforme a casa nostra. I mille giorni non sono certo un modo per perdere tempo, ma un progetto di comunicazione organica che consentirà di legare il binomio flessibilità-riforme sia a livello europeo che cittadino».

In Italia, però, c’è chi pensa che lei si stia muovendo solo per se stesso.
«Non è così. Io vorrei che la classe politica italiana fosse consapevole che ci stiamo giocando tutto e che questa volta è possibile farcela. Anche per questo spero che Boldrini e Grasso abbiano la forza di mettere un tetto a tutti i loro alti funzionari come abbiamo fatto noi con i manager di Stato e pure con i magistrati».

Tornando all’Europa: come sono i suoi rapporti con Angela Merkel?
«Io la stimo molto. L’ho sentita ieri (l’altro ieri n.d.r. )».

Avete litigato sulla flessibilità?
«Nel senso che io le ho detto che con il Brasile la Germania era stata poco flessibile e lei mi ha risposto: ci vuole la giusta flessibilità».

In Italia: c’è stata polemica perché Indesit ha venduto a Whirlpool.
«La considero un’operazione fantastica. Ho parlato personalmente io con gli americani a Palazzo Chigi. Perché non si attraggono gli investimenti e poi si grida “al lupo”, riscoprendo un’autarchica visione del mondo che pensavamo superata. Noi, se ci riusciamo, vogliamo portare aziende da tutto il mondo a Taranto, come a Termini Imerese, nel Sulcis, come nel Veneto. Il punto non è il passaporto, ma il piano industriale. Se hanno soldi e idee per creare posti di lavoro, gli imprenditori stranieri in Italia sono i benvenuti».

Presidente, la sua querelle con le banche a che punto è?
«Le banche non hanno più alibi. Patuelli (presidente dell’Associazione bancaria italiana ndr ) che fa la lezioncina all’annuale assemblea dell’Abi non si può sentire. Ho molto apprezzato la reazione pacata ma tosta di Padoan. Le banche adesso sono piene di liquidità. Diano i soldi alle aziende, invece che lamentarsi. Con l’operazione Draghi non hanno più ragione di lamentarsi, né di mettere in sofferenza i piccoli artigiani, gli imprenditori del Nordest, le partite Iva. Navigano nei soldi, li spendano, grazie».

Ultimo capitolo, non certo per importanza, le donne. L’hanno criticata per l’uso strumentale delle suddette nel governo.
«Tanto, una critica in più, una in meno, cosa vuole che cambi. Preferisco essere criticato perché ci sono molte donne che lavorano in posti di responsabilità, che non perché siamo i soliti maschilisti. Una donna guida gli Esteri, una la Difesa, una sta seguendo la riforma costituzionale, una la riforma della pubblica amministrazione, una la politica industriale, una il patto per la salute. Le sembra poco? Preferiva prima? Nel frattempo, abbiamo nominato nelle posizioni di vertice una donna all’Agenzia delle entrate, una all’Agenzia digitale, una per i fondi europei, una alla guida del Legislativo di Palazzo Chigi. Forse i maschilisti sono i giudici che al Csm eleggono una sola magistrata».

→  marzo 18, 2014


di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Se Matteo Renzi fosse un ciclista giudicheremmo il suo inizio in questo modo. È partito, si impegna, pedala con entusiasmo, ma per ora è in pianura. Le salite devono ancora arrivare. Non è chiaro che cosa riuscirà a fare, perché con le montagne il ciclista Renzi non si è ancora cimentato. E in questa corsa ci saranno tante salite e avversari difficili.

La prima è la riforma del mercato del lavoro. Renzi ha proposto varie semplificazioni dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato: bene, ma era relativamente facile. La salita arriverà quando si dovrà decidere se abolire l’articolo 18 per i nuovi assunti. Ovvero, se si vorrà adottare il modello proposto da Pietro Ichino: un contratto uguale per tutti, senza differenziazione fra lavoratori a tempo determinato e indeterminato, e che consenta alle aziende di licenziare con costi crescenti, ad esempio facendo pagare loro una quota del sussidio di disoccupazione tanto più elevata quanto maggiore era l’anzianità del lavoratore licenziato. Come osservava Maurizio Ferrera (Corriere , 14 marzo), il sussidio dovrà essere esteso a tutti, sostituire la cassa integrazione e prevedere regole chiare che costringano i disoccupati a cercare ed accettare nuovi lavori. Con più del 40 per cento di disoccupazione giovanile, e imprese che non assumono perché attanagliate dall’incertezza, questa maggior flessibilità non può che far bene all’occupazione. Limitarsi a spostare l’applicazione dell’articolo 18 al terzo anno successivo all’assunzione significa solo rinviare il problema, come notava Franco Debenedetti (Corriere , 15 marzo).

La Cgil si opporrà a una vera riforma del mercato del lavoro, che pure consentirebbe a tanti giovani di uscire dall’incubo dei contratti a tempo determinato. Evidentemente i giovani interessano poco alla Cgil, i cui iscritti sono per circa una metà pensionati. Ma riuscirà Renzi a superare in questa salita la Cgil, o rimarrà indietro?

Seconda salita: come finanziare la riduzione delle imposte sul lavoro e sui redditi più bassi e il sussidio di disoccupazione universale. Riuscirà Renzi a imporre tagli di spesa adeguati? Per ora non è chiaro. Il suo silenzio può voler dire due cose. Che ha ben chiaro che fare, ma non lo vuole rivelare troppo presto per non dare un vantaggio a chi si opporrebbe a qualunque taglio, in primis gli alti funzionari pubblici e i membri del suo stesso partito. Lo farà, ma senza dirlo prima, e quindi senza compromessi. L’altra ipotesi e che non sappia da che parte cominciare. Insomma, o il ciclista Renzi ha una strategia per la salita della montagna «spesa pubblica», ma strategicamente la tiene nascosta ai suoi avversari, oppure sta arrancando ed è già senza fiato.

Terza salita: la tassazione delle rendite finanziarie. Renzi ha preso una scorciatoia: l’aumento dell’imposta su alcuni titoli, continuando a privilegiare i debiti dello Stato rispetto a quelli di famiglie e imprese. Ma le scorciatoie sono spesso poco lungimiranti. Come suggerivamo in un editoriale del 21 febbraio, la delega fiscale che il Parlamento ha appena approvato offre un’occasione unica per rivedere in modo complessivo il nostro sistema impositivo. Prendendo spunto dai migliori esempi esteri come Gran Bretagna e Stati Uniti. Tassare il reddito da lavoro in modo progressivo e quello da capitale in modo proporzionale (indipendentemente dall’aliquota) è ingiusto. Le montagne si scalano con metodo e determinazione. Scorciatoie e accelerate improvvise mettono solo a rischio il risultato finale.

→  marzo 15, 2014


Caro Direttore, i nomi contano. Di una liberalizzazione dei contratti a termine che si nasconde dietro quello di “prova”, estendendolo a un periodo, questo sì “senza precedenti”, di tre anni, il meno che si possa dire è che non ha il coraggio di chiamarsi con il suo nome. Che poi questa liberalizzazione “incida sul mercato del lavoro più che se fosse stato abolito l’art.18”, come scrive Enrico Marro (“Meno vincoli e alibi sulle assunzioni”, Corriere della Sera del 13 Marzo), è difficile da capire.

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→  gennaio 29, 2014


di Francesco Giavazzi

La «privatizzazione» delle Poste è l’esempio di ciò che accade quando un governo debole e pressato dai conti pubblici, perché non è capace di tagliare le spese, si trova a dover cedere a interessi particolari anziché operare nell’interesse dei cittadini e dello Stato. L’operazione pare costruita su due principi: far contenti i sindacati concedendo loro un implicito diritto di veto su qualunque modifica del contratto di lavoro. E non contrapporsi a un management che si è abilmente conquistato la benevolenza del governo rischiando 70 milioni della propria cassa per coprire le perdite di Alitalia.

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→  gennaio 12, 2014


di Antonio Foglia

Con un efficace paragone, l’economista Luigi Zingales ricorda che l’euro è un progetto analogo alla Conquista del Messico da parte di Cortes che si bruciò le navi alle spalle per impedire ogni tentazione di ritirata ai suoi uomini. Quando partì l’euro, chi lo volle sapeva che si trattava di un progetto incompleto che avrebbe probabilmente avuto bisogno di importanti aggiustamenti. Il vertice europeo del giugno 2012 mise a fuoco quelli più urgenti.

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→  dicembre 13, 2013


di Paolo Flores d’Arcais

Ernesto Galli della Loggia nel suo articolo di domenica mi accusa di “evidente contraddizione” per una interpretazione della Costituzione che ho avanzato in un trascorso numero di MicroMega (“Realizzare la Costituzione”, ormai non in edicola ma disponibile sul sito di micromega.net), che sarebbe “eversiva alla radice dell’ordine repubblicano” e “premessa per una sorta di guerra civile” e le cui “forsennate conseguenze” implicherebbero la volontà di “messa al bando per decreto” per tutti coloro che non la condividano, vale a dire “la parte riottosa ai suoi [cioè miei] precetti”, parte su cui “naturalmente” calerei ipso facto l’accusa di “fascismo”, con cui del resto bollerei “la signora Thatcher e molti degli editorialisti di questo giornale” (per quest’ultima accusa Galli usa la formula dell’interrogativo retorico).

Questa ricca giaculatoria di anatemi, solo per aver io ricordato quanto la Costituzione solennemente pone a fondamento della nostra convivenza civile. Se con l’art. 4, ad esempio, “la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”, ne deriva proprio la conseguenza logica, come ho scritto su MicroMega, che “diventerebbero estranei e nemici della Repubblica” i governi che non operassero per la piena occupazione. Se con l’art. 36 “il lavoratore ha diritto ad una retribuzione … in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, ne deriva la conseguenza logica che ostili alla Costituzione sono parlamentari e ministri che agiscano secondo politiche difformi da questo imprescindibile obiettivo (prosternandosi ai diktat di Marchionne, ad esempio). Se con l’art.37 “le condizioni di lavoro devono … assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”, è conseguenza logica, scrivevo, che vada “contro la Costituzione ogni politica che non assicuri a tutti gli asili nido” (Galli chiosa: “a tutti i bambini, immagino”. In effetti solo a loro pensavo, ma il suo articolo mi ha inoculato un dubbio).

Se l’art. 42, recitando che “la proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati”, pone per ben due volte la proprietà privata in una posizione subordinata a quella pubblica, aggiungendo esplicitamente che “la legge ne determina [della proprietà privata] i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale”, ne consegue logicamente che sono fuori e contro la Costituzione le forze politiche ostili a perseguire il primato della “funzione sociale” rispetto al diritto proprietario dei privati (questo “terribile diritto”, come lo definisce un libro di Rodotà proprio in coerenza con la Costituzione). Tanto è vero che (art. 43) è previsto anche l’esproprio “salvo indennizzo” non specificato e funzionale “a fini di utilità generale”.

Non riproduco gli altri esempi fatti su MicroMega. Trovo francamente curioso che agli occhi e alla “logica” di Galli tutte queste inoppugnabili conseguenze logiche appaiano costituire una “evidente contraddizione”.

A meno di non tornare alla contrapposizione tra norme programmatiche e norme precettive con cui la Corte di Cassazione fino a tutto il 1955, zeppa di magistrati ossequienti al regime fascista e applicando norme fasciste a go go, riuscì a impedire che la Costituzione fosse davvero vigente. La sentenza numero 1/1956 della Corte Costituzionale poneva fine a questa prevaricazione giuridica, e da allora, con sempre maggiore chiarezza, sentenze della Corte e dottrina pressoché unanime evidenziano come le norme programmatiche della Costituzione non siano “libri dei sogni” o innocui “castelli in aria”: non sono direttamente e immediatamente precettive in quanto da sole non possono dar luogo a sanzioni, ma sono inequivocabilmente prescrittive nei confronti del legislatore, a cui detta le coordinate cui deve uniformarsi il lavoro parlamentare, e nei confronti dei tribunali, che devono interpretare le leggi alla luce della Costituzione.

Gli articoli della Costituzione non sono dunque “inapplicabili”, come sentenzia Galli, costituiscono anzi la strettissima via maestra all’interno della quale devono muoversi legislativo esecutivo e giudiziario se vogliono mantenersi fedeli al Patto che fonda la nostra convivenza, “giurato da uomini liberi” che venivano dalla prigione, dall’esilio, dalla lotta armata contro il fascismo. A cui dobbiamo una delle Costituzioni più avanzate del mondo, e che la vollero rigida, cioè particolarmente ardua da modificare, proprio per impedire che ne fosse stravolto o edulcorato l’imprinting.

La nostra è infatti una Costituzione che trasuda “giustizia e libertà” quasi da ogni articolo (non l’art.7, ovviamente). Per questo non piace a Galli. Il quale non l’avrebbe “a gran dispitto” se non comportasse le logiche conseguenze che ho richiamato. Del resto lo confessa, seppure con qualche obliquità: “effettivamente, a motivo di una dizione perentoriamente ancorché astrattamente prescrittiva, molti degli articoli della nostra Costituzione — specie quelli del Titolo II e III — si prestano troppo facilmente ad essere interpretati come un obbligatorio programma di governo”.

Proprio per questo l’establishment del berlusconismo e dell’inciucio, nel suo ventennio che forse si chiude, ha provato a stravolgerla: con le nomine di giudici costituzionali che sperava corrivi, o con comitati di controriforma. Inutilmente, fin qui.
Galli chiede polemicamente a Lorenza Carlassare, Stefano Rodotà e Gustavo Zagrebelsky cosa pensino del mio atteggiamento “ferocemente divisivo”. Per certo don Luigi Ciotti, dal palco della manifestazione ricordata da Galli, ha usato l’espressione “Costituzione tradita” almeno sei o sette volte. Per questo resta un programma politico attualissimo. Purtroppo, visto che la nostra Costituzione antifascista dovrebbe essere l’orizzonte comune a tutti i cittadini e a tutti i politici.

Antifascista, sì. Galli sa perfettamente che ogni norma trae legittimità da una norma di livello superiore, per cui, se si vuole evitare regresso all’infinito o legittimazione circolare, la norma fondamentale (la Grundnorm di Kelsen) che regge l’intero sistema deve avere carattere extra-giuridico. Tutte le norme traggono in definitiva la loro legittimità dal fatto storico che ha dato vita a una Costituzione. Per quella Americana è la rivoluzione per l’Indipendenza, per la nostra è la Resistenza antifascista e la sua vittoria il 25 aprile, che le tre partigiane in armi della copertina di MicroMega simboleggiano.

Se la Resistenza antifascista è – come inoppugnabilmente è – la Grundnorm del nostro patto di convivenza, un ovvio sillogismo ci dice che il rifiuto dell’ethos antifascista mette a repentaglio la legittimità del nostro intero ordinamento giuridico. Ma è solo nella fantasia di Galli che io dia del “fascista” a tutti coloro che si sentono estranei o ostili alla nostra Costituzione. Non mi sognerei mai di definire fascista la signora Thatcher (e neppure Ostellino o altri editorialisti di questo giornale), ma benché non fascista la politica economico-sociale della prima resta radicalmente incompatibile con la nostra Costituzione repubblicana, verso la quale del resto l’inimicizia di Ostellino è dichiarata, reiterata e perfino ostentata.

Perciò da parte mia nessuna “geremiade sulla non avvenuta attuazione” della Costituzione, ma la consapevolezza che in Italia ci sono due grandi partiti trasversali, uno dei quali è nemico della Costituzione, e se cerca di cambiarla aggirandone il carattere rigido è anzi nemico eversivo. Da combattere con democratica intransigenza. Perché, finché c’è lotta c’è speranza.