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Archivio per il Tag »Giuliano Amato«

→  maggio 28, 2013


Chi sostiene l’ineleggibilità di Berlusconi si appoggia a una motivazione giuridica: per una legge del 1957 sono non eleggibili “coloro che in proprio o in qualità di rappresentanti legali di società o di imprese risultino vincolati con lo Stato per concessioni o autorizzazioni amministrative di notevole entità economica.”

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→  febbraio 22, 2009

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di Giuliano Amato

I lettori sanno che io non sono fra quelli che ritengono si possa uscire dalla crisi e costruire un futuro migliore, rimuovendo le sole patologie delle attività finanziarie. C’è anche un problema di economia reale e in particolare di fondamentali squilibri fra economie in surplus ed economie in deficit. Raggiungere perciò migliori equilibri macroeconomici, coordinare di più le stesse politiche valutarie e costruire un mondo trainato non più da una sola locomotiva ma da più locomotive sono terapie che io stesso ritengo essenziali e che ho già suggerito.

Detto questo, però, non si può ignorare il fatto che i guasti finanziari hanno enormemente amplificato i crolli tanto nella finanza che nella stessa economia reale; e che nuovi crolli potrebbero intervenire a breve, se non si saprà uscire con rapidità, e anche con la necessaria, impietosa decisione, dallo stallo in cui si è finiti, ponendo rimedi a quei guasti che si stanno rivelando pericolosamente inadeguati.

Mi limiterò qui a un aspetto, che è tuttavia fra quelli cruciali della vicenda, l’aspetto che riguarda i cosiddetti troubled assets. I lettori ricorderanno che l’iniziale piano con cui si pensò di gestirli, il piano del vecchio ministro del Tesoro americano Henry Paulson, risultò ben presto inefficace. Paulson si proponeva di acquistare i troubled assets dalle banche e dagli altri istituti finanziari che li possedevano, in modo da ripulirne i bilanci e rimuovere così la sfiducia che aveva paralizzato il sistema. Paulson però si accorse presto che di troubled assets ne stavano circolando in quantità e con presunti valori incontenibili nel suo stanziamento di 700 miliardi e che, in ogni caso, sull’accertamento esatto di quei valori ai fini dell’acquisto l’intesa era più che difficile. Il Tesoro pensava infatti di acquistare al prezzo più basso possibile per non inquietare il contribuente che pagava, le banche pensavano che in futuro quegli stessi assets avrebbero potuto recuperare e non erano quindi disposte a svenderli.

Venne accolto allora il consiglio dei tanti che sin dall’inizio avevano suggerito la strada diversa dell’ingresso dello Stato nell’azionariato delle banche o comunque del rafforzamento del loro capitale, che avrebbe rappresentato di per sé una garanzia sia per i risparmiatori che per le future attività creditizie e avrebbe consentito, in altre forme, la ripulitura di cui c’era bisogno. La mossa è stata inizialmente efficace e lo è stata negli Stati Uniti come negli Stati europei che l’hanno adottata: il caso di Lehman Brothers è rimasto isolato. Ma evidentemente non è bastata a restituire al sistema la fiducia di cui aveva bisogno. Intanto non ha riguardato tutti i titolari di troubled assets, ma solo alcuni. E poi non li ha rimossi dalla pancia di nessuno, nessuno è in grado di attestarne il valore e si va avanti così con bilanci di banche e di imprese largamente fondati sulle sabbie mobili, con conseguente volatilità dei corsi azionari e paralisi delle attività.

Non a caso il secondo atto della vicenda, quello interpretato negli Stati Uniti dal nuovo ministro del tesoro, Tim Geithner, prospetta il ritorno alla separazione dei troubled assets, questa volta attraverso un’apposita bad bank. Geithner l’ha proposta, ma in termini tanto vaghi da provocare una profonda delusione e un tonfo ulteriore dei corsi azionari a Wall Street. E come mai la sua proposta è così vaga? Per la stessa ragione per cui aveva fallito Paulson, vale a dire i troubled assets non hanno un valore di mercato e non c’è intesa sul possibile prezzo di acquisto da parte della bad bank.

Ebbene, non si può andare avanti così. Se il nuovo ministro americano, e nqn solo lui, pensa che sia necessario separare i troubled assets, una ragione c’è ed è il timore che organismi tuttora inquinati da questi titoli avvelenati finiranno per morire di setticemia finanziaria e lo faranno magari più presto di quanto comunemente si creda, con terremoti ancora più gravi di quelli sin qui già subiti. Ma se è così, possiamo rimanere prigionieri di questo autentico dilemma del prigioniero attorno al prezzo ignoto del veleno?

Voglio ricordare che, già ai tempi di Paulson, George Soros, che pure gli suggeriva di abbandonare il suo piano iniziale e di entrare invece nell’azionariato delle banche a rischio, suggeriva altresì di trattare i troubled assets sulla base di un valore convenzionale che, in assenza di un valore di mercato, avrebbe fornito l’unica possibile via d’uscita. E anche in questi giorni, in un libro che sta pubblicando (“The Crash of 2008 and What it Means”), Soros ripropone la stessa idea, nel contesto non della creazione di bad banks pubbliche, ma di sidecars creati dalle stesse banche per infilarci i loro titoli illiquidì e ripulire così i loro bilanci.

Io non entro nella scelta fra bad bank e sidecar, anche se preferisco di gran lunga il secondo. Ciò di cui sono convinto sin dall’inizio di questa storia (e l’ho scritto nella mia prima “Lettera” su di essa, sul Sole 24 Ore del 5 ottobre scorso) è che non ne usciremo, perché la fiducia non tornerà, sino a quando i troubled assets non saranno espulsi. E l’unico modo di espellerli è di attribuire loro un valore convenzionale, visto che il mercato non è mai stato in condizione di prezzarli. Ci vuole coraggio per farlo e temo che la ragione per cui Geithner è rimasto nel vago sulla sua bad bank sia proprio che,quel coraggio gli è al momento mancato.

Ma se lo deve far venire e con lui se lo devono far venire i suoi colleghi del G-7 e oltre. Non si facciano troppi scrupoli. Chi ha messo in circolazione quei titoli, chi li ha impacchettati o reimpacchettati e li ha fatti ulteriormente circolare non merita particolare benevolenza. Si stabilisca un valore sufficientemente prossimo allo zero da non sprecare i soldi del contribuente nel caso li si volesse usare per comprarli. E lo si stabilisca tuttavia a un livello che non azzeri la capitalizzazio-ne delle banche. In ogni caso, se soldi pubblici dovessero servire, meglio usarli per ricapitalizzare banche pulite, che spenderne molti per comprare le loro porcherie. Se poi, in futuro, quegli stessi titoli avessero un valore, lo si potrebbe sempre ritornare ai portafogli da cui vengono.

So che ci sono delle domande a cui bisogna rispondere e la prima riguarda i titoli da includere: quelli inizialmente acquisiti “over thè counter” e cioè con prezzo non di mercato, quelli sostenuti da mutui-casa fragili, gli swaps che hanno ad oggetto i medesimi titoli, i pacchetti che includono o gli uni o gli altri?

Qui non ho la risposta, so solo che quando si è costretti a usare l’accetta, la si usa nel modo più oculato possibile, ma l’importante è tagliare i rami che possono cadere sulla testa di tutti. Altrimenti di lì nessuno tornerà a passarci. E noi, impotenti davanti agli irresponsabili che l’hanno scatenata, resteremo paralizzati nella crisi più grave degli ultimi decenni.

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→  gennaio 25, 2009

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Lettere contemporanee

di Giuliano Amato

Ha assolutamente ragione il Presidente Obama quando dice che non basta creare nuovi posti di lavoro, ma occorre dare «nuove fondamenta all’economia». Non vorrei però che negli entusiasmi suscitati da questa sua affermazione si infilasse anche la voglia di tornare al vecchio, una voglia già sperimentata in altre situazioni di crisi e servita allora più a prolungarle che a risolverle. Separare subito il grano dal loglio nella ricerca del nuovo mi pare quindi essenziale.
Di nuove fondamenta ha certo bisogno l’economia americana, nella quale per prima ha preso corpo quell’abnorme espansione delle attività finanziarie, che sono arrivate a generare oltre il 40% dei profitti, hanno schiacciato sotto i debiti l’economia reale e hanno reso laceranti le diseguaglianze di reddito. E di nuove fondamenta hanno bisogno anche gli altri, noi compresi.

Dobbiamo valorizzare davvero i fattori da cui dipende la crescita della nostra produttività e non farne oggetto soltanto dei nostri ormai stucchevoli convegni sul tema.
Ma la dinamica stessa della crisi e gli interventi che sta suscitando non possono spingere oltre la domanda di cambiamento? Oggi rischiano di fallire insieme imprese efficienti e imprese inefficienti e per evitare i costi sociali dei due fallimenti si interviene massicciamente con aiuti di Stato oppure si autorizzano fusioni (magari per legge, come si è fatto per Alitalia e Airone) che in condizioni normali sarebbero invece proibite. Interventi transitori, si dice. Ma dei benefici della concorrenza, anni addietro sulla bocca di tutti, oggi non parla nessuno. E c’è anzi chi comincia a chiedersi se davvero ne abbia portati di benefici e se della revisione critica a cui assoggettiamo il Washington consensus con il ventennio che ne è seguito non debba far parte, senza sconti, lo stesso fondamento concorrenziale che abbiamo voluto generalizzare in ogni settore dell’economia. La questione dunque è già posta e sarebbe perciò un errore non affrontarla. Se la si affronta ci si accorge che sì, è vero, diverse cose non hanno funzionato in questi anni nei mercati aperti alla concorrenza. Ma davvero la responsabilità è della stessa concorrenza e di ciò che essa ha dato e può dare?

È di sicuro peggiorata la vita di gran parte dei lavoratori occupati in quei mercati, mentre non sono affatto migliorati, in più casi, la qualità e il prezzo dei servizi resi ai consumatori. Quando c’era la rendita del servizio in monopolio, si diceva che se la spartivano, a danno dei consumatori, il gestore e i suoi lavoratori. Ora che la rendita non c’è più, ora che molti lavori prima a tempo indeterminato e ben pagati sono diventati precari e mal pagati, una eguale insoddisfazione accomuna i lavoratori e gli utenti. Basti pensare all’incubo del povero utente con problemi di telefono, che si aggira via filo nei meandri dei call center, avendo come massima soddisfazione quella di parlare alla fine con qualcuno; oppure alla attesa dei bagagli in aeroporto, dove ormai, a parte i furti, non c’è più personale sufficiente per smistarli. Quanto alle tariffe, nei telefoni sono senz’altro diminuite, ma in molti altri servizi, per una ragione o per l’altra, la riduzione non c’è stata.

C’è poi la struttura disfunzionale e bislacca assunta da certi mercati, nei quali l’apertura alla concorrenza ha messo ai polpacci dell’ex monopolista sette piccoli e avidissimi indiani, che hanno corroso la sua forza di mercato, hanno conquistato ciascuno uno spazio troppo piccolo per diventare vitali, col risultato che alla fine, se il mercato non era solo nazionale, loro vivono di stenti (trasferiti peraltro ai dipendenti) e l’ex monopolista si ritrova indebolito e inerme davanti agli ex monopolisti di altri Paesi, meno massacrati di lui. Il caso del nostro mercato aereo, certo con una qualche unilateralità, può essere raccontato anche così. E così del resto lo sintetizza Marcello De Cecco in un paper non ancora pubblicato.

Bene, anzi male, tutto questo è accaduto. Ma è accaduto perché non funzionano la concorrenza e i privati o per difetti da imputare in primo luogo alle azioni con le quali lo Stato o gli enti locali dovevano orientare e regolare i mercati nascenti da liberalizzazioni e privatizzazioni? I privati, si sa, più che all’aureola pensano a far soldi. Ma quel che conta è che nei mercati liberalizzati la mano invisibile basta assai meno che altrove e lo sapeva bene la stessa signora Thatcher, nei cui anni di governo fu proprio il Regno Unito a sviluppare l’esperienza di regolazione più attenta e intensa per far nascere e crescere dei mercati funzionanti al posto dei vecchi monopoli.

Non voglio allargare troppo il discorso e prima di ritornare sull’Italia mi limito a ricordare che dei disastri seguiti alle privatizzazioni in buona parte dell’Est europeo (dagli arricchimenti smodati dei compradores al tasso di mortalità che sarebbe cresciuto fra le migliaia di lavoratori licenziati) giustamente Joe Stiglitz attribuisce la responsabilità alla shock therapy che si volle adottare in assenza di istituzioni statali capaci di governare il passaggio.

E torno all’Italia. Ce la ricordiamo la allegra incoscienza con la quale lasciammo crescere il Far West delle televisioni private dopo che nel 1976 la Corte costituzionale dichiarò legittimo il solo monopolio nazionale e illegittimo quello locale? Lungo anni e anni di totale omissione legislativa e di acquiescenza a ciò che veniva accadendo fiorirono e sfiorirono oltre cento fiori, si consolidò un duopolio di tre reti pubbliche contro tre reti private e poi non si seppe fare altro che sancirlo per legge. È colpa dei privati se finì così? Della liberalizzazione aerea ho già accennato e posso solo aggiungere che ogni italiano ha diritto di chiedersi perché la concorrenza abbia rafforzato British Airways, Air France e Lufthansa e abbia invece indebolito Alitalia. Invito poi chi ne ha voglia a dare una occhiata alla giungla delle discipline che regolano le nostre società aeroportuali, per rendersi conto della impossibilità che da quell’insieme dissennato esca una concorrenza funzionante. E termino con un cenno alla concorrenza che sta per aprirsi nel settore ferroviario, dove c’è un obbligo di servizio universale per le stesse percorrenze medio-lunghe non coperte dalle Regioni, che tuttavia non è regolato ed è solo occasionalmente finanziato. Che Dio ci assista.
Conclusione. La rinuncia alle norme sulla concorrenza fu adottata come medicina anti-crisi all’inizio del New Deal negli Stati Uniti e negli anni 90 in Giappone. Ne vennero benefici sociali a breve termine, che furono però largamente compensati dai danni di lungo termine sul terreno della produttività e dell’efficienza di sistema. Se è vero perciò che c’è molto da rivedere negli ingredienti del Washington consensus, teniamone fuori la concorrenza. E impariamo caso mai a farla funzionare.

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→  luglio 24, 2005

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Replica a Giuliano Amato sulla libertà scientifica

Le vendite di Rolex in Cina aumentano di oltre il 100% l’anno. Percentuali di incremento analoghe sono registrate da Montblanc. Il sistema opeativo Windows ha il 95% del mercato cinese, una percentruale di molti punti maggiore di quella che detiene nel resto del mondo. Questi exploit commerciali non sono ottenuti grazie a costose campagne promozionali, o a sofisticate strategie di marketing: sono risultati che arrivano gratuitamente, senza impegni, perfino ad onta degli sforzi fatti per contrastarli. Sono i frutti imprevisti della pirateria.

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→  luglio 23, 2005

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Replica a Giuliano Amato sulla libertà scientifica

Preoccupato di ritagliare per la scienza uno spazio di libertà, Giuliano Amato ricorre alla distinzione che fa Hans Jonas tra la scienza, “volta esclusivamente a conoscere la realtà che ci circonda”, e la “non scienza ma tecnica, volta invece a introdurre mutamenti nella realtà”; o a quella tra homo sapiens e homo faber, che il filosofo tedesco vede distinti pur riconoscendo che primo “lavora in genere in funzione” del secondo.

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→  luglio 3, 2001


Se un Paese adotta misure protezioniste, soleva dire Giuliano Amato quand’era presidente dell’antitrust, sono i suoi cittadini che finiscono per pagarne il costo. Anche se lo fa a fin di bene, avrebbe dovuto aggiungere: c’è infatti sempre il pericolo che un provvedimento protezionista scappi di mano, e finisca per sortire conseguenze molto diverse dalle intenzioni di chi l’aveva proposto. Per ironia del destino, è proprio quello che sta succedendo con il decreto del suo Governo che sterilizza al 2% il diritto di voto di quel 20% di azioni Montedison che Edf aveva rapidamente messo insieme.

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