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→  settembre 9, 2016


Su scala planetaria, al G20, a prendere la scena sono stati l’intesa sul clima con la Cina e la gelida stretta di mano tra Barack Obama e Vladimir Putin; a livello locale, nel Meclemburgo, la sua politica per i rifugiati le è costata l’umiliazione
di venir scavalcata dall’AfD. Ma se si ritorna al livello europeo, e ai problemi europei, è sempre Angela Merkel il punto di riferimento. Dopo l’incontro di Ventotene con Hollande e Renzi, in una settimana aveva incontrato, nell’ordine, i leader dei Paesi baltici, del gruppo di Visegrad (Repubblica Ceca, Slovacchia, Polonia, Ungheria), dell’Europa settentrionale e dell’Europa centrale; se si considera che Hollande e Renzi rappresentino gli altri Paesi dell’Europa meridionale, il giro è completo. Tanto attivismo esautora o surroga Bruxelles? Nasconde un disegno egemonico, o cerca di ricomporre le divisioni che attraversano l’Europa? E si erano sentite le solite voci: ci vorrebbero gli Stati Uniti d’Europa, il presidente del Parlamento europeo eletto con voto diretto, il metodo comunitario in luogo di quello intergovernativo previsto da Maastricht.

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→  settembre 8, 2015


Al direttore.

Perché mai la posizione di Angela Merkel sulla Siria dovrebbe essere una “conversione” rispetto quella che aveva avuto sulla Grecia, metafora di un cambio sia di rotta su una “strada lastricata di buone intenzioni” sia, Dio ne scampi, di confessione religiosa, proprio non lo capisco. Se a dirlo sono quelli che, se neghi gli eurobond sei un sadico strangolatore dell’Europa del sud, e se hai il bilancio in pareggio hai tendenze naziste, non ci sarebbe da spenderci tempo: ma nell’articolo di Giuliano Ferrara quella parolina mi ha colpito. Che sia per contrasto con la soddisfazione di vedere (ancora una volta) tanto autorevolmente espressa la necessità di intervenire là dove divampano gli incendi che fanno fuggire la gente, come avevo azzardato sul Foglio fin dall’inizio di maggio? Neppure a Franco Venturini possono essere attribuiti pregiudiziali antitedesche, ma è esplicito: “Berlino”, scrive, sul Corriere di venerdì, “riconquista la sua credibilità morale messa a dura prova dalla linea intransigente nei confronti del dramma socio-finanziario greco”.

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→  luglio 14, 2015


Articolo collegato di di Albero Alesina e Francesco Giavazzi

Le discussioni sul caso greco sempre più riflettono ideologia e stereotipi, un approccio che certo non aiuta a capire che cosa sia davvero accaduto. Alcuni numeri forse possono servire. Nel 1995 il reddito pro capite greco era il 66 per cento di quello tedesco. Nel 2007, l’anno prima dell’inizio della crisi finanziaria mondiale, era l’80,5 per cento (Commissione europea, Statistical Annex, primavera 2015). Un risultato straordinario – pochi Paesi riescono ad arricchirsi tanto rapidamente – e che dovrebbe imbarazzarci: nello stesso periodo l’Italia anziché guadagnare posizioni rispetto alla Germania ne ha perse, arretrando (sempre in termini di reddito pro capite) dal 95 al 90 per cento. Nei primi anni, fino al 2005, l’aumento del reddito pro capite greco è stato sostenuto da una crescita della produttività dell’economia, che aumentava di circa il 2 per cento l’anno, oltre il doppio della crescita della produttività tedesca.
Tutto cambia dopo il 2005 quando la produttività inizia a scendere, perdendo mezzo punto l’anno fra il 2005 e il 2010. Maggior reddito senza un corrispondente aumento della produttività si può ottenere solo indebitandosi. E infatti fra il 2000 e il 2010, l’anno del primo salvataggio, la Grecia ha speso ogni hanno (a debito) oltre il 10 per cento in più di ciò che produceva. Il risultato è che in quel periodo il debito salì dal 100 al 146 per cento del Pil. Insomma quegli anni sono stati per molti greci una grandiosa festa di consumi e di vacanze (pensionamenti a cinquantenni). Se quei prestiti fossero invece stati impiegati in investimenti produttivi, e ci fosse stata qualche liberalizzazione, oggi la Grecia sarebbe in grado di ripagarli e il reddito pro capite sarebbe ben piu alto di quello che è. Invece sono stati spesi in consumi, privati (grazie ad un’evasione fiscale endemica dei ricchi) e soprattutto pubblici.
Anche le Olimpiadi del 2004 hanno contribuito, ma per una quota minore: 11 miliardi di euro, un quinto del debito contratto negli anni precedenti le Olimpiadi. E chiusi i Giochi, che nessuno obbligò la Grecia ad organizzare, il Paese ha continuato imperterrito a indebitarsi. È vero che la Grecia ha una spesa militare elevata (più dell’Italia e della Germania, ma meno di Francia e Regno Unito in rapporto al Pil), che in parte va in acquisti di materiale militare all’estero. Ma nel 2009, ad esempio, a fronte di un indebitamento complessivo di 36 miliardi di euro le importazioni di materiale militare furono (solo) 2 miliardi: un quarto dalla Germania, un quarto dalla Francia, il resto dagli Stati Uniti.
Dal 2010, il costo della crisi è stato molto elevato. Il reddito pro capite, che come detto aveva raggiunto oltre l’80 per cento di quello tedesco, è oggi arretrato al 60, inferiore persino al livello del 1980, l’anno prima che la Grecia entrasse nell’Unione Europea. Sarebbe stato meglio fare default totale (non parziale come accadde) e uscire dall’euro allora? Forse, ma non lo sapremo mai con certezza. La Grecia è un’economia molto chiusa: esporta non più del 25 per cento di quanto produce contro il 30 per cento dell’Italia e il 45 per cento della Germania.
La svalutazione, anche se non si fosse tradotta tutta in maggiore inflazione, avrebbe aiutato meno che altrove. Le ripercussioni finanziarie sulle banche, sul credito e quindi sull’economia di un default e di un’uscita dall’euro erano imprevedibili. Il pericolo di contagio nel 2010 era altissimo, ricordiamoci i tassi al 6-7 per cento sul debito italiano che pagavamo nel 2011. Quei tassi costrinsero il governo Monti a politiche di austerità urgenti che si tradussero (purtroppo) in un aumento di imposte. Un contagio generalizzato poteva innescare una seconda crisi finanziaria.
Certo dal 2010 ad oggi la Grecia ha pagato caro i suoi errori. Ma un luogo comune (sbagliato) è che la Grecia in questi ultimi anni sia stata soffocata dal peso degli interessi sul debito. Dal 2010 al 2014 la Grecia ha continuato a ricevere dai Paesi europei, dalla Bce e dal Fondo monetario un flusso netto positivo di aiuti, cioè più denaro di quanto dovesse pagarne in interessi sul suo debito estero (Ken Rogoff e Jeremy Bulow, www.vox.eu). Solo quest’anno, dopo che Tsipras ha arrestato il processo di riforme, il flusso netto è diventato negativo. E con esso la crescita. Dopo anni di recessione la Grecia nel 2014 aveva ricominciato a crescere: quest’anno il segno è di nuovo negativo.
Questi sono i numeri. Il resto è ideologia e politica. Se la Grecia geograficamente si trovasse al posto del Portogallo, anziché nel mezzo del Mediterraneo fra Siria e Turchia, sarebbe già fuori dall’euro. Conoscendo bene la geografia politica Tsipras l’ha usata per cercare di ricattare l’Europa. Gli è andata male. Se farà quanto domenica notte si è impegnato a fare è improbabile che il suo governo sopravviva. La Grecia forse sì, se un altro governo ci riuscirà. In quel piano ci sono quasi tutte le riforme che da anni il Paese avrebbe dovuto fare e non ha mai fatto, dalle liberalizzazioni alle privatizzazioni (il cui ricavato verrà destinato ad un fondo speciale sotto il controllo dei creditori, in modo che i greci non possano spenderlo) alla riforma del sistema fiscale e della giustizia civile. C’è anche la promessa implicita, dei creditori, ad allungare la scadenza del debito e ridurne gli interessi, cioè a tagliarlo significativamente.
Funzionerà tutto questo o tra sei mesi saremo al punto di oggi? Il risultato del referendum del 5 luglio non lascia ben sperare, ma stiamo a vedere.

→  luglio 14, 2015


Articolo collegato di Carlo De Benedetti

Siamo sicuri che quella di cui stiamo parlando da mesi sia la crisi greca? E se fosse la crisi tedesca? Per chi resta convinto che il nostro futuro è più che mai legato al sogno di un’Europa autenticamente unita, è quest’ultima la vera questione che andrebbe messa in primo piano, è l’incapacità di Berlino di porsi al livello della responsabilità alta che la storia europea gli assegna in questo inizio di millennio.
Non sottovaluto le responsabilità della Grecia, con tutte le relative implicazioni di natura economica e politica. Anzi, ritengo che il dovuto rispetto per la storia europea di questo straordinario Paese, non debba impedirci di affermare nel modo più netto che i vari governi che si sono succeduti da quando Atene ha chiesto di entrare nell’Euro (errore grave averla ammessa) si sono dimostrati distrosi. Tutti, senza eccezioni. A parte le menzogne sui conti e i trucchi contabili, l’inesistenza di un sistema fiscale degno di questo nome, un sistema pensionistico troppo generoso rispetto alle risorse del paese, la totale incomprensione delle responsabilità che l’ingresso nell’euro, e ancor prima le grandi trasformazioni dell’economia mondiale, comportavano sono tutte colpe gravi ascrivibili alla classe dirigente greca.
Anche il referendum indetto a sorpresa da Tsipras, oltre ad essere stato ingannevole rispetto ai problemi reali del paese, è stato di fatto un ulteriore provocazione verso l’Europa. La Grecia, del resto, non è “nuova” a questi referendum “sbagliati”: 95 anni fa un’altra consultazione popolare segnò un’analoga impennata di orgoglio nazionale che ebbe conseguenze altrettanto disastrose. Era il 1920 e la Grecia si trovava in guerra con la Turchia. Come scrive Ureneck, l’autore di un bel libro sulla distruzione di Smirne, la disfatta greca cominciò con un morso di scimmia inferto al giovane re greco Alessandro I, mentre passeggiava nel suo giardino. L’infezione che ne seguì portò alla morte del sovrano, poco prima delle elezioni. Si tenne allora un referendum in cui i Greci decisero (con una maggioranza che oggi si direbbe bulgara) di richiamare al trono il padre di Alessandro, Costantino I, che era filo-tedesco (sua moglie era la sorella del Kaiser Guglielmo). Gli alleati americani e inglesi informarono Atene che se Costantino fosse tornato sul trono la Grecia non avrebbe più ricevuto aiuti, così fu, e da allora il paese si avvitò in una crisi ancora peggiore di quella di oggi.
Adesso come allora, e forse come conseguenza di allora, i Greci sono pronti a pagare un prezzo altissimo per riaffermare il loro orgoglio nazionale e la loro sovranità. Ma la crisi greca, che ha origini così lontane, ha palesato la debolezza dell’Unione Europea e, soprattutto, la grave crisi politica e di leadership della Germania. Occasione storica quella che ha la Germania, occasione che qualunque leader politico aspirerebbe ad avere: quella di porsi alla guida della nascita di un verso soggetto politico unitario europeo, uno di quei passaggi che la storia ricorda.
Ma questo sembra non interessare a Berlino, non sembra essere questa l’ambizione di un ceto dirigente chiuso in un pragmatismo del qui ed ora.
La realtà è che in Germania è in corso una dura lotta politica per la successione di Angela Merkel. Una cancelliera che si è dimostrata certamente una negoziatrice determinata e capace di trovare comunque una via d’uscita finale, una buona interprete dei fumi delle birrerie tedesche, ma certo non una leader come la Germania ci ha offerto nel dopoguerra con figure come Adenauer, Schmidt, Kohl. Qui torna in mente il conflitto che ancora attanaglia la Germania e che Thomas Mann aveva evocato nel suo discorso nella prima riunione del parlamento tedesco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In quell’occasione, come tutti ricordano, il grande scrittore auspicò, proprio perché conosceva bene il suo paese, una Germania europea anziché una Europa tedesca. Oggi il vero, aspro, confronto in Germania è proprio su questo tema e vede la contrapposizione tra gli integralisti tedeschi Schaeuble e Weidemann e il vicecancelliere e capo del SPD Gabriel. Con quest’ultimo che ha assunto una posizione che non è certo nel solco del pensiero socialdemocratico tedesco, ma che è solo teso a stringere la morsa sulla Merkel.
Bisogna dare atto alla debole figura politica di Hollande di essersi battuto perché le decisioni assunte dall’Unione Europea non fossero vittime della lotta politica interna tedesca. Un compromesso è stato raggiunto. E nelle prossime settimane si verificherà la sua tenuta, tutt’altro che scontata, per le perduranti tensioni all’interno di entrambi i fronti contrapposti, quello greco e quello dell’eurogruppo. Ma, al di là di come voterà il parlamento greco, è stata inferta un’umiliazione profonda a un paese “orgoglioso”. E, quel che è peggio, la forza delle culture politiche nazionali e l’assenza di una leadership politica europea (l’unico leader europeo resta Mario Draghi) hanno rivelato, ancora una volta, l’estrema fragilità dell’Ue. Per chi come me ha pensato, e continua nonostante tutto a pensare che non esista un’alternativa razionale all’Europa, è una sconfitta. Se non vogliamo più il ripetersi di casi Grecia, se non vogliamo che lo spirito europeo si perda in pratiche di waterboarding (secondo la ormai famosa definizione di un funzionario europeo a proposito dell’incontro Merkel-Tsipras), serve camminare con decisione sulla strada della cessione reciproca di pezzi crescenti di sovranità nazionale, nell’obiettivo di un bene superiore, che è il bene comune dell’Europa.
Serve una leadership politica forte perché ciò avvenga. E ci sarebbe da aspettarsela dal paese oggi più forte, che è anche quello del popolo che ha voluto vedere, con i suoi filosofi, un destino e un senso nella storia degli uomini. L’Europa è il nostro destino. Ma i suoi leader, oggi, sembrano averlo dimenticato, smarriti nello sguardo corto di una difesa pragmatica di una supremazia in fondo inutile e rinunciataria.

→  aprile 19, 2015


di Alessandro Plateroti

«Atene ha finito i soldi: senza accordo sulle riforme andrà in default». L’ennesimo penultimatum al governo greco è stato lanciato a Washington dal Fondo Monetario. Ma sono ormai più di 1.800 giorni, almeno 5 anni pieni, che la crisi greca si trascina sulle cronache e sui mercati, esacerbando relazioni politiche e diplomatiche e soprattutto la stabilità dei mercati finanziari.

Nessuna crisi è mai durata tanto. E soprattutto, mai si è assistito a una così profonda e palese incapacità di sintesi da parte delle grandi istituzioni finanziarie internazionali (e degli stessi governi che ne fanno parte) sulla soluzione da adottare. È stato più facile salvare l’Argentina dopo il default, arginare la crisi finanziaria delle «Tigri asiatiche» o rimettere in carreggiata l’Islanda, l’Irlanda, Cipro e persino il Portogallo, che avviare un dialogo costruttivo con la Grecia sul prezzo delle riforme in cambio degli aiuti. E così, dopo 5 anni di vertici a Bruxelles e Francoforte, riunioni tra ministri e primi ministri, tra banchieri e governatori, le domande restano sempre le stesse: la Grecia andrà in default? Che cosa succederà all’euro, ai titoli di Stato e alle Borse se Atene fosse costretta a uscire dall’eurozona? E in tal caso, è davvero ragionevole aspettarsi un «contagio» politico e finanziario della crisi in Paesi come l’Italia e la Spagna? Gli scenari apocalittici abbondano – non c’è politico, economista, o analista che non abbia detto la sua – e la leadership politica europea non sembra in gradi produrre idee oltre le minacce che ogni giorno rivolge alla Grecia. L’unico rimasto ad appellarsi alla ragionevolezza è Mario Draghi. E il problema, forse, è tutto qui: per quanto Draghi si prodighi e per quanto gli stessi creditori della Grecia riuniti nel Gruppo di Bruxelles (Commissione Ue, Fondo Monetario e Bce) abbiano fatto capire a tutti che la riottosità di Atene non è una ragione sufficiente per mandare la Grecia in default e gettare l’eurozona nell’incertezza, è la mancanza di una chiara volontà politica dei grandi azionisti dell’Europa nel cambiare le regole del gioco su riforme e crescita – in primis la Germania centrista della Merkel, ma anche la Francia socialista di Hollande, che come sempre gioca per sè – a rendere precaria la possibilità di chiudere rapidamente e positivamente la crisi. Qui non si tratta più di barattare gli aiuti ai greci con promesse del tutto formali (e inattendibili) su sacrifici e riforme, ma di ammettere con onestà intellettuale che la spinta propulsiva del progetto di integrazione monetaria, politica e fiscale con cui è nata l’Unione europea non c’è più, che la difesa delle rigidità di bilancio imposte oggi dai Trattati e il continuo richiamo alle regole matematiche su cui si decidono le sorti dei Paesi sono quanto di meglio per chi cerca di distruggere l’Europa spacciando l’illusione che isolati si stia meglio. Se non passa questo principio, non solo non si arriverà mai a una soluzione definitiva per la Grecia, ma diventerà praticamente impossibile riavviare il processo di integrazione politica e fiscale su nuove e più solide basi: nella situazione attuale, sarà presto difficile trovare anche un solo politico europeista disposto a inserire nel suo programma una maggiore devoluzione dei poteri a favore di Bruxelles .

Finchè questa svolta non sarà accettata, non ci sarà soluzione alla crisi della Grecia. E neanche ai problemi di Italia e Spagna, i cui titoli di Stato marciano appaiati in un singolare duetto che oggi non preoccupa, ma che nel medio-lungo periodo non promette nulla di buono. Per i mercati il ragionamento è semplice: se Bruxelles non è in grado di salvare la più piccola delle economie europee, figuriamoci che cosa accadrebbe con l’Italia o con Madrid. Risultato: malgrado il Quantitative easing, la liquidità fornita ai mercati si sta distribuendo in modo apparentemente distorto, ma con una logica niente affatto irrazionale: i tassi di Italia e Spagna sono la metà di quelli segnati un anno fa (1,4% contro oltre il 3%), ma sono ben al di sopra dei livelli in cui si trovavano due mesi fa (1,02%) all’avvio del QE; al contrario, i tassi tedeschi sia a lungo sia a breve sono finiti ai minimi storici e oscillano intorno allo zero puntando al negativo. E con la Germania, altri 18 Paesi europei hanno attualmente tassi di interesse sotto zero nella curva a breve-medio termine dei rendimenti, un fenomeno mai riscontrato prima d’ora nella storia dei mercati: in cifre, quasi 1,9 trilioni di miliardi di euro di debito pubblico europeo – dalla Germania alla Finlandia passando persino per la Slovacchia – hanno oggi tassi di interesse negativi. Come dire: chi stava bene sta meglio, ma chi stava male resta in quarantena.

Con un’aggiunta non di poco conto: anche se la Bce ha isolato Bonos e BTp dal rischio di contagio della Grecia – i cui decennali sono volati oltre il 12% e la curva dei rendimenti a breve e lungo è ormai strutturalmente invertita – il mercato non sembra avere alcuna intenzione di esporsi più di tanto sui due pesi massimi della periferia europea: sull’Italia, perchè l’economia è ancora è in recessione e per la difficoltà con cui il Governo Renzi tenta di far passare le riforme; sulla Spagna, perchè il Paese iberico si avvicina alle elezioni politiche con un elettorato dall’europeismo incerto. Così come in Grecia è stata l’a ssenza di una svolta nelle politiche europee a spingere gli elettori verso Tsipras, così anche in Spagna – dove l’economia ha ben altra forza rispetto a quella greca – gli elettori potrebbero affidare il proprio voto all’anti-rigorismo di Podemos, aprendo un nuovo fronte di tensione con l’Europa. In questa situazione, i flussi di capitale – compresi quelli che la Bce sperava di indirizzare verso i titoli di Stato di Italia e Spagna – prendono invece direzioni palesemente più rischiose: basti pensare al fondo sovrano della Norvegia, il più grande del mondo con oltre 870 miliardi di disponibilità: ha tagliato gli acquisti di titoli di Stato europei per comprare i bond della Nigeria, che rendono poco meno del 5%. Persino l’Irak vuole una fetta della torta: pochi giorni fa, ha annunciato l’intenzione di riemettere titoli di Stato.

→  aprile 18, 2015


Qual è la vera consistenza della contrapposizione tra Commissione e Consiglio Europeo da un lato e governo greco dall’altro, che venerdì è tornata a far ballare i mercati con le Borse europee in rosso e lo spread tra Btp italiani e Bund tedeschi che ha lambito quota 150? Si trattasse di una questione economica, in un modo o nell’altro sarebbe già stata risolta: è chiaro che nessuno, tanto meno la cancelliera tedesca Angela Merkel, può accettare di avere più fronti aperti contemporaneamente, e che Ucraina e Stato islamico (Is) hanno peso e urgenza ancora maggiori.

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