→ marzo 18, 2014
Per gli italiani George Soros è quello dell’attacco alla lira, dell’uscita dallo Sme, della svalutazione del 1992. Speculatore con un acuto senso delle linee di faglia dei mercati, filantropo generoso nel diffondere l’idea di società aperta nei Paesi usciti dal comunismo, pensatore con una visione esagerata di sé («Volevo essere un riformatore economico, come Keynes, o meglio ancora, uno scienziato, come Einstein»), Soros è davvero un personaggio singolare. La tragedia dell’Unione europea: disintegrazione o rinascita? è il libro che raccoglie quattro interviste che gli ha fatto Gregor Peter Schmitz, giornalista dello Spiegel; tre nell’estate 2013, l’ultima a dicembre, dopo le elezioni tedesche e il compromesso sull’unione bancaria.
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→ marzo 18, 2014
di Antonio Pilati
Entro marzo un comitato di 11 esperti, presieduto da Gertrude Trumpel-Gugerell e incaricato di studiare le modalità di attuazione dell’impegno di rientro ventennale sotto soglia assunto con il trattato fiscal compact dai Paesi che superano la quota del 60% nel rapporto debito/Pil, dovrà presentare al Presidente della Commissione Ue Barroso le sue proposte operative. Il comitato di esperti, dove non ci sono italiani, sta lavorando su una proposta, avanzata dal German Council of Economic Experts, che prevede di costituire un Redemption Fund dove confluiscono le porzioni di debito degli Eurostati che eccedono la soglia del 60%: il Fondo, in quanto dispone di una garanzia europea, potrà collocare titoli a tassi – è da ritenere – piuttosto bassi. Ritorna l’idea degli eurobond, lanciata da Tremonti e Juncker, poi ripresa e allargata da Prodi e Quadrio Curzio: in apparenza una buona notizia per chi, come l’Italia, sfiora il 133% nel rapporto debito/Pil e quindi potrebbe conferire al fondo europeo di redenzione una quota pari al 73%. In realtà l’idea degli esperti è a doppio taglio e la seconda lama fa molto male all’Italia: è infatti previsto che dal gettito fiscale degli Stati partecipanti si attui ogni anno un prelievo automatico pari a1/20 del debito apportato al Fondo. Nel progetto le risorse raccolte dal fisco nazionale passano in via diretta, tagliando fuori le autorità degli Stati debitori, alle casse del Fondo.
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→ marzo 14, 2014
Review by Ferdinando Giugliano
Nearly five years on from the start of the eurozone crisis, even its most strenuous critics have to admit that things are looking better for the currency union. Bond yields in troubled countries have fallen sharply from the levels reached in 2011. True, public debt is still rising and unemployment, particularly among the under-30s, is still worryingly high. But as the recovery gathers pace, the hope is that the fiscal outlook will improve and companies will resume hiring.
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→ febbraio 22, 2009
di Giuliano Amato
I lettori sanno che io non sono fra quelli che ritengono si possa uscire dalla crisi e costruire un futuro migliore, rimuovendo le sole patologie delle attività finanziarie. C’è anche un problema di economia reale e in particolare di fondamentali squilibri fra economie in surplus ed economie in deficit. Raggiungere perciò migliori equilibri macroeconomici, coordinare di più le stesse politiche valutarie e costruire un mondo trainato non più da una sola locomotiva ma da più locomotive sono terapie che io stesso ritengo essenziali e che ho già suggerito.
Detto questo, però, non si può ignorare il fatto che i guasti finanziari hanno enormemente amplificato i crolli tanto nella finanza che nella stessa economia reale; e che nuovi crolli potrebbero intervenire a breve, se non si saprà uscire con rapidità, e anche con la necessaria, impietosa decisione, dallo stallo in cui si è finiti, ponendo rimedi a quei guasti che si stanno rivelando pericolosamente inadeguati.
Mi limiterò qui a un aspetto, che è tuttavia fra quelli cruciali della vicenda, l’aspetto che riguarda i cosiddetti troubled assets. I lettori ricorderanno che l’iniziale piano con cui si pensò di gestirli, il piano del vecchio ministro del Tesoro americano Henry Paulson, risultò ben presto inefficace. Paulson si proponeva di acquistare i troubled assets dalle banche e dagli altri istituti finanziari che li possedevano, in modo da ripulirne i bilanci e rimuovere così la sfiducia che aveva paralizzato il sistema. Paulson però si accorse presto che di troubled assets ne stavano circolando in quantità e con presunti valori incontenibili nel suo stanziamento di 700 miliardi e che, in ogni caso, sull’accertamento esatto di quei valori ai fini dell’acquisto l’intesa era più che difficile. Il Tesoro pensava infatti di acquistare al prezzo più basso possibile per non inquietare il contribuente che pagava, le banche pensavano che in futuro quegli stessi assets avrebbero potuto recuperare e non erano quindi disposte a svenderli.
Venne accolto allora il consiglio dei tanti che sin dall’inizio avevano suggerito la strada diversa dell’ingresso dello Stato nell’azionariato delle banche o comunque del rafforzamento del loro capitale, che avrebbe rappresentato di per sé una garanzia sia per i risparmiatori che per le future attività creditizie e avrebbe consentito, in altre forme, la ripulitura di cui c’era bisogno. La mossa è stata inizialmente efficace e lo è stata negli Stati Uniti come negli Stati europei che l’hanno adottata: il caso di Lehman Brothers è rimasto isolato. Ma evidentemente non è bastata a restituire al sistema la fiducia di cui aveva bisogno. Intanto non ha riguardato tutti i titolari di troubled assets, ma solo alcuni. E poi non li ha rimossi dalla pancia di nessuno, nessuno è in grado di attestarne il valore e si va avanti così con bilanci di banche e di imprese largamente fondati sulle sabbie mobili, con conseguente volatilità dei corsi azionari e paralisi delle attività.
Non a caso il secondo atto della vicenda, quello interpretato negli Stati Uniti dal nuovo ministro del tesoro, Tim Geithner, prospetta il ritorno alla separazione dei troubled assets, questa volta attraverso un’apposita bad bank. Geithner l’ha proposta, ma in termini tanto vaghi da provocare una profonda delusione e un tonfo ulteriore dei corsi azionari a Wall Street. E come mai la sua proposta è così vaga? Per la stessa ragione per cui aveva fallito Paulson, vale a dire i troubled assets non hanno un valore di mercato e non c’è intesa sul possibile prezzo di acquisto da parte della bad bank.
Ebbene, non si può andare avanti così. Se il nuovo ministro americano, e nqn solo lui, pensa che sia necessario separare i troubled assets, una ragione c’è ed è il timore che organismi tuttora inquinati da questi titoli avvelenati finiranno per morire di setticemia finanziaria e lo faranno magari più presto di quanto comunemente si creda, con terremoti ancora più gravi di quelli sin qui già subiti. Ma se è così, possiamo rimanere prigionieri di questo autentico dilemma del prigioniero attorno al prezzo ignoto del veleno?
Voglio ricordare che, già ai tempi di Paulson, George Soros, che pure gli suggeriva di abbandonare il suo piano iniziale e di entrare invece nell’azionariato delle banche a rischio, suggeriva altresì di trattare i troubled assets sulla base di un valore convenzionale che, in assenza di un valore di mercato, avrebbe fornito l’unica possibile via d’uscita. E anche in questi giorni, in un libro che sta pubblicando (“The Crash of 2008 and What it Means”), Soros ripropone la stessa idea, nel contesto non della creazione di bad banks pubbliche, ma di sidecars creati dalle stesse banche per infilarci i loro titoli illiquidì e ripulire così i loro bilanci.
Io non entro nella scelta fra bad bank e sidecar, anche se preferisco di gran lunga il secondo. Ciò di cui sono convinto sin dall’inizio di questa storia (e l’ho scritto nella mia prima “Lettera” su di essa, sul Sole 24 Ore del 5 ottobre scorso) è che non ne usciremo, perché la fiducia non tornerà, sino a quando i troubled assets non saranno espulsi. E l’unico modo di espellerli è di attribuire loro un valore convenzionale, visto che il mercato non è mai stato in condizione di prezzarli. Ci vuole coraggio per farlo e temo che la ragione per cui Geithner è rimasto nel vago sulla sua bad bank sia proprio che,quel coraggio gli è al momento mancato.
Ma se lo deve far venire e con lui se lo devono far venire i suoi colleghi del G-7 e oltre. Non si facciano troppi scrupoli. Chi ha messo in circolazione quei titoli, chi li ha impacchettati o reimpacchettati e li ha fatti ulteriormente circolare non merita particolare benevolenza. Si stabilisca un valore sufficientemente prossimo allo zero da non sprecare i soldi del contribuente nel caso li si volesse usare per comprarli. E lo si stabilisca tuttavia a un livello che non azzeri la capitalizzazio-ne delle banche. In ogni caso, se soldi pubblici dovessero servire, meglio usarli per ricapitalizzare banche pulite, che spenderne molti per comprare le loro porcherie. Se poi, in futuro, quegli stessi titoli avessero un valore, lo si potrebbe sempre ritornare ai portafogli da cui vengono.
So che ci sono delle domande a cui bisogna rispondere e la prima riguarda i titoli da includere: quelli inizialmente acquisiti “over thè counter” e cioè con prezzo non di mercato, quelli sostenuti da mutui-casa fragili, gli swaps che hanno ad oggetto i medesimi titoli, i pacchetti che includono o gli uni o gli altri?
Qui non ho la risposta, so solo che quando si è costretti a usare l’accetta, la si usa nel modo più oculato possibile, ma l’importante è tagliare i rami che possono cadere sulla testa di tutti. Altrimenti di lì nessuno tornerà a passarci. E noi, impotenti davanti agli irresponsabili che l’hanno scatenata, resteremo paralizzati nella crisi più grave degli ultimi decenni.
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