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Archivio per il Tag »Franco Debenedetti«

→  novembre 14, 2023


di Franco Debenedetti e Carlo Stagnaro

Se i fatti cambiano, ne prendo atto e cambio idea”: è con queste parole attribuite a John Maynard Keynes che Francesco Giavazzi ha consegnato domenica al Corriere della Sera la sua riflessione sulla politica industriale. L’ex consigliere economico di Mario Draghi ne è sempre stato un fiero avversario, ma – dice – adesso il gioco è cambiato a causa delle aggressive politiche espansionistiche della Cina e dell’Inflation Reduction Act americano. A noi sembra invece che gli argomenti citati da Giavazzi confermino la bontà della sua visione precedente, e certo non giustificano l’adesione alla scuola di Mariana Mazzucato.

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→  marzo 15, 2021


Intervista di Matteo Martinasso

La ripresa della crescita dipenderà dall’aumento della produttività, ma per il rilancio c’è molto da correggere

Che ruolo hanno davvero le imprese nella società? Perseguire gli utili in un mondo sconvolto da crisi ambientali e pandemie è immorale o, al contrario, è proprio questa l’unica loro vera responsabilità? Prova a dare una risposta l’ingegner Franco Debenedetti che nel suo ultimo libro Fare profitti (edizioni Marsilio) guida i lettori attraverso un’analisi dell’etica dell’impresa. «L’impresa è l’unità base dell’economia capitalistica, potremmo dire il suo “mattoncino di lego”. Ad essa viene assegnata la responsabilità di creare ricchezza, producendo beni e servizi che la società vuole comprare a un prezzo superiore a quello degli imput necessari a produrli», spiega Debenedetti. «Questo surplus è il profitto, e i profitti di tutte le imprese formano la ricchezza della nazione. La pandemia distrugge ricchezza quindi a maggior ragione è necessario che le imprese che possono farlo lavorino e producano profitti, perché quelle che non ci riescono chiudono e chi vi lavorava al suo interno perde il proprio lavoro».

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→  marzo 11, 2021


di Alessandro De Nicola

«The business of business is business » , con questa frase icastica il Nobel Milton Friedman riassunse la missione delle imprese: fare affari, punto e basta. Il libro Fare profitti. Etica dell’impresa di Franco Debenedetti, imprenditore, parlamentare per tre legislature e oggi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, prende le mosse proprio dal famoso saggio di Friedman, pubblicato circa 50 anni fa il cui titolo era Le responsabilità sociale delle aziende consiste nel far crescere i profitti.

Debenedetti ricorda che i fautori della dottrina della Corporate Social Responsability sostengono che scopo dell’impresa sia di perseguire anche fini sociali, tal che i manager dovrebbe contemperare l’interesse degli azionisti (espresso dalla locuzione shareholder value) con quello di chi si trova in rapporto con la società, i cosiddetti stakeholders, ossia i dipendenti, i clienti, i fornitori, le comunità locali, la cittadinanza che ha diritto a un ambiente pulito, e così via.

Friedman replicò che il dovere dell’impresa era di produrre ricchezza e quindi profitti, “nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia incorporate nelle sue leggi, sia dettate dai suoi costumi etici”. Rispettare le regole del gioco voleva altresì dire “entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi”. Per l’economista fare diversamente avrebbe messo in condizione i manager di “tassare” i soci per perseguire le cause sociali preferite le cause sociali preferite o peggio quelle che avrebbero solo accresciuto il loro ego. Anzi, dovendo accontentare molti padroni e molte finalità, l’amministratore di società avrebbe sempre potuto dire che si era trovato costretto a sacrificare un obiettivo (lo shareholder value) per perseguirne un altro (il reddito del fornitore, la diversity, l’inclusione, il clima). In poche parole, non avrebbe più risposto a nessuno pur agendo con soldi altrui.

Inoltre, gli azionisti di una società sono portatori “residuali” di diritti, vale a dire sono soddisfatti solo dopo tutti gli altri stakeholder. Come nota Debenedetti, ai clienti (e ai fornitori) ci pensa la concorrenza (e i contratti); delle esternalità (l’inquinamento, la più importante) si occupano le norme e la regolazione; dei dipendenti si curano i sindacati e gli accordi individuali o collettivi. È per questo che gli amministratori hanno i cosiddetti “doveri fiduciari” nei confronti dei soci i quali, peraltro, sono coloro i quali li nominano.

Il libro passa in rassegna le critiche nel corso del tempo indirizzate a Friedman, ma alla fine non le trova convincenti. La giurista Lynn Stout, ad esempio, nega l’assunto che gli azionisti siano i proprietari della società e che quindi gli amministratori debbano curarne prioritariamente gli interessi. Ammesso che sia vero, l’obiezione è semplicissima: come si pensa di convincere gli investitori a metter soldi nelle imprese se ex ante sanno che la protezione dell’investimento non è prioritaria? Zingales, poi, riconosce la validità dello shareholer value di Friedman, ma in un contesto in cui non ci siano monopoli e le imprese non si diano a pratiche lobbystiche e quindi propone di instaurare dovrei fiduciari aggiuntivi per gli amministratori, rendendoli responsabili personalmente se l’impresa inquina, influenza i legislatori o abusa del potere di monopolio. Tuttavia, regole simili già esistono e, d’altronde, una necessariamente vaga “proibizione” alle imprese di “influenzare il processo legislativo” pone seri problemi di costituzionalità (per la corruzione c’è già il codice penale).

Il volume di Debenedetti ragiona sul come evitare che in nome di una piuttosto fumosa responsabilità sociale si creino commistioni inutili o dannose. Significative, a questo proposito, le pagine di critica all’intervento delle Banche Centrali nelle questioni climatiche. Il surriscaldamento terrestre è la sfida più importante dell’umanità e le imprese possono influenzare un percorso positivo, ma con che mandato e competenza lo farebbero le Banche Centrali? In conclusione, in questo saggio, in cui la teoria si intreccia all’attualità, domina preponderante il proverbio milanese “Ofelè fa el to mesté!”. Pasticciere, fa il tuo mestiere: se persino un torinese doc lo adotta, un motivo ci sarà.

→  marzo 2, 2021

Lunedì 1 marzo 2021 alle 15:30 la Fondazione Ugo La Malfa ha ospitato la presentazione del nuovo volume “Fare profitti. Etica dell’impresa» di Franco Debenedetti.
Con il suo libro Franco Debenedetti propone un viaggio al cuore dell’impresa per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia.
Sono intervenuti:
Franco De Benedetti, Presidente Istituto Bruno Leoni
Stefano Fassina, Parlamentare, Camera dei Deputati
Alessandro Penati, Economista
Ha moderato:
Giorgio La Malfa, Presidente, Fondazione Ugo La Malfa

→  marzo 2, 2021


In questo nuovo incontro di Fondazione Corriere della Sera, Franco Debenedetti, presidente dell’ Istituto Bruno Leoni, Luca Enriques, professore di Diritto societario presso l’ University of Oxford, Francesco Giavazzi, professore ordinario di Economia politica all’ Università Bocconi e Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, discutono dell’ultimo libro di Franco Debenedetti, Fare profitti. Etica dell’impresa pubblicato da Marsilio.

→  febbraio 26, 2021


di Ernesto Auci

Nel suo recente libro “Fare profitti – Etica dell’impresa”, edito da Marsilio, l’ex senatore della sinistra ed ex manager Franco Debenedetti sostiene che il compito di un’impresa non è quello di distribuire dividendi sociali ma di fare correttamente il mestiere di generatore di profitti

La crisi dei subprime nel 2008 e più ancora l’esplosione della pandemia del Covid hanno provocato un diffuso senso di sfiducia nei confronti del mercato, del capitalismo, del modo di operare delle grandi imprese. È diventato quasi un luogo comune criticare il mercato quale responsabile di eccessi speculativi ed incapace di autoregolarsi, contrariamente a quello che sostengono i liberisti. Si moltiplicano gli studi che invocano un cambiamento radicale del capitalismo, che secondo alcuni deve essere salvato dall’avidità degli stessi capitalisti e secondo altri imbrigliato da una più penetrante presenza dello Stato anche nella gestione diretta delle imprese. È stato in particolare messo sotto accusa quello che viene definito il “mito” basato sul famoso articolo di Milton Friedman del 1970, secondo il quale il fine esclusivo della società per azioni deve essere quello di creare profitti per i soci.

Negli ultimi anni si sono susseguite prese di posizione e manifesti firmati da tanti top manager (da quella della Business Roundtable a quello del Forum di Davos del 2020) per affermare che scopo dell’impresa non è solo quello di produrre utili per gli azionisti ma è quello più generale di soddisfare gli interessi dell’intera comunità nella quale l’impresa vive, dai propri dipendenti ai fornitori, passando per il rispetto dell’ambiente e l’attenuazione delle diseguaglianze. Insomma, bisogna mandare in soffitta l’idea di Friedman, e cioè quella dello shareholder value, per passare ad un più vasto panorama di interessi rappresentato dagli stakeholder.

Un dibattito molto complesso, ricco di conseguenze sociali e politiche che vede schierati contro lo shareholder value i pesi massimi della cultura e della politica mondiale, da Joe Biden a Papa Francesco, per arrivare a uno stuolo di professori e di giornalisti influenti. Molti manager per cercare di arginare la marea montante della sfiducia verso le imprese hanno deciso di cavalcarla ritenendo in questo modo di rinnovare la propria reputazione e quindi conquistare fette di mercato (e continuare a fare profitti). Questo non esclude la buona fede di quanti nel dirigere un’impresa si rendono conto che bisogna non solo rispettare le regole scritte ma anche quelle morali, ricercando maggiore sintonia con la pubblica opinione, facendo cose comunque apprezzabili come la salvaguardia dell’ambiente, il miglioramento della formazione professionale e culturale dei propri dipendenti o promuovendo una sanità più efficiente.

Chi riesce a mettere a fuoco con dovizia di dettagli la complessa questione del funzionamento delle società per azioni e dei mercati, sottolineando i rischi che si corrono nell’inseguire le suggestioni irrazionali, è Franco Debenedetti che ha appena pubblicato uno studio davvero completo sulla funzione delle aziende, sui nuovi miti che si stanno costruendo per placare le ansie della pubblica opinione e sulle conseguenze perverse a cui potrebbe portare la loro pratica applicazione. Il volume, edito da Marsilio, si intitola, con chiaro intento polemico “Fare profitti – Etica dell’impresa”.

Il punto centrale del ragionamento di Debenedetti si potrebbe riassume così, in accordo con quanto ha sostenuto Luigi Zingales: le degenerazioni che ci sono state nelle scelte manageriali devono essere corrette con strumenti adeguati e non con imposizioni esterne irrealistiche o con un incremento dell’intervento dello Stato come gestore di aziende che alla fine, deviando il ruolo delle imprese verso la ricerca di un dividendo politico, provocherebbe una riduzione del benessere complessivo dei cittadini, cioè proprio degli stakeholder che si vorrebbe proteggere. Insomma, i Governi non sono la soluzione, ma parte del problema.

Le principali accuse che vengono mosse alle imprese che hanno come obiettivo solamente la massimizzazione del profitto per i propri azionisti sono due. La prima è che si è sempre più puntato a conseguire risultati a breve termine avendo di mira non solo il bilancio annuale, ma addirittura il rendiconto trimestrale con danno per lo sviluppo a lungo termine dell’azienda e dell’intera economia; la seconda è quella di aver creato delle diseguaglianze enormi e insostenibili per la coesione sociale. Per questo, secondo molti studiosi, le imprese dovrebbero cambiare il loro obiettivo puntando sulla Corporate social responsability.

Debenedetti dimostra con analisi ampie e convincenti che entrambe queste accuse non corrispondono alla realtà. Non si deve confondere diseguaglianza con povertà. Soprattutto non sembra che le diseguaglianze derivino da patrimoni ereditati, cioè che esista una casta di ricchi chiusa in se stessa che impedisce la mobilità sociale. Infatti negli Stati Uniti la percentuale del patrimonio ereditato su quello totale tra i miliardari è scesa costantemente dal 50% nel 1973 al 30% nel 2014. Il problema, quindi, non è tanto quello di politiche redistributive, quanto quello di creare lavori che abbiano promettenti capacità di carriera e la possibilità di mantenere sempre aperti i corridoi per le ascese sociali. Ci vogliono quindi politiche capaci di mantenere una società competitiva e liberamente concorrenziale.

Gli ultimi due capitoli del libro sono dedicati principalmente alla situazione italiana, dove predomina un’antica cultura anti-mercato, anti-concorrenza, e a favore dell’intervento dello Stato che sovente crea monopoli che sono duraturi, a differenza di quelli creati dal mercato (ad esempio in seguito all’introduzione di una tecnologia innovativa) che sono invece transitori. Ora per la prima volta dopo molti anni il nuovo presidente del Consiglio Mario Draghi, nel programma presentato al Parlamento, ha esplicitamente richiamato la disciplina della concorrenza e la necessità di imporre dei limiti al perimetro degli interventi statali. Speriamo bene.