Franco Debenedetti. Due lingue, due vite. I miei anni svizzeri. 1943-1945
di Franco Debenedetti
2024, Marsilio Arte
Due lingue: l’altra è il tedesco. Lo imparai per poter frequentare la prima e la seconda ginnasio di Lucerna, la città in cui vissi i miei anni svizzeri, da dicembre 1943 a luglio 1945.
Averlo imparato ha cambiato la mia vita, alla Kantonsschule incominciò il pellegrinaggio laico, mai poi interrotto, in una cultura conosciuta ed amata attraverso la sua lingua: da Goethe a Schiller, da Thomas Mann a Thomas Bernhard, ma anche, per estensione, da Bach a Schönberg, da David Kaspar Friedrich ad Anselm Kiefer. Fu col tedesco, che il bambino che riempiva i suoi diari con perfetta calligrafia infantile, diventò un adolescente sulle orme di un Wilhelm Meister.
Anche l’altra metà del titolo deriva da quella esperienza: Thomas Mann, nel Doctor Faustus, la mette in bocca ad Adrian Leverkühn, in cui egli personifica l’inventore della musica dodecafonica,: “in quegli anni la vita scolastica coincide con la vita stessa, l’una vale l’altra”.
Se i fatti cambiano, ne prendo atto e cambio idea”: è con queste parole attribuite a John Maynard Keynes che Francesco Giavazzi ha consegnato domenica al Corriere della Sera la sua riflessione sulla politica industriale. L’ex consigliere economico di Mario Draghi ne è sempre stato un fiero avversario, ma – dice – adesso il gioco è cambiato a causa delle aggressive politiche espansionistiche della Cina e dell’Inflation Reduction Act americano. A noi sembra invece che gli argomenti citati da Giavazzi confermino la bontà della sua visione precedente, e certo non giustificano l’adesione alla scuola di Mariana Mazzucato.
La ripresa della crescita dipenderà dall’aumento della produttività, ma per il rilancio c’è molto da correggere
Che ruolo hanno davvero le imprese nella società? Perseguire gli utili in un mondo sconvolto da crisi ambientali e pandemie è immorale o, al contrario, è proprio questa l’unica loro vera responsabilità? Prova a dare una risposta l’ingegner Franco Debenedetti che nel suo ultimo libro Fare profitti (edizioni Marsilio) guida i lettori attraverso un’analisi dell’etica dell’impresa. «L’impresa è l’unità base dell’economia capitalistica, potremmo dire il suo “mattoncino di lego”. Ad essa viene assegnata la responsabilità di creare ricchezza, producendo beni e servizi che la società vuole comprare a un prezzo superiore a quello degli imput necessari a produrli», spiega Debenedetti. «Questo surplus è il profitto, e i profitti di tutte le imprese formano la ricchezza della nazione. La pandemia distrugge ricchezza quindi a maggior ragione è necessario che le imprese che possono farlo lavorino e producano profitti, perché quelle che non ci riescono chiudono e chi vi lavorava al suo interno perde il proprio lavoro».
«The business of business is business » , con questa frase icastica il Nobel Milton Friedman riassunse la missione delle imprese: fare affari, punto e basta. Il libro Fare profitti. Etica dell’impresa di Franco Debenedetti, imprenditore, parlamentare per tre legislature e oggi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, prende le mosse proprio dal famoso saggio di Friedman, pubblicato circa 50 anni fa il cui titolo era Le responsabilità sociale delle aziende consiste nel far crescere i profitti.
Debenedetti ricorda che i fautori della dottrina della Corporate Social Responsability sostengono che scopo dell’impresa sia di perseguire anche fini sociali, tal che i manager dovrebbe contemperare l’interesse degli azionisti (espresso dalla locuzione shareholder value) con quello di chi si trova in rapporto con la società, i cosiddetti stakeholders, ossia i dipendenti, i clienti, i fornitori, le comunità locali, la cittadinanza che ha diritto a un ambiente pulito, e così via.
Friedman replicò che il dovere dell’impresa era di produrre ricchezza e quindi profitti, “nel rispetto delle regole fondamentali della società, sia incorporate nelle sue leggi, sia dettate dai suoi costumi etici”. Rispettare le regole del gioco voleva altresì dire “entrare in concorrenza aperta e libera con gli altri soggetti presenti sul mercato, senza inganni o frodi”. Per l’economista fare diversamente avrebbe messo in condizione i manager di “tassare” i soci per perseguire le cause sociali preferite le cause sociali preferite o peggio quelle che avrebbero solo accresciuto il loro ego. Anzi, dovendo accontentare molti padroni e molte finalità, l’amministratore di società avrebbe sempre potuto dire che si era trovato costretto a sacrificare un obiettivo (lo shareholder value) per perseguirne un altro (il reddito del fornitore, la diversity, l’inclusione, il clima). In poche parole, non avrebbe più risposto a nessuno pur agendo con soldi altrui.
Inoltre, gli azionisti di una società sono portatori “residuali” di diritti, vale a dire sono soddisfatti solo dopo tutti gli altri stakeholder. Come nota Debenedetti, ai clienti (e ai fornitori) ci pensa la concorrenza (e i contratti); delle esternalità (l’inquinamento, la più importante) si occupano le norme e la regolazione; dei dipendenti si curano i sindacati e gli accordi individuali o collettivi. È per questo che gli amministratori hanno i cosiddetti “doveri fiduciari” nei confronti dei soci i quali, peraltro, sono coloro i quali li nominano.
Il libro passa in rassegna le critiche nel corso del tempo indirizzate a Friedman, ma alla fine non le trova convincenti. La giurista Lynn Stout, ad esempio, nega l’assunto che gli azionisti siano i proprietari della società e che quindi gli amministratori debbano curarne prioritariamente gli interessi. Ammesso che sia vero, l’obiezione è semplicissima: come si pensa di convincere gli investitori a metter soldi nelle imprese se ex ante sanno che la protezione dell’investimento non è prioritaria? Zingales, poi, riconosce la validità dello shareholer value di Friedman, ma in un contesto in cui non ci siano monopoli e le imprese non si diano a pratiche lobbystiche e quindi propone di instaurare dovrei fiduciari aggiuntivi per gli amministratori, rendendoli responsabili personalmente se l’impresa inquina, influenza i legislatori o abusa del potere di monopolio. Tuttavia, regole simili già esistono e, d’altronde, una necessariamente vaga “proibizione” alle imprese di “influenzare il processo legislativo” pone seri problemi di costituzionalità (per la corruzione c’è già il codice penale).
Il volume di Debenedetti ragiona sul come evitare che in nome di una piuttosto fumosa responsabilità sociale si creino commistioni inutili o dannose. Significative, a questo proposito, le pagine di critica all’intervento delle Banche Centrali nelle questioni climatiche. Il surriscaldamento terrestre è la sfida più importante dell’umanità e le imprese possono influenzare un percorso positivo, ma con che mandato e competenza lo farebbero le Banche Centrali? In conclusione, in questo saggio, in cui la teoria si intreccia all’attualità, domina preponderante il proverbio milanese “Ofelè fa el to mesté!”. Pasticciere, fa il tuo mestiere: se persino un torinese doc lo adotta, un motivo ci sarà.
Lunedì 1 marzo 2021 alle 15:30 la Fondazione Ugo La Malfa ha ospitato la presentazione del nuovo volume “Fare profitti. Etica dell’impresa» di Franco Debenedetti.
Con il suo libro Franco Debenedetti propone un viaggio al cuore dell’impresa per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia.
Sono intervenuti:
Franco De Benedetti, Presidente Istituto Bruno Leoni
Stefano Fassina, Parlamentare, Camera dei Deputati
Alessandro Penati, Economista
Ha moderato:
Giorgio La Malfa, Presidente, Fondazione Ugo La Malfa
In questo nuovo incontro di Fondazione Corriere della Sera, Franco Debenedetti, presidente dell’ Istituto Bruno Leoni, Luca Enriques, professore di Diritto societario presso l’ University of Oxford, Francesco Giavazzi, professore ordinario di Economia politica all’ Università Bocconi e Dario Di Vico, editorialista del Corriere della Sera, discutono dell’ultimo libro di Franco Debenedetti, Fare profitti. Etica dell’impresa pubblicato da Marsilio.