→ febbraio 25, 2018
La vicenda Embraco conferma quanto diceva il Nobel Samuelson della teoria dei vantaggi comparati di David Ricardo, essere vera ma non banale: confermata da 199 anni, non è tuttora compresa anche da persone intelligenti. I Paesi, dice Ricardo, traggono vantaggio dallo specializzarsi nella produzione dei beni in cui sono più efficienti relativamente ad altri beni: dovrebbero vendere all’estero le eccedenze dei primi, e importare i secondi. Le multinazionali sono tali perché, a differenza dalle aziende puramente esportatrici, hanno messo in pratica la teoria di Ricardo. E sappiamo cosa ha significato questo per la povertà nel mondo. “Gioco al massacro, concorrenza distruttiva, gara al ribasso da cui usciamo tutti impoveriti”, come scrive Federico Rampini? (Embraco i veri padroni del gioco, la Repubblica, 20 Febbraio 2018). Non addossiamo alla vicenda Embraco, oltre alle colpe specifiche che possono esserci, anche quella di una lettura così paradossale, e datata, delle vicende del mondo.
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→ dicembre 3, 2014
diFederico Rampini
L’Europarlamentare Andreas Schwab ora sa cosa bisogna aspettarsi per avere attaccato Google. È al centro di uno scandalo, almeno sui media Usa. La classe politica americana lo sta accusando di conflitto d’interessi. L’eurodeputato tedesco Schwab, cristiano- democratico vicino ad Angela Merkel, nonché firmatario della risoluzione parlamentare per smantellare Google, è anche consigliere di uno studio legale che difende gli editori anti-Google. Da che pulpito viene la lezione sul conflitto d’interessi? Gli Stati Uniti hanno abbassato la guardia su quel fronte, dopo la sentenza della Corte suprema che liberalizza i finanziamenti alle campagne elettorali: da allora i big del capitalismo americano non hanno più limiti nelle donazioni ai candidati. Gli stessi parlamentari americani che attaccano Schwab, possono avere ricevuto fondi da Google, mascherati nelle scatole opache dei Super-Pac (political action commette). Ma tant’è: a’ la guerre comme a’ la guerre. Tutti i colpi sono permessi, nel conflitto che oppone l’Unione europea a Google. È dai tempi dell’azione antitrust promossa da Mario Monti contro Microsoft che non si assisteva ad uno scontro così duro su un colosso dell’hi- tech americano. A Washington c’è chi minaccia ritorsioni commerciali, si parla di far saltare il negoziato sulla liberalizzazione degli scambi tra le due sponde dell’Atlantico, per reagire alla presunta “aggressione” contro Google.
L’offensiva europea ha diversi aspetti. L’europarlamento ha approvato la mozione Schwab che invoca uno “spezzatino”, lo smembramento di un colosso divenuto troppo potente: ma si tratta di una risoluzione che non ha effetti operativi, né conseguenze immediate. Il voto dell’europarlamento forse incoraggerà altre offensive europee, portate avanti da protagonisti diversi. La Commissione di Bruxelles può rilanciare l’azione antitrust. La Corte di Giustizia ha già obbligato Google a garantire il “diritto all’oblìo” per proteggere la privacy dei cittadini europei che vogliono cancellare notizie diffamatorie dal motore di ricerca. C’è la battaglia sulla webtax. Infine c’è il dibattito sullo spionaggio digitale, scatenato dalle rivelazioni di Edward Snowden, e le contromisure che alcuni governi (Germania in testa) hanno allo studio: anche questo riguarda Google poiché Snowden ha dimostrato il collaborazionismo dell’azienda digitale con la National Security Agency. Che cosa può rischiare Google? Per quanto riguarda eventuali sanzioni antitrust, i precedenti vanno dal miliardo di euro di multa contro Intel ai 3 miliardi di dollari di sanzioni “a rate” su Microsoft. I legali di Eric Schmidt, presidente di Google, temono di poter arrivare fino a 6 miliardi di dollari di sanzioni, oppure il 10% del fatturato globale, se Bruxelles optasse per la linea dura. Dettaglio interessante: tra le “parti lese” che si sono appellate all’antitrust europeo ci sono i concorrenti americani di Google, come Microsoft e Yelp. Convinti evidentemente che sia più facile castigare le prepotenze di Google a Bruxelles anziché a Washington.
Perché l’antitrust europeo può decidere di intervenire contro Google, laddove l’antitrust americano non ne ravvisa la ragione? Le spiegazioni sono tante, la più semplice è questa: il potere monopolistico di Google è effettivamente più accentuato sul mercato euro- peo. Il motore di ricerca creato da Larry Page e Sergey Brin ha quasi il 90% di quota di mercato sul Vecchio continente contro il 68% negli Stati Uniti. Un’altra spiegazione chiama in causa il nazionalismo economico. L’Europa ha una presenza marginale nell’economia digitale. I Padroni della Rete sono tutti americani, nella Silicon Valley californiana o nella sua propaggine settentrionale di Seattle. Les Gafas , come li chiamano i francesi che hanno coniato l’acronimo dalle iniziali di Google Apple Facebook Amazon. L’Europa si sente colonizzata, l’America è la colonizzatrice. Gli approcci sono diametralmente opposti. Il magazine The New Yorker constata la recente alluvione di libri di management scritti da dirigenti di Google: sono idolatrati qui negli Stati Uniti come i nuovi guru del management, i profeti da ascoltare per avere successo. Ho raccontato su queste colonne la mia esperienza ad una presentazione newyorchese del best-seller di Eric Schmidt. La folla di giovani accorsa ad ascoltarlo non era critica, tantomeno ostile: il sogno di un ventenne americano è lavorare per Google (subito dopo Apple). Politicamente questi colossi sono intoccabili. Il Congresso di Washington ha sì promosso un’inchiesta sulla maxielusione fiscale di Google, Apple & C., ma le denunce non hanno avuto un seguito concreto. I repubblicani per definizione stanno coi capitalisti e contro le tasse. I democratici sono destinatari di generosi finanziamenti, la Silicon Valley ha il cuore che batte a sinistra.
Anche in Europa c’è chi prende le distanze dalla “Googlefobia”. Il settimanale The Economist ha dedicato l’ultima inchiesta di copertina ad un’appassionata difesa di Google. Gli argomenti sono quelli classici del neoliberismo: lasciate fare il mercato, ci penserà lui. The Economist ricorda che nessun gigante hi-tech è mai sopravvissuto per più di un ciclo d’innovazioni: gli ex-monopolisti Ibm e Microsoft sono ridotti a campare su nicchie di mercato. Conclusione: gli europei farebbero meglio a creare le condizioni per avere una loro Silicon Valley, un ambiente favorevole all’innovazione e alla crescita di giganti tecnologici, invece di attaccare i successi altrui. Ma l’argomentazione neoliberista ha delle inegnuità. Dimentica il ruolo decisivo dello Stato, proprio qui in America, nel favorire i “campioni nazionali”: è la tesi dimostrata dalla economista Mariana Mazzuccato nella sua celebre ricerca sulle origini pubbliche dell’innovazione (da Internet agli smartphone).
C’è poi la battaglia per la tutela della privacy degli utenti, e delle royalty di chi crea contenuti. Anche questa è più avanzata nell’Unione europea. La spiegazione è semplice: negli Stati Uniti un trentennio di egemonia neoliberista ha cancellato molte conquiste dei consumatori. L’antitrust Usa ha le unghie spuntate da molte Amministrazioni repubblicane. Il consumerismo nacque qui negli anni Sessanta con le battaglie di Ralph Nader, ma da allora i rapporti di forza si sono rovesciati a favore del Big Business. E oggi non c’è nulla di più Big dei Padroni della Rete, Google in testa.