→ aprile 30, 2013
di Ezio Mauro
Il Paese prima di tutto, avevamo detto qualche giorno fa. Oggi possiamo aggiungere: in particolare nei momenti di difficoltà. Ma dove sta il bene del Paese? Proviamo a ragionare, se è ancora possibile fare una discussione serena anche con chi non si riconosce nel pensiero dominante di questa primavera italiana 2013. O almeno col tentativo di usare l’emergenza politica per un cambio di stagione generale e definitivo, che trucchi i conti della piccola storia italiana di questi anni. Non voltando pagina, perché questo accade spesso. Ma riscrivendola.
Tre punti mi sembrano non controversi. 1) – L’Italia è in difficoltà, la crisi dell’economia reale sta sopravanzando il rischio finanziario rivelandosi in tutta la sua gravità per le aziende, per i lavoratori, per la coesione sociale. 2) – Un governo è indispensabile, e chi ha detto il contrario è uno sprovveduto in linea con i populismi vari, che campano spacciando risposte semplici a problemi complessi. La Spagna proprio in questi giorni ha negoziato con Bruxelles due anni in più di tempo per il rientro del deficit, dimostrando che un esecutivo con conti e programmi alla mano può farsi ascoltare in Europa fino a bucare il muro dell’austerity dogmatica. 3) – Dopo aver sfiorato il default finanziario, il sistema ha rischiato il default istituzionale.
E questo perché le tre minoranze uscite dalle urne anche grazie ad una legge sciagurata non sono state capaci di formare una maggioranza di governo, e addirittura non sono riuscite a dare forma all’istituzione suprema, la presidenza della Repubblica. Da qui il corto-circuito che ha portato tre partiti a chiedere a Napolitano di ricandidarsi perché il parlamento era bloccato, accettando nel contempo la richiesta del capo dello Stato di impegnarsi a far nascere un governo, due mesi dopo il voto. Quindi un governo di necessità, una situazione estrema, una soluzione eccezionale fortemente contraddittoria, perché trova unite questa destra e questa sinistra, che si sono contrapposte duramente per vent’anni.
Com’è chiaro, non sono le responsabilità che devono spaventare. Ci sono parecchie cose che non solo si possono, ma si devono fare insieme tra forze politiche molto diverse (Scalfari ha ricordato Togliatti) e riguardano le regole del gioco e le sue varie forme, quindi la legge elettorale, la riduzione del numero dei parlamentari, la correzione del bicameralismo perfetto, il taglio dei costi della politica: tutte misure che potrebbero ridare efficienza alla macchina democratica, ma soprattutto potrebbero avviare un recupero di fiducia nel rapporto in crisi tra partiti, istituzioni e cittadini. Anzi, le politiche di cambiamento e di novità (come la scelta da parte di Enrico Letta del ministro per l’Integrazione Cecile Kyenge) sono l’unica strada per governare la contraddizione politica di questa maggioranza, provare a superarla nei fatti e guardare avanti, ricordando che la premiership viene dal Partito democratico e deve averne il segno.
Il punto in discussione è il tentativo ormai evidente, sistematico, insistito e molto diffuso di vendere un’alleanza di emergenza come uno stato d’animo del Paese, trasformando un governo di necessità in un’opportunità culturale per rimodellare la vicenda storica di questi anni. L’operazione cambia le carte in tavola, e assume un unico punto di vista – quello della destra, con le sue convenienze – come fondamento oggettivo della nuova fase. È evidente a tutti che Berlusconi, giunto terzo alle elezioni, arriva al tavolo delle grandi intese per scelta, con un’opinione pubblica che si sente premiata, una classe dirigente che appare miracolata. Dall’altra parte, il Pd – sconfitto politicamente nel momento in cui prevaleva numericamente – arriva alla condivisione di governo per obbligo, con un’opinione pubblica contraria e frastornata, un gruppo dirigente disorientato e diviso. La sinistra vuole governare per fare poche riforme necessarie, affrontare la crisi del lavoro, rinegoziare la stretta dell’austerity con l’Europa e andare al voto. La destra vuole rilegittimarsi come forza di governo dopo il fallimento del ministero Berlusconi, vuole istituzionalizzare la carica “rivoluzionaria” che aveva in passato portandola dentro il sistema, vuole sacralizzare la figura del suo leader ripulendola dalle troppe macchie degli ultimi anni attraverso un ruolo da padre della Repubblica: senatore a vita, o presidente della convenzione per le riforme. Dunque il governo può durare finche servirà a questo scopo.
In sostanza è come se la destra dicesse al sistema: l’anomalia berlusconiana (composta dalle leggi ad personam e dal rifiuto di accettare il giudizio dei tribunali, dal conflitto di interessi, dallo strapotere economico e mediatico, da una cultura populista che intende il potere eletto dal popolo sovraordinato rispetto agli altri poteri, dunque insofferente per natura speciale ad ogni controllo) è troppo grande e troppo permanente per essere risolta. Il sistema è stremato per lo scontro senza soluzione con la presenza fissa di questa anomalia. Dunque al sistema conviene costituzionalizzarla, introiettandola: ne uscirà in qualche misura sfigurato ma definitivamente pacificato, perché a quel punto tutto troverà una sua nuova deforme coerenza. Per questo, la grande coalizione è un’occasione irripetibile, guai a non sfruttarla ben al di là del governo.
Per arrivare fin qui, al vero scopo, è necessario lavorare sul “contesto”. Ingigantire l’aura di questo governo, parlando di “pacificazione”, di uscita dalla “guerra civile”. Bisogna cioè creare un senso comune accettato che ricrei le basi del confronto politico e rinneghi la lettura di questo ventennio, sia la lettura di destra che quella di sinistra (quella centrista o liberale non conta, perché è sempre al traino della cultura dominante in quel momento). E il senso comune è quello della grande omologazione nazionale, dove si scopre all’improvviso che destra e sinistra sono uguali, le vicende di questi ultimi anni non contano più per gli uni e per gli altri, non hanno lasciato segni nella storia, nella cultura istituzionale, nella piccola vicenda dei partiti, nel loro rapporto che pure è stato per lunghi tratti vivo, vitale e addirittura vivace con le opinioni pubbliche di base.
Ne discendono norme nuove di comportamento, inviti insistenti. Valga per tutti “il principio di realtà”, quindi non le culture di riferimento, gli interessi legittimi che si rappresentano, addirittura gli ideali diversi. No, conta solo la “realtà”, cioè il dato di oggi che prevale sul futuro e sulla storia italiana di questi anni. La politica si conformi. I giornali cambino addirittura tono, abbassando la voce, come se ci fosse un tono prefissato secondo le stagioni di governo, e i toni non fossero ogni volta la reazione a precise azioni dei protagonisti, dichiarazioni, proclami. Il risultato da ottenere è evidente: una grande amnistia culturale deve scendere sul ventennio, non lo si deve più ricordare per non giudicarlo, tutto è alle spalle, tutto si confonde, gli statisti non sono a targhe alterne ma in servizio permanente effettivo.
E qui, il nuovo senso comune ben coltivato porterà all’esito finale di tutta l’operazione: la fine del giudizio penale ancora in corso per definitiva autoconsunzione, in quanto il nuovo clima dominante di conciliazione governante prevarrà sul clima che pretendeva giustizia, o sosteneva per anni la pretesa di volere addirittura la legge uguale per tutti. Giuliano Ferrara lo ha detto lucidamente: la strada maestra per Berlusconi è spingere per la grande politica, “obliterando in questo modo ogni valore morale delle condanne che lo riguardano”. Vale a dire che il nuovo senso comune spodesterà quello precedente, vivo per anni, maggioritario o di minoranza secondo le fase, e tuttavia vivo. Alla fine si presenterà tutto questo come una vittoria della politica, mentre è un’altra cosa. L’abuso semantico e politico, dunque culturale, del concetto di governo di salute pubblica si estenderà prosaicamente alla salute privata di qualcuno. E quando questo clima sarà instaurato, potranno venire come al solito le norme ad personam, visto che a quel punto non sembreranno più un vulnus, ma un esito naturale e accettato.
Nella lettura a reti unificate che i giornali danno della grande intesa, si vedono tutti i segni di questa costruzione complessa che si richiama alla “realtà”, ma che configura un’iper-realtà politica di comodo, addirittura ideologica. È una lettura dalla quale ci discostiamo. Si possono – si devono – fare le cose che servono al Paese, ma salvando il vero principio di realtà, che consiste nel preservare le diverse “visioni sostantive” del Paese, le identità distinte di destra e sinistra, le letture degli ultimi vent’anni che sono state fatte in forme tutt’affatto difformi nei due campi, le due diverse idee dell’Italia. Qui c’è la base di un’onesta responsabilità condivisa, proprio perché qui c’è la coscienza dei limiti dell’emergenza, il rispetto delle pubbliche opinioni, la consapevolezza del fatto che il Paese ha bisogno di una maggioranza e di una minoranza, a cui si deve tornare appena i nodi principali sono stati sciolti. Qui, nelle differenze occidentali, nel rispetto onesto delle diversità, sta la base del futuro scontro elettorale, della ripartenza del Paese e del confronto democratico. Ecco perché tutto questo ci sta a cuore. Perché non tutto è emergenza, e nelle differenze culturali sta il bene del Paese.
→ gennaio 16, 2011
intervista di Ezio Mauro
Marchionne: ma l’intesa Mirafiori non si tocca e verrà estesa. “Nessun diritto intaccato, ma non si può beneficiare di un contratto se non si è contraenti”
TORINO – Dottor Marchionne, lei ha vinto il referendum, ma mezza fabbrica le ha votato contro. Eppure era in ballo il lavoro, il posto, il destino di Mirafiori. Si aspettava questo risultato?”Io so che il progetto della Fiat è passato, perché ha convinto la maggioranza. Questo è ciò che conta. Per il resto, chi è stato qui con me fino alle tre e mezza di notte, venerdì, sa che non ho mai dato il risultato per scontato. Anzi, le confido una cosa. Quando me ne sono andato a casa per provare a dormire (poi sono stato sveglio fino alle sei e mezza del mattino) ho lasciato sul tavolo due comunicati. Uno se prevaleva il sì. L’altro se vinceva il no”.
E davvero in caso di sconfitta la Fiat sarebbe andata via da Mirafiori?
“Non c’è alcun dubbio. E non certo per una ridicola rivincita. Semplicemente, non avremmo avuto altra scelta”.
Ma si possono mettere i lucchetti ad una fabbrica per una sconfitta sindacale, e non per una legge di mercato?
“Ma lei sa quanta legge di mercato ci sarebbe stata dietro quella scelta? Di cosa stiamo parlando? Non è un problema di lucchetti e tantomeno di muscoli. Cosa dovevo fare? Avrei detto venga qui chi vuole, chi è più bravo di me, usi questi spazi per far meglio. Ma io certo non mi sarei seduto a rinegoziare con il sindacato”.
E perché no, se magari si intravedeva la strada di un accordo?
“Perché questo contratto
c’è già a Pomigliano, e io non posso avere due sistemi diversi per la stessa azienda e lo stesso lavoro”.
E adesso che invece ha vinto, non le viene in mente di sedersi a un tavolo e allargare il consenso, recuperando quella metà di fabbrica che non ci sta, come le chiedono in molti?
“Più che altro, io non capisco. Non sono un ingenuo, ma sinceramente non capisco. E’ la logica del retrade, del negoziato continuo per il negoziato, non per arrivare a un risultato. Sono allibito. Mi dispiace, ma sabato mattina alle sei le urne hanno detto che il sì ha avuto la maggioranza. Il discorso è chiuso, anche se dentro quella maggioranza molti cercano il pelo nell’uovo”.
E’ più di un pelo, e lei lo sa bene. Senza gli impiegati il sì sarebbe passato con uno scarto di appena 9 voti. Cosa vuol dire questo?
“Niente. Possiamo esercitarci all’infinito, togliere i lavoratori alti, quelli bassi, quelli coi baffi. Conta il saldo, cioè il risultato, nient’altro”.
Ci sono due questioni dentro quel saldo. Tra i 440 impiegati, 300 sono capi, 40 sono della direzione del personale. Tra gli operai, al Montaggio e alla Lastratura, le lavorazioni in linea dove si scaricano gli effetti delle nuove condizioni di lavoro previste dall’accordo, ha vinto il no. Cosa ne pensa?
“Il referendum non l’ho chiamato io (anche se avrei partecipato volentieri, spiegando ai lavoratori le ragioni dell’accordo) né sono io che ho fatto le regole. Per me Mirafiori ha deciso, e io sto al risultato, che è un risultato molto importante”.
Lei ha detto che è una svolta e una prova di fiducia. Che fiducia, con un lavoratore su due che dice no?
“Senta, se vuole che le dica la mia valutazione non sul risultato, ma sulla campagna che lo ha preceduto, è presto fatto: la Fiom ha costruito un capolavoro mediatico, mistificando la realtà, ma ci è riuscita. Noi, che siamo presenti in tutto il mondo, con una forza di 245 mila persone, ebbene dal punto di vista culturale siamo stati una ciofeca, la più grande ciofeca, e la colpa è soltanto mia”.
Perché?
“Perché ho sottovalutato l’impatto mediatico di questa partita, ho sottovalutato un sindacato che aveva obiettivi politici e non di rappresentanza di un interesse specifico, come invece accade negli Usa. Vede, io sono convinto che le nostre ragioni sono ottime. Ma non sono riuscito a farle diventare ragioni di tutti. Mi sembrava chiaro: io lavoratore posso fare di più se mi impegno di più, guadagnando di più. E invece ha preso spazio la tesi opposta, l’entitlement, e cioè il diritto semplicemente ad avere, senza condividere il rischio. Ma questo va bene per uno statale, non per un’azienda privata che deve lottare sul mercato”.
Non crede che invece a spiegare il 46 per cento di no ci sia la convinzione che l’accordo chiede di scambiare il lavoro coi diritti?
“Lei deve pensare che non siamo fessi, e nemmeno arroganti. Il contratto firmato contiene tutte le protezioni costituzionali. Le dico di più: io, Sergio Marchionne, non voglio togliere nulla di ciò che fa parte dei diritti dei lavoratori. Ma guardi che qui si parla d’altro: la Fiom è scesa in guerra non per i diritti, ma per il suo ruolo di minoranza bloccante, perché qui salta l’accordo interconfederale secondo cui chi non ha firmato beneficia delle protezioni del contratto senza mai impegnarsi a rispettarlo”.
Si può dire in modo opposto: i lavoratori hanno il diritto di scegliersi i rappresentanti che vogliono, e non solo quelli che hanno firmato l’accordo con l’azienda, per di più nominati dai vertici sindacali e non dalla base. Cosa risponde?
“Lo dica pure così, e io le dico che in qualsiasi sistema legale non puoi beneficiare di un contratto se non sei contraente, se non ti metti in gioco e non ti assumi le tue responsabilità di fronte a quelle della controparte. Insomma, non puoi andare a ufo”.
Ma lei cercava la rottura o ha davvero provato a trovare un accordo?
“Perché avrei dovuto volere la rottura? Quel che volevo rompere era questo sistema ingessato, dove tutti sanno che noi imprese italiane siamo fuori dalla competitività, non possiamo farcela, eppure tutti fanno finta di niente. Ho tirato avanti per quasi sette anni, poi una notte ad aprile mi sono detto basta. Io metto sul piatto 20 miliardi, accetto la sfida, ma voglio che quei soldi servano, dunque voglio garantire la Fiat e chi ci lavora. Cambiamo le regole per garantire l’investimento attraverso il lavoro. E’ l’unica strada. Non solo: a dire il vero è l’ultima strada”.
Poi?
“Poi ho cominciato a parlarne, non con la politica ma con i miei e con il sindacato. Ma ho capito che eravamo sopra una torre di Babele. Io parlavo una lingua, loro un’altra. Tutti facevamo riferimento alla realtà: ma io alla realtà di oggi, così com’è nel mondo globale, la Fiom alla realtà del passato, quella che si è trascinata fin qui impantanandoci fino al collo, come Italia”.
Lo sa che lei si è mangiato un patrimonio trasversale di consenso, accumulato negli anni in cui ha salvato la Fiat?
“Non sapevo di averlo, non ne ho visto i benefici, e in questa trattativa non mi sono accorto di avere alcun credito, in Italia. Questo mi spiace, non per me, ma perché evidentemente non sono riuscito a far capire certe cose alla mia gente”.
Sta dicendo che ha sbagliato?
“Mi ricordo i primi 60 giorni dopo che ero arrivato qui, nel 2004: giravo tutti gli stabilimenti, e poi quando tornavo a Torino il sabato e la domenica andavo a Mirafiori, senza nessuno, per vedere quel che volevo io, le docce, gli spogliatoi, la mensa, i cessi. Cose obbrobriose, stia a sentirmi. Ho cambiato tutto: come faccio a chiedere un prodotto di qualità agli operai e a farli vivere in uno stabilimento così degradato? In più, la Fiat era tecnicamente fallita, se il fallimento significa non avere i soldi in casa per pagare i debiti. Perdevamo 2 milioni al giorno, non so se mi spiego. E invece sette anni dopo abbiamo ribaltato lo schema, l’animale è vivo, il patto che associa Fiat e lavoratori è vitale e va al di là del contratto in questione. C’era prima di me e oggi sappiamo che ci sarà dopo di me. Anzi tutta questa personalizzazione è fuorviante. Perché se Marchionne fosse il problema, basterebbe poco. Ma tolto Marchionne, il problema resta”.
Resta anche l’idea, in molti, che Marchionne non creda molto in Torino: è così?
“Guardi, io non ho mai fatto un investimento di così pessima qualità per l’azienda come quelli di Mirafiori e di Pomigliano. Vuol dire crederci, questo, o che altro?”
Vuol dirmi che l’accordo contestato dalla Fiom non soddisfa nemmeno chi lo ha scritto e firmato?
“Voglio dirle che in qualsiasi parte del mondo mi avessero sottoposto un accordo con queste condizioni io mi sarei alzato e me ne sarei andato. Tra Natale e Capodanno ho inaugurato con il presidente Lula uno stabilimento a Pernabuco nel Nordeste brasiliano: bene, l’accordo è un’ira di Dio per copertura finanziaria, concessione dei terreni, condizioni fiscali, come capita anche in Serbia”.
E’ come se lei dicesse che da noi manca lo Stato, a creare queste condizioni per l’investimento, no?
“Ma lo Stato ci ha incoraggiati. E che dire del sindacato? Una parte del sindacato è mancata molto di più, perché non ha capito la scommessa, non si è messa in gioco incalzando l’azienda sullo sviluppo, come Solidarnosc che in Polonia, quando ho spostato la Panda a Pomigliano, è venuto a chiedermi il terzo turno”.
Il dubbio sull’impegno in Italia riguarda anche la famiglia Agnelli, lo sa?
“Io non ho mai conosciuto l’Avvocato ma mi sono letto per bene la storia della Fiat. E le dico che se c’è un momento in cui la famiglia fa le cose giuste è proprio questo. Hanno varato l’aumento di capitale nel 2003 quando l’azienda era morta, l’hanno salvata con soldi propri, non dello Stato. E oggi stanno cercando di darle un futuro senza mettere i piedi nella gestione politica del Paese, ma restandone ben fuori”.
Lei con l’operazione Chrysler li ha liberati dal vincolo centenario con l’automobile italiana, ma anche dal vincolo di responsabilità con il Paese: è così?
“No. Garantiscono la continuità di un capitale intelligente, mettendolo a rischio e affidano la responsabilità di gestione a Pinco Pallino, seguendolo e appoggiandolo. Mi lasci dire che non è un comportamento molto italiano. Tenga conto che hanno trent’anni, un arco temporale molto lungo davanti, sono cresciuti e hanno studiato fuori, come John”.
Anche lei è molto poco italiano: nella biografia o nelle scelte?
“Questa è la cosa che mi fa incazzare di più. “Manager canadese”, è l’ultima di tutta una serie che arriva a dipingermi addirittura come anti-italiano, pur di minare la mia identità di manager. Io ho il passaporto italiano, esattamente come lei. Rispetto lo Stato, il Paese e soprattutto i lavoratori, perché credo sia giusto”.
Ma per lei non si possono negoziare insieme produttività e tutela dei diritti acquisiti?
“Sì, i diritti personali e sociali, ma non le inefficienze”.
Quindi lei ha firmato l’accordo per Mirafiori – che altrove non avrebbe firmato – solo perché è italiano?
“Diciamo per la sfida-Italia. E badi che non voglio affatto far politica, sia chiaro, anzi credo che in questa vicenda ci sia stato un sovraccarico ideologico. Ma ecco il ragionamento che ho fatto. Fiat ha un privilegio rispetto ad altre aziende: ha un’alternativa, può produrre qui o in altri Paesi, dove vuole. Ma io sono convinto che se riusciamo a condividere l’obiettivo, possiamo cambiare l’azienda e renderla davvero competitiva. Ci sono strade più corte e più facili fuori dall’Italia. Ma io e John abbiamo deciso di prenderci la sfida, e non accettare il declino. Si può fare, dunque si deve fare”.
Se l’accordo è condiviso, lei dice: e quel 50 per cento di no?
“Questo è il mio compito, e comincia adesso. Devo recuperarli, comunque abbiano votato, e portarli dentro il progetto. Ci sono due voti che mi preoccupano: quello di chi ha votato no su informazioni sbagliate e quello di chi ha votato sì per paura. Voglio convincerli, spiegare chi sono. E’ impossibile che negli Usa dicano che gli ho salvato la pelle e qui la pelle vogliano farmela”.
Non crede che ci sia chi ha votato no semplicemente perché vede una compressione dei diritti legati al lavoro?
“Non abbiamo compresso alcun diritto”.
Le pause, la rappresentanza, lo sciopero, la malattia: qui le condizioni cambiano.
“Un conto è parlarne da fuori, politicamente, un conto è parlarne in fabbrica. La rappresentanza, oggi un lavoratore su due a Mirafiori sceglie di non averla non iscrivendosi a nessun sindacato. Cambiano le pause, ma abbiamo fatto un gran lavoro per rendere meno pesante il lavoro in linea, e lo faremo ancora. Il no allo sciopero riguarda solo gli straordinari, è un obbligo contrattuale. Sulla malattia interveniamo solo sui picchi di assenteismo”.
A Melfi, la metà dei lavoratori ha “ridotte capacità lavorative” per i lavori in linea: non crede che queste nuove condizioni che lei minimizza pesino?
“Non credo, ma voglio anche dirle che noi facciamo automobili e l’auto nel mondo si fa così. Chi viene in fabbrica lo sa”.
Ma ha il diritto di sapere anche se l’investimento che lei promette ha un futuro: cosa risponde, con un’assenza di nuovi modelli e la quota di mercato Fiat che in Europa si riduce del 17 per cento?
“Staccata la spina degli incentivi, il mercato va giù. Lo sapevamo. Aspettiamo che si svuoti il tubo, nella seconda metà del 2011, e vediamo. Per quel momento avremo la nuova Y e la nuova Panda. Sta arrivando tutta la gamma Lancia, rifatta con gli americani, la Giulietta è appena uscita, la Jeep verrà prodotta qui in 280 mila esemplari all’anno, per tutto il mondo. E grazie a Chrysler, l’Alfa arriverà in America, con una rete di 2 mila concessionari, e farà il botto”.
Dunque non la vende?
“Fossi matto. E’ roba nostra”.
E i veicoli industriali?
“Manco di notte. E l’arroganza tedesca, gliela raccomando. Quando volevo comprare Opel, non me l’hanno data perché ero italiano…”
Al lavoratore italiano cosa porta Chrysler?
“La possibilità di fare sistema. Per ottenere i nuovi volumi produttivi, avrei dovuto creare nuovi stabilimenti in America. Invece utilizzo tutte le fabbriche del sistema, porto qui le lavorazioni e metto il know how Fiat a disposizione di Chrysler. Gli impianti girano, i costi si ammortizzano, la gente lavora”.
Ma il costo del lavoro che voi riducete con l’accordo pesa solo il 7 per cento sul costo complessivo di un’auto: lei come garantisce che sta lavorando per migliorare anche quel 93 per cento restante?
“Quel 93 per cento che lei cita ha proprio a che fare con il costo di utilizzo di ogni impianto. Fatemelo migliorare e alzerò i salari. Possiamo arrivare al livello della Germania e della Francia. Io sono pronto”.
Anche alla partecipazione dei lavoratori agli utili?
“Sì, e le dico che ci arriveremo. Voglio arrivarci. Ma prima di parteciparli, gli utili dobbiamo farli”.
Mi pare di capire che dopo Pomigliano e Mirafiori il nuovo contratto investirà anche Melfi e Cassino: è così?
“Non c’è alternativa. Non possiamo vivere in due mondi. Io spero che, visto l’accordo alla prova, non vorranno vivere nel secondo mondo nemmeno gli operai”.
Cosa resterà di italiano nelle nuove auto prodotte a Mirafiori?
“Il Centro Stile rimane qui, dunque il design, ma anche i progetti, le piattaforme di origine: la piattaforma della Giulietta è nata qui, è stata riadattata negli Usa adesso torna qui per fare da base ai Suv Jeep e Alfa. E la motoristica è qui”.
E la testa?
“Bisognerà abituarsi al fatto che avremo più teste, a Torino, a Detroit, in Brasile, in Turchia, spero in Cina. E un cuore solo. Così rimarranno vive quelle quattro lettere del marchio Fiat. Vediamole. Fabbrica: produciamo ancora, vogliamo produrre di più. Italiana: siamo qui, e non vendiamo nulla. Automobili: resta il cuore del business. Torino: se ha dei dubbi, apra la mia finestra e guardi fuori”.
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di Franco Debenedetti – Il Foglio, 17 gennaio 2011