→ luglio 14, 2015

Articolo collegato di Carlo De Benedetti
Siamo sicuri che quella di cui stiamo parlando da mesi sia la crisi greca? E se fosse la crisi tedesca? Per chi resta convinto che il nostro futuro è più che mai legato al sogno di un’Europa autenticamente unita, è quest’ultima la vera questione che andrebbe messa in primo piano, è l’incapacità di Berlino di porsi al livello della responsabilità alta che la storia europea gli assegna in questo inizio di millennio.
Non sottovaluto le responsabilità della Grecia, con tutte le relative implicazioni di natura economica e politica. Anzi, ritengo che il dovuto rispetto per la storia europea di questo straordinario Paese, non debba impedirci di affermare nel modo più netto che i vari governi che si sono succeduti da quando Atene ha chiesto di entrare nell’Euro (errore grave averla ammessa) si sono dimostrati distrosi. Tutti, senza eccezioni. A parte le menzogne sui conti e i trucchi contabili, l’inesistenza di un sistema fiscale degno di questo nome, un sistema pensionistico troppo generoso rispetto alle risorse del paese, la totale incomprensione delle responsabilità che l’ingresso nell’euro, e ancor prima le grandi trasformazioni dell’economia mondiale, comportavano sono tutte colpe gravi ascrivibili alla classe dirigente greca.
Anche il referendum indetto a sorpresa da Tsipras, oltre ad essere stato ingannevole rispetto ai problemi reali del paese, è stato di fatto un ulteriore provocazione verso l’Europa. La Grecia, del resto, non è “nuova” a questi referendum “sbagliati”: 95 anni fa un’altra consultazione popolare segnò un’analoga impennata di orgoglio nazionale che ebbe conseguenze altrettanto disastrose. Era il 1920 e la Grecia si trovava in guerra con la Turchia. Come scrive Ureneck, l’autore di un bel libro sulla distruzione di Smirne, la disfatta greca cominciò con un morso di scimmia inferto al giovane re greco Alessandro I, mentre passeggiava nel suo giardino. L’infezione che ne seguì portò alla morte del sovrano, poco prima delle elezioni. Si tenne allora un referendum in cui i Greci decisero (con una maggioranza che oggi si direbbe bulgara) di richiamare al trono il padre di Alessandro, Costantino I, che era filo-tedesco (sua moglie era la sorella del Kaiser Guglielmo). Gli alleati americani e inglesi informarono Atene che se Costantino fosse tornato sul trono la Grecia non avrebbe più ricevuto aiuti, così fu, e da allora il paese si avvitò in una crisi ancora peggiore di quella di oggi.
Adesso come allora, e forse come conseguenza di allora, i Greci sono pronti a pagare un prezzo altissimo per riaffermare il loro orgoglio nazionale e la loro sovranità. Ma la crisi greca, che ha origini così lontane, ha palesato la debolezza dell’Unione Europea e, soprattutto, la grave crisi politica e di leadership della Germania. Occasione storica quella che ha la Germania, occasione che qualunque leader politico aspirerebbe ad avere: quella di porsi alla guida della nascita di un verso soggetto politico unitario europeo, uno di quei passaggi che la storia ricorda.
Ma questo sembra non interessare a Berlino, non sembra essere questa l’ambizione di un ceto dirigente chiuso in un pragmatismo del qui ed ora.
La realtà è che in Germania è in corso una dura lotta politica per la successione di Angela Merkel. Una cancelliera che si è dimostrata certamente una negoziatrice determinata e capace di trovare comunque una via d’uscita finale, una buona interprete dei fumi delle birrerie tedesche, ma certo non una leader come la Germania ci ha offerto nel dopoguerra con figure come Adenauer, Schmidt, Kohl. Qui torna in mente il conflitto che ancora attanaglia la Germania e che Thomas Mann aveva evocato nel suo discorso nella prima riunione del parlamento tedesco dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. In quell’occasione, come tutti ricordano, il grande scrittore auspicò, proprio perché conosceva bene il suo paese, una Germania europea anziché una Europa tedesca. Oggi il vero, aspro, confronto in Germania è proprio su questo tema e vede la contrapposizione tra gli integralisti tedeschi Schaeuble e Weidemann e il vicecancelliere e capo del SPD Gabriel. Con quest’ultimo che ha assunto una posizione che non è certo nel solco del pensiero socialdemocratico tedesco, ma che è solo teso a stringere la morsa sulla Merkel.
Bisogna dare atto alla debole figura politica di Hollande di essersi battuto perché le decisioni assunte dall’Unione Europea non fossero vittime della lotta politica interna tedesca. Un compromesso è stato raggiunto. E nelle prossime settimane si verificherà la sua tenuta, tutt’altro che scontata, per le perduranti tensioni all’interno di entrambi i fronti contrapposti, quello greco e quello dell’eurogruppo. Ma, al di là di come voterà il parlamento greco, è stata inferta un’umiliazione profonda a un paese “orgoglioso”. E, quel che è peggio, la forza delle culture politiche nazionali e l’assenza di una leadership politica europea (l’unico leader europeo resta Mario Draghi) hanno rivelato, ancora una volta, l’estrema fragilità dell’Ue. Per chi come me ha pensato, e continua nonostante tutto a pensare che non esista un’alternativa razionale all’Europa, è una sconfitta. Se non vogliamo più il ripetersi di casi Grecia, se non vogliamo che lo spirito europeo si perda in pratiche di waterboarding (secondo la ormai famosa definizione di un funzionario europeo a proposito dell’incontro Merkel-Tsipras), serve camminare con decisione sulla strada della cessione reciproca di pezzi crescenti di sovranità nazionale, nell’obiettivo di un bene superiore, che è il bene comune dell’Europa.
Serve una leadership politica forte perché ciò avvenga. E ci sarebbe da aspettarsela dal paese oggi più forte, che è anche quello del popolo che ha voluto vedere, con i suoi filosofi, un destino e un senso nella storia degli uomini. L’Europa è il nostro destino. Ma i suoi leader, oggi, sembrano averlo dimenticato, smarriti nello sguardo corto di una difesa pragmatica di una supremazia in fondo inutile e rinunciataria.
→ luglio 7, 2015

Articolo collegato di Alberto Bisin
IL NETTO “no” nel referendum in Grecia ha il merito di ben chiarire i termini della questione. Il “sì” avrebbe portato al massimo ad una umiliante concessione da parte degli organismi internazionali creditori fino alla prossima rottura tra controparti.
Come molti osservatori hanno sostenuto, non senza retorica, il risultato del referendum va rispettato, indipendentemente dal proprio giudizio su quanto appropriato sia stato ricorrere alla consultazione popolare. È chiaro che i cittadini greci hanno votato per non accettare la proposta di accordo sul tavolo negoziale. Non è chiarissimo però con quale mandato il governo Tsipras potrà continuare i negoziati con gli organismi internazionali creditori. Credo sia ragionevole sostenere che l’obiettivo di un eventuale futuro accordo non possa mancare di prevedere una ristrutturazione del (leggi, default ordinato sul) debito greco. Null’altro sarebbe accettabile agli elettori greci.
Per capire cosa questo significhi bisogna fare un passo indietro. Dalla metà anni ‘90 il settore pubblico greco ha speso più di quanto non abbia raccolto a mezzo di entrate fiscali, finanziando l’eccesso di spesa a debito. A situazione finanziaria apparente (prima di allora conti offuscati se non truccati non ne avevano permesso una chiara immagine), nel 2010, la Grecia era insolvente e ha avuto bisogno di aiuti e nuovi prestiti. Questi sono stati utilizzati nella gran parte per ripagare i creditori, soprattutto banche tedesche e francesi. Il debito greco è passato quindi da banche private a organismi internazionali. Nel 2012 la Grecia ha avuto bisogno di un nuovo giro di aiuti, che in questo caso sono andati al paese. Anche questi aiuti, che prevedevano la vendita da parte di varie attività che non è mai avvenuta, e che erano condizionati a riforme microeconomiche attuate solo in minima parte, non hanno avuto gli effetti desiderati. Il rifiuto di mettere in cantiere le riforme (mercato del lavoro, pensioni, settore pubblico) ha costretto i governi che si sono succeduti a operare soprattutto su dipendenti pubblici e tassazione. Hanno sì ridotto notevolmente il disavanzo primario (al netto della spesa per interessi), ma lo hanno fatto strozzando ogni possibile ripresa economica. Di qui, credo la rabbia dei greci che prima hanno votato Syriza e poi lo hanno supportato votando no al referendum.
Credo quindi che Tsipras abbia ragione a ripetere che il paese è insolvente e che il debito vada ristrutturato. Ma a mio parere su una cosa ha ragione invece l’ala dura tedesca (ad esempio Schauble, per intenderci): alla fine questo debito ha finanziato la spesa pubblica corrente della Grecia per più di un decennio; la decisione di non pagarlo è naturalmente legittima, ma la Grecia deve prendersi le proprie responsabilità, non è più possibile finanziare politiche assistenziali. Disturba molto che la ristrutturazione avvenga sulle spalle dei contribuenti europei, ma a questo ci hanno portato l’assunzione di debito da parte degli organismi internazionali creditori e il rifiuto da parte della Grecia di operare le riforme necessarie.
Non resta quindi che ristrutturare il debito e chiudere i canali di finanziamento pubblico alla Grecia. Che questo comporti o meno una uscita della Grecia dall’euro non è chiaro. Sarebbe bene per il paese evitarlo. Una strada potrebbe essere quella di pagare i dipendenti pubblici, i creditori, e i pensionati, almeno in parte con una moneta parallela, che sarà presto svalutata ma che permetterebbe forse alla Grecia di evitare un catastrofico ritorno alla dracma con annessa uscita da euro e forse anche dall’Unione.
Ora sta all’Ue evitare nuove inutili trattative per scongiurare la ristrutturazione del debito. Che tutta la retorica sulla democrazia di questi giorni abbia un senso: gli elettori hanno votato per ristrutturare il debito; che così sia. Lo stesso Tsipras proverà ad utilizzare il potere contrattuale del supporto popolare per ottenere nuove trattative che comportino una minima ristrutturazione. Questo va evitato a mio parere perché porterebbe a nulla, solo estenuanti negoziazioni. Per trattare bisogna avere fiducia reciproca e il referendum ha reso chiaro che una buona maggioranza dei greci questo tipo di trattativa non la vuole. È importante invece che nuove negoziazioni mirino a evitare che la ristrutturazione del debito diventi un disordinato default. Infine, la Grecia affronterà probabilmente momenti molto difficili. Sarà necessario aiutare il paese in situazioni di emergenza sociale.
Ma la cosa più importante è che la Ue si metta a lavorare per definire un efficiente processo istituzionale per l’uscita controllata dall’euro di paesi insolventi. No, la soluzione non è più Europa, come imboniscono ad ogni occasione i burocrati europei, nè Eurobond, nè una Unione Fiscale. Tutto questo può funzionare in astratto ma non ancora in una Europa che, come stiamo sperimentando, è composta da paesi con culture, norme di convivenza sociale, istituzioni, così diverse da rendere comuni ed accettati comportamenti strategici in cui un paese si appropria di rendite a spese degli altri. C’è bisogno di istituzioni economiche che evitino quanto possibile la definizione dei contenziosi in sede politica. I mercati non funzionano sempre, ma in questo contesto tendono a reagire rapidamente a politiche fiscali irresponsabili con aumenti dei tassi che inducono i paesi ad un ritorno all’ordine e alla responsabilità.
→ luglio 7, 2015

Tutto sommato meglio così. Con un “sì” stiracchiato a un quesito mal posto, oggi staremmo a elucubrare su sviluppi politici, dimissioni, rimpasti, elezioni, coalizioni. La scelta del popolo greco è per tutti una scelta di fare chiarezza. Da oggi pensare all’euro e pensare alla Grecia sono due cose, entrambe necessarie ma distinte.
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→ giugno 23, 2015

Caro Direttore,
un fondo di disoccupazione europeo? Benissimo, ma per farlo ci vuole un CSM europeo. La proposta del Ministro Padoan, che il Foglio aveva anticipato, è stata ripresa da Eugenio Scalfari. I soldi che il fondo mette in tasca a cittadini di un paese, sono pagati dalle tasse di cittadini di altri paesi: che vorranno sapere come vengono spesi. Per questo non basterà uniformare le leggi, ma come vengono interpretate e applicate dai magistrati.
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→ maggio 6, 2015

Al direttore
Chissà se nella riunione straordinaria del 23 aprile del Consiglio d’Europa per la “drammatica situazione nel Mediterraneo” si è parlato anche della sua straordinarietà. Sarebbe bastato guardare i numeri: nel periodo 2010-2014, mentre gli stranieri registrati nelle anagrafi comunali sono aumentati in misura modesta (20 per cento circa) e gli ospitati nei centri di accoglienza sono poco più che raddoppiati, coloro che sono sbarcati sulle coste italiane sono quasi 40 volte tanto. Per il 2015, l’aumento del 40 per cento registrato a tutto febbraio rispetto all’anno precedente, tenuto conto della stagionalità, lascia prevedere cifre inquietanti. La cifra del milione di persone che attendono di partire non è ancora una proiezione, ma non è più un’esagerazione. La drammatica differenza nei tassi di crescita indica che ci sono due tipologie di immigrazione, cioè che ai migranti “economici” si vanno progressivamente sostituendo i fuggitivi da guerre e sconvolgimenti politici. Dei 170 mila sbarcati nel 2014, 42.323 venivano dalla Siria, 34.329 dall’Eritrea, 9.908 dal Mali, 9 mila dalla Nigeria: l’aumento del flusso è tutto composto da persone che provengono da paesi devastati da crisi sanguinose.
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→ aprile 15, 2015

Sir,
No doubt, “if Greece does fall out of the euro, it will also fall out of Europe”, as Philip Stephens writes (“Europe faces more than a Greek tragedy”, April 10). No doubt, “the failure of the euro would mark the failure of Europe”. But there is no link between the two statements, namely that Greece falling out of the euro marks the failure of the euro. This would be the case should it happen for economic reasons: too high the cost, too vague the reforms, too big the risk. As a consequence the euro would not be perceived any more as a monetary union, but as a fixed exchange rate area, the markets would soon attack the weakest countries, the spread would rise, sooner or later there would be a second Greece.
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