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→  febbraio 12, 2015


di Marco Valerio Lo Prete
Roma. L’economista Paolo Savona, ex ministro, ex Banca d’Italia, non sarà tra quanti sabato a Roma sosterranno in piazza “l’altra Europa” del leader greco Alexis Tsipras. Ciò non impedisce all’ex braccio destro di Guido Carli (che 23 anni fa firmava il Trattato di Maastricht) di ragionare sulla tempesta ellenica per sollevare un problema di fondo: “La trattativa bilaterale tra Bruxelles e Atene è un errore. Che perda la faccia l’una o l’altra parte non conta. Questo è il momento di concepire soluzioni erga omnes. Anche ridiscutendo l’annunciato Quantitative easing”, dice al Foglio Savona riferendosi all’acquisto di titoli di stato annunciato dalla Banca centrale europea per contrastare la deflazione nell’Eurozona.

Davvero conviene mettere in discussione l’agognata “svolta americana” della politica monetaria europea? Savona parla di “entusiasmo sconfortante” con cui è stato accolto il Qe. Due gli ordini di motivi. Innanzitutto, “i nuovi acquisti di titoli verranno garantiti dai bilanci delle Banche centrali nazionali per l’80 per cento, e dalla Bce per il rimanente 20. Poiché, secondo le regole vigenti, la Bce già garantisce direttamente l’8 per cento di tutte le operazioni effettuate dall’Eurosistema, e le Banche centrali il rimanente 92, l’innovazione introdotta con il Qe è che la Bce integra la sua garanzia solo del 12 per cento, non del 20. E viene a cessare la mutualizzazione dei debiti di ciascuna Banca centrale nazionale nell’ambito dell’Eurosistema”. In breve, secondo Savona, “la Bce non fa più sistema ma distingue le responsabilità pro quota. Tale scelta, a voler interpretare le parole di Draghi, è un ovvio corollario, o meglio un chiarimento, della ‘coronation theory’ che regge l’euro. Quest’ultimo è una corona senza re, una moneta senza stato. Cos’altro può voler dire che ogni paese si prende pro quota la responsabilità nel caso di default sul debito o di rottura definitiva del sistema?”. Così si arriva al secondo corno del ragionamento, che riguarda l’Italia e un tema delicato: un club (monetario) senza possibilità d’uscita è insostenibile; ragionare su exit strategy possibili e quanto più ordinate è d’obbligo. Il Qe, però, compromette questa possibilità. Lo fa di soppiatto, ma in maniera incisiva: “La decisione di immettere base monetaria attraverso il canale dell’acquisto di titoli di stato, forse perché è l’unico pronto, per un totale di 30 miliardi da parte della Banca d’Italia, ha due conseguenze. Mina il bilancio di Palazzo Koch impegnando – in maniera obbligatoria, pare – le riserve ufficiali anche auree. E impedisce in futuro allo stato italiano ogni genere di rinegoziazione o di dichiarare default del proprio debito senza determinare gravi conseguenze anche per la ‘sua’ Banca centrale”. In sintesi: “Il Qe funziona come un’ulteriore bardatura che impedirà al paese scelte diverse da quelle di stare in Europa, obbedendo a Berlino- Bruxelles a rischio di trasformarci in colonia politica”. Savona precisa di non essere tra quanti ritengono che l’uscita dalla moneta unica curerebbe il paese dalle sue storture. E’ convinto però che nel lungo periodo “con queste condizioni non si può escludere l’ipotesi che diventi necessario rinegoziare partecipazione all’euro e debito sotto stress speculativo”. Ergo – ragiona Savona che da anni invita la classe politica a dotarsi di un “piano B”, come secondo lui perfino la Germania non ha mai negato di aver fatto – “Matteo Renzi e l’Italia farebbero bene a guardare oltre l’entusiasmo contingente. Laicamente, restare pronti a tutto”.

Che fare, dunque? “Il Qe, come concepito, è una modifica costituzionale. Il nuovo presidente della Repubblica, Mattarella, dovrebbe impedirla, chiedere il rispetto delle procedure parlamentari per essa previste”. Savona aggiunge di essere “assolutamente favorevole” a che la Bce possa intervenire acquistando bond statali dei paesi membri quando questi si trovano sotto attacco speculativo. “Tuttavia sarebbe meglio che questi poteri venissero a essa attribuiti in modo chiaro, accogliendoli nello Statuto”. Da qui discende l’appello a convogliare la tensione politica generata dalla nuova crisi greca in un “grand bargain”, come lo ha chiamato l’ex primo ministro inglese Tony Blair. “Soluzioni erga omnes per correggere la ‘zoppia’ dell’architettura istituzionale dell’euro”, le chiama Savona citando Carlo Azeglio Ciampi. Il Quantitative easing di Draghi, quindi, ma rivedendo lo Statuto della Bce. L’espansione monetaria, certo, “ma collegando gli acquisti di titoli alla realizzazione del Piano Juncker d’investimenti europei”. Il pareggio di bilancio, ma con una “condivisione dei debiti pubblici in eccesso al 60 per cento”. Perché le opinioni pubbliche dei paesi nordici dovrebbero accettare di buon grado? “Perché un accordo a livello europeo non verrebbe vissuto come una concessione a questo o a quel paese ‘peccatore’. E perché dei dividendi della ripresa ci avvantaggeremmo tutti”, conclude Savona.

→  novembre 5, 2014


La vittoria simbolica di Renzi a Bruxelles, l’idea di alternative radicali e i limiti di tutto ciò

È tutta colpa della Germania, si sente dire: non fosse per loro avremmo la crescita al 3 per cento, l’euro a 1,10 sul dollaro e la disoccupazione al 5 per cento. Basterebbe poco, si sente dire, basterebbe che invece di vendere macchine ai cinesi facessero ponti e ferrovie per sé, oppure se continuassero a esportare ma usassero il loro surplus per comperare il nostro debito.

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→  aprile 22, 2014


Sono 33 le false verità sull’Europa, recita il titolo del libro di Lorenzo Bini Smaghi, uno dei numerosi che, elezioni propiziando, stanno uscendo sul tema. Sono però 30 anche gli anni da che “ il tasso medio di crescita italiana sta declinando”: se continua così, “fidarsi di un Paese con un debito troppo grande per essere salvato e per non trascinare il resto d’Europa nella propria instabilità” più che “problematico”, come scriveva Carlo Bastasin l’11 Aprile su queste pagine, diventa impossibile. Il sogno europeo della ever closer union è un obiettivo, non un’assicurazione, un impegno a raggiungere i primi, non a salvare gli ultimi. Uscire dall’euro è consentito dall’art. 50 di Maastricht ma comporterebbe essere lasciati soli al giudizio dei mercati: non ci andrebbe molto ad accorgersi che è meglio prendere ripetizioni da Bruxelles che i voti da loro.

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→  marzo 18, 2014


Per gli italiani George Soros è quello dell’attacco alla lira, dell’uscita dallo Sme, della svalutazione del 1992. Speculatore con un acuto senso delle linee di faglia dei mercati, filantropo generoso nel diffondere l’idea di società aperta nei Paesi usciti dal comunismo, pensatore con una visione esagerata di sé («Volevo essere un riformatore economico, come Keynes, o meglio ancora, uno scienziato, come Einstein»), Soros è davvero un personaggio singolare. La tragedia dell’Unione europea: disintegrazione o rinascita? è il libro che raccoglie quattro interviste che gli ha fatto Gregor Peter Schmitz, giornalista dello Spiegel; tre nell’estate 2013, l’ultima a dicembre, dopo le elezioni tedesche e il compromesso sull’unione bancaria.

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→  marzo 18, 2014


di Antonio Pilati

Entro marzo un comitato di 11 esperti, presieduto da Gertrude Trumpel-Gugerell e incaricato di studiare le modalità di attuazione dell’impegno di rientro ventennale sotto soglia assunto con il trattato fiscal compact dai Paesi che superano la quota del 60% nel rapporto debito/Pil, dovrà presentare al Presidente della Commissione Ue Barroso le sue proposte operative. Il comitato di esperti, dove non ci sono italiani, sta lavorando su una proposta, avanzata dal German Council of Economic Experts, che prevede di costituire un Redemption Fund dove confluiscono le porzioni di debito degli Eurostati che eccedono la soglia del 60%: il Fondo, in quanto dispone di una garanzia europea, potrà collocare titoli a tassi – è da ritenere – piuttosto bassi. Ritorna l’idea degli eurobond, lanciata da Tremonti e Juncker, poi ripresa e allargata da Prodi e Quadrio Curzio: in apparenza una buona notizia per chi, come l’Italia, sfiora il 133% nel rapporto debito/Pil e quindi potrebbe conferire al fondo europeo di redenzione una quota pari al 73%. In realtà l’idea degli esperti è a doppio taglio e la seconda lama fa molto male all’Italia: è infatti previsto che dal gettito fiscale degli Stati partecipanti si attui ogni anno un prelievo automatico pari a1/20 del debito apportato al Fondo. Nel progetto le risorse raccolte dal fisco nazionale passano in via diretta, tagliando fuori le autorità degli Stati debitori, alle casse del Fondo.

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→  marzo 14, 2014


Review by Ferdinando Giugliano

Nearly five years on from the start of the eurozone crisis, even its most strenuous critics have to admit that things are looking better for the currency union. Bond yields in troubled countries have fallen sharply from the levels reached in 2011. True, public debt is still rising and unemployment, particularly among the under-30s, is still worryingly high. But as the recovery gathers pace, the hope is that the fiscal outlook will improve and companies will resume hiring.

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