→ gennaio 21, 2022
Al direttore.
La somma delle percentuali di chi vorrebbe Draghi al Quirinale e di chi lo vorrebbe a Palazzo Chigi è probabilmente 100: e ciò che secondo me li accomuna è che tutti considerano il prestigio e l’autorevolezza che ha accumulato nei vari incarichi ricoperti nella sua vita, come il valore che ci protegge dalle nostre debolezze, a partire dal debito. Ma allora dovrebbe essere evidente che questo lo si ottiene meglio dal Quirinale per sette anni piuttosto che da Palazzo Chigi in 14 mesi di prevedibile campagna elettorale. E poi, in un caso e nell’altro, a quali condizioni?
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→ gennaio 18, 2022
“L’unico modo per non perdere Draghi è mandarlo al Quirinale”.
Così era titolata una lettera al Direttore apparsa sul Foglio del 15 gennaio scorso e firmata dal senatore Franco Debenedetti.
Risposta di Claudio Cerasa: “Concordo”.
Perché una personalità che può contare su un quasi unanime consenso tra i partiti, divisi tra chi lo vorrebbe al Quirinale e chi a Palazzo Chigi, e che ha dimostrato attitudine a mediare in una larga maggioranza senza prevaricare le forze politiche, non dovrebbe essere il candidato comune per la Presidenza della Repubblica?
Roberta Jannuzzi ne parla con Franco Debenedetti.
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→ gennaio 15, 2022
Al Direttore.
Se al Quirinale non ci va Draghi, perché i partiti non vogliono, e non resta Mattarella, perché non vuole lui, ci andrà qualcuno con cui non si ristabilirà l’intesa tra i due, che è stata alla base di questo Governo. La situazione in cui vive il Paese – Covid, inflazione, necessità di fornire sostegno a famiglie e settori in difficoltà – impone decisioni che i partiti troveranno impopolari. Premessa maggiore: i partiti vogliono Draghi a palazzo Chigi per sfruttarne il prestigio, mentre nella sostanza lo arrostiscono a fuoco lento. Premessa minore: Draghi è troppo accorto, saprà evitare che qualcuno faccia finire male il suo curriculum stellare. Conclusione del sillogismo: il solo modo per non perdere Draghi è mandarlo al Quirinale.
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→ gennaio 5, 2022
Il Cav. può essere il vero protagonista nella corsa al Colle. Non come futuro presidente ma in qualità di kingmaker
Cosa ne penso di Berlusconi al Quirinale? Non essendo praticabile, per indisponibilità dell’interessato, quello che per il Financial Times sarebbe il first best, Sergio Mattarella presidente fino alla fine della legislatura, ma essendo disponibile il second best, Mario Draghi al Quirinale per sette anni, la risposta è che sarebbe una scelta sbagliata. Una, non la scelta: sarebbe sbagliato qualunque altro nome venisse fatto. A domanda maligna, risposta limpida: di per sé, in astratto, non ritengo che Berlusconi non possa essere presidente della Repubblica, anzi riconosco le ragioni per cui potrebbe esserlo. Se, sempre in astratto, lo diventasse, non restituirei il passaporto al Viminale: e crepi la malizia!
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→ aprile 16, 2019
Tutte le formazioni politiche che si presenteranno alle elezioni di maggio hanno «Europa» nel loro programma. I seguaci di Emma Bonino l’hanno perfino nel nome, “Più Europa”, secco, senza condizionali. Gli altri invece vogliono l’Europa sì, «ma un’Europa diversa», differenziando, secondo la propria natura, le auspicate “diversità”.
I gialloverdi al governo, in tema di Europa, hanno molto da far dimenticare. Per cui i “piani B” sono stati riposti nei cassetti e le simulazioni che vorrebbero dimostrare il vantaggio di un’uscita dall’euro sono stati declassati a studi accademici, anche se personaggi con ruoli istituzionali continuano imperterriti a sostenerlo. E poi, replicano, si sa che questa eventualità non è nel programma: che volete di più? C’è un’ulteriore ragione per i gialloverdi di calcare la mano sulla «Europa diversa»: perché quanto più diverso è ciò che vogliono, tanto più giustificate sono le critiche che hanno mosse e muovono all’Europa che c’è. E al contrario, tanto più diverso è quel che vogliono e tanto più possono indicare ai loro elettori la causa delle critiche in arrivo da Bruxelles: ci attaccano solo perché noi vogliamo cambiare!
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→ marzo 21, 2018
di Franco Debenedetti e Nicola Rossi
Uno di noi li ha perfino chiesti, i voti per il PD: ma non sono arrivati. Anzi sono stati troppo sotto la soglia, non diciamo delle rodomontate fake, ma anche delle speranze di essere una news. E così il 5 marzo l’Italia si è svegliata e si è trovata bipolare. Non si vede per quale motivo questo dovrebbe essere un risultato provvisorio destinato ad essere ribaltato, vuoi da una nuova votazione, vuoi dalle non rassicuranti prospettive dei possibili futuri governi. Neppure si vede perché questo dovrebbe essere un male, in un paese che non ha, e probabilmente non avrà, un sistema elettorale alla francese.
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