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→  dicembre 4, 2011


L’80% degli italiani, secondo Renato Mannheimer, sarebbe a favore di un’imposta patrimoniale. Per arrivare a una percentuale così alta, bisogna mettere insieme i gruppi più disparati, chi ha un lavoro stabile e chi lo cerca, gli anziani che vivono di risparmi e i giovani che tirano avanti con lo stipendio, chi legge e chi ha difficoltà a capire un testo anche semplice: difficile che tutti abbiano in comune uno stesso interesse economico. Devono quindi essere motivazioni diverse a coalizzare quell’80%, non economiche, ma ideologiche ed emotive.

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→  novembre 27, 2011


di Roger Abravanel

La vicenda Finmeccanica ha dato una nuova prospettiva al dibattito sulle privatizzazioni. C’ è chi dice che la privatizzazione di Finmeccanica ridurrebbe le occasioni per ulteriori «fondi neri» e chi (come questo quotidiano) sostiene che privatizzarla non servirebbe a molto perché il privato utilizzerebbe la leva della corruzione della committenza pubblica esattamente come fa una azienda a controllo statale. La realtà è che la privatizzazione incide poco su questo tipo di problemi perché la Finmeccanica opera in un settore (difesa, sicurezza) dove la trasparenza è scarsa, le pratiche commerciali a volte ai limiti della legalità e l’ interferenza della politica significativa per definizione. Il cancro della corruzione in questi settori non si combatte con le privatizzazioni, ma con una committenza pubblica piu trasparente e un’ azione giudiziaria internazionale più incisiva e coordinata. La vera ragione per ridurre ulteriormente il ruolo dello Stato come azionista di Finmeccanica (come committente è impossibile) è un’ altra: creare valore proprio attraverso quello «spezzatino» tanto osteggiato dal fronte anti-privatizzazione. In Finmeccanica esistono business globali molto competitivi e in posizione di leadership: gli elicotteri (Agusta-Westland), l’ avionica (Selex-Galileo) legati alla committenza militare in Italia e nel mondo, e altri come l’ Ansaldo Energia e l’ Ansaldo Sistemi, più connessi al mercato privato mondiale dell’ energia e dell’ industria. Questi business competitivi (veri e propri «gioielli») convivono con altri che sopravvivono grazie alla committenza pubblica italiana – la Alenia e la «sicurezza» (la «famigerata» Selex-sistemi integrati) – e con altri che da sempre restano nell’ orbita pubblica per ragioni di salvaguardia dell’ occupazione (l’ Ansaldo Breda). Ora bisogna decidere cosa cedere e cosa tenere in orbita pubblica (e come farlo), con tre obiettivi: proteggere e rendere ulteriormente competitivi i «gioielli» a fronte della crisi finanziaria globale che porta a forti contrazioni degli investimenti pubblici in tutto il mondo in ogni settore (in particolare in quello della Difesa), generare un po’ di cassa e risolvere una volta per tutte il problema delle attività che sopravvivono solo grazie alla committenza dello Stato italiano o alla sua protezione. Per questo una privatizzazione tout court non è possibile senza una chiara strategia che dev’ essere impostata dal nuovo governo e affidata come mandato al cda e al presidente (attuale o futuro). Il fronte anti-privatizzazioni porta però avanti da mesi un’ altra argomentazione contro tutte le privatizzazioni: la cosiddetta «svendita dei gioielli di famiglia» ovvero alcuni business di Finmeccanica e poi l’ Enel e l’ Eni. Ma oggi lo Stato italiano non è in una situazione molto diversa da quella di una famiglia che deve svendere i propri gioielli per evitare il fallimento. Peraltro non è certo che si tratti di una «svendita». Gli anti-privatizzazioni sostengono che «lo Stato non può rinunciare ai 2 miliardi di dividendi dell’ Enel e dell’ Eni». Ma se questi dividendi in passato hanno reso il 7-8%, un vero affare quando il debito costava il 3%, oggi con un costo marginale del debito del 6-7% a causa dell’ esplosione degli spread la situazione è cambiata. E l’ incasso di almeno 30 miliardi (la vendita dei «gioielli») vale una manovra di uno Stato che tenta disperatamente di non fallire. In altre parole lo Stato italiano deve vendere perché il costo di tenersi i «gioielli» è oggi pari alla loro cessione; e comunque non può più permetterseli. Peraltro, non solo Finmeccanica beneficerebbe di una privatizzazione divenendo più competitiva e creando valore per gli azionisti e i lavoratori. Anche per Enel e Eni una minor presenza dello Stato sarebbe salutare. Dai tempi della loro parziale privatizzazione, queste aziende hanno fatto passi da gigante in termini di competitività, qualità del top management e della governance (Consiglio di amministrazione) che, per molti aspetti, può anche essere considerata oggi migliore di quella di molte aziende italiane quotate dove l’ azionista di riferimento sono le famiglie italiane. Ma la crisi mondiale in corso e le nuove sfide globali richiedono che i vertici perseguano sforzi ancora maggiori nel taglio dei costi e nelle cessioni/alleanze internazionali, difficilmente compatibili con una forte presenza dello Stato. Queste nuove strategie devono essere approvate da cda informati ed attivi che appoggiano vertici pronti a impegni coraggiosi. In Italia, spesso i vertici costruiscono da soli le strategie e semmai le concordano con l’ azionista pubblico che sceglie anche l’ amministratore delegato con minimo coinvolgimento del consiglio e del suo presidente (che alla fine conta abbastanza poco). Ciò è consentito dalle loro pratiche di governance che ormai non sono più in linea con i tempi: i cda di queste aziende scadono tutti assieme e non hanno mandati in scadenza dei singoli consiglieri come nelle migliori pratiche mondiali che invece consentono al cda e al suo presidente di nominare l’ amministratore delegato. In sintesi quindi, l’ invito per il governo Monti è di accelerare le privatizzazioni delle aziende «ex-pubbliche», più facili da realizzare che la vendita del patrimonio immobiliare e delle caserme e con più potenziale di contribuire alla ulteriore crescita di imprese globali che creano posti di lavoro e valore per i loro azionisti.

→  novembre 26, 2011


Carlo Azeglio Ciampi era esplicito nello spiegare il meccanismo: se abbassiamo il deficit al tre virgola zero per cento, ripeteva, entriamo nell’euro, gli interessi sul debito si riducono al livello di quelli tedeschi. L’eurotassa è un prestito, ci fa incassare il “premio di credibilità”, e si ripaga con ciò che si risparmia di interessi: un pasto gratis (non proprio: la tassa venne restituita solo al 60%). Nessuno spiegò che se non volevamo esportare di meno e farci finanziare il debito dall’estero, era necessario che anche la nostra produttività crescesse come quella tedesca: e che questo non veniva gratis. Alla stessa maniera nessuno spiegò ai tedeschi, che un’unione monetaria comporta di trasferire costi economici e politici dagli Stati “dissoluti” a quelli “virtuosi”. Questo non detto è il deficit democratico alla base della costruzione dell’euro.

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→  novembre 26, 2011


Caro Direttore,

i sistemi di contabilità nazionale (SEC 95, comma h art. 1.13) impongono a tutti i Paesi di stimare e di contabilizzare nel PIL anche “l’economia non osservata”. Non è dunque esatto quanto scrive Milena Gabanelli (Ecco perché va limitato l’uso del contante, Corriere della Serra del 24 Novembre, pag 35) che “il sommerso non [vada] a far parte del rapporto debito PIL”; quindi non è vero che esso concorra a far sì che “gli investitori [siano] disposti ad acquistare i nostri titoli di stato solo a un tasso di interesse pari a più del triplo di quanto pagano gli inglesi o i tedeschi”.

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→  novembre 24, 2011


di Milena Gabanelli

Equità, liberalizzazioni e lotta all’evasione fiscale dovrebbero essere i farmaci da prescrivere al malato Italia per uscire dalla crisi. La proposta di tassare l’uso eccessivo del contante si prefigge di ridurre il più possibile l’evasione fiscale rendendola non conveniente mediante una tassa sul prelievo e sul deposito operata dalle banche per conto dello Stato. Ne sarebbero colpiti solo coloro che, in presenza di metodi di pagamento alternativi tracciabili (quali gli assegni, le carte di credito, il bancomat e i bonifici) si ostinerebbero a fare un uso eccessivo del contante creando un costo alla collettività.

Il costo a cui mi riferisco è determinato dai seguenti fattori:
- dall’incapacità dello Stato di farsi pagare le tasse da tutti, che limita la competizione fra operatori a favore di chi evade;
- dal freno che gli studi di settore hanno sulla crescita economica, penalizzando le attività in fase di start-up, oppure in un momento di difficoltà, favorendo invece quelle che hanno fatturati superiori a quanto previsto dagli studi di settore. Un maggior utilizzo della moneta elettronica potrebbe allentare questo freno o addirittura farlo scomparire;
- dal fatto che l’evasione fiscale, resa possibile solo dai pagamenti in contanti, crea una seria diseguaglianza fra i cittadini che percepiscono un reddito da lavoro dipendente e coloro che invece hanno una partita Iva e possono/scelgono di evadere parte dello loro tasse.

Soprattutto l’evasione fiscale nasconde circa il 20% del nostro Prodotto interno lordo che, in quanto sommerso, non va a far parte del rapporto debito/Pil e che ad oggi ammonta al 120%. Con un rapporto così alto, gli investitori sono disposti ad acquistare i nostri titoli di Stato solo a un tasso di interesse pari a più del triplo di quanto pagano gli inglesi o i tedeschi. Fare emergere questo 20% di Pil sommerso ci aiuterebbe a risanare i conti pubblici e renderebbe quindi possibile l’attuazione della riforma fiscale.

In conclusione: nessuna soglia minima alla tracciabilità, poiché anche portandola a 100 euro, la porta rimarrebbe socchiusa ai più furbi, e tassa sull’uso del contante. Questo renderebbe preferibile l’emissione e la richiesta di fattura. Si deve prevedere ovviamente la possibilità di scaricarne una piccola parte dalla dichiarazione dei redditi, come si deve prevedere l’abbassamento dei costi di transazione bancaria. A parte i tangentisti, gli spacciatori, evasori e i criminali, la gente comune non necessita di più di una cinquantina di euro alla settimana, la cui imposta potrebbe anche essere detratta. Insomma i nostri tecnici al governo potrebbero sicuramente disegnare un sistema che oltre ad essere a mio parere più equo e liberista, reintrodurrebbe anche la cultura della legalità.

→  novembre 16, 2011


Sadiesfaction
Seduzione, economia, arte

di Angelo Capasso
Due Punti Edizioni
2011, pp. 315


Intervento di Franco Debenedetti alla presentazione del libro

Rispetto al mondo economico, l’artista può essere soggetto od oggetto. Soggetto lo è in quanto produttore di un’opera che ha un valore, che entra nel mercato dove viene scambiata, in competizione con altri oggetti. Questa destinazione è presente nella mente dell’artista, che si pone in relazione con i potenziali acquirenti e con il sistema in cui essi operano. Lo era quando il pittore oleografico accarezzava i gusti più retrivi dei suoi potenziali clienti, lo è per l’artista di avanguardia che con la sua opera vuole rivoluzionare i rapporti sociali in cui si inserisce e i meccanismi di mercato attraverso i quali la sua opera può essere conosciuta. Questo perché l’opera d’arte intende darci una visione del mondo diversa da quella usuale, sia che voglia pacificare e rassicurare, sia che voglia rivelare e inquietare.

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