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→  settembre 25, 2013


Le alternative

Non è giunta come una sorpresa l’offerta di Telefonica di aumentare la propria quota in Telco, diventandone il primo azionista: non è che un’azienda compera il 40% del controllo di un suo concorrente e poi resta ferma per sempre. Ma quando sui giornali gli articoli sulla Telecom contendono lo spazio a quelle su Alitalia, e pochi giorni prima a quelli sulle aziende a partecipazione pubblica o dei rami di azienda che il governo Letta intende mettere in vendita, allora è impossibile non vedere il filo rosso che unisce tutti questi avvenimenti: stiamo assistendo a un ulteriore capitolo del processo di privatizzazioni. E allora è impossibile resistere alla tentazione di autocitarsi: dopo 22 anni, conto sulla prescrizione. “Perché non fare un inventario di tutte le aziende o rami d’azienda [interne ai macrosettori delle PPSS] che potrebbero essere convenientemente isolate e vantaggiosamente vendute?” Era il luglio del 1992, lo scrivevo sul Sole24Ore, che, con efficace enfasi, aveva titolato il mio pezzo “Vendiamo i bonsai di Stato”. In USA si stava dimostrando quanta efficienza economica ci fosse da guadagnare e quanto valore finanziario da estrarre smontando le conglomerate. Da noi c’era una ragione in più per farlo, noi avevamo bisogno di creare un mercato là dove non c’era: le privatizzazioni non potevano ridursi a un passaggio di proprietà, dal pubblico al privato. Nelle Partecipazioni Statali si erano formate aggregazioni che non rispondevano a logiche di mercato, erano state fatte per accrescere il potere, per salvare aziende, per occupare persone: quei legami andavano smontati.

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→  settembre 23, 2013


From Prof Emiliano Brancaccio, Prof Riccardo Realfonzo and others.
Sir, The European crisis continues to destroy jobs. The employment crisis strikes, above all, the peripheral member countries of the European monetary union, where an exceptional rise in bankruptcy is also under way, whereas Germany and the other central countries of the eurozone have instead witnessed growth on the job front. The European authorities have taken a series of decisions that have in actual fact, contrary to announcements, helped to worsen the recession and widen the gaps between the member countries. In June 2010, when the first signs of the eurozone crisis became apparent, a letter signed by 300 economists pointed out the inherent dangers of austerity policies, which would further depress the demand for goods and services as well as employment and incomes, thus making the payment of debts, both public and private, still more difficult. This alarm was, however, unheeded. The European authorities preferred to adopt the fanciful doctrine of “expansive austerity”.

The correction of the imbalances within the eurozone would require concerted action on the part of all the member countries. Expecting the peripheral countries of the union to solve the problem unaided means requiring them to undergo a drop in wages and prices on such a scale as to cause a still more accentuated collapse of incomes and violent debt deflation with the concrete risk of causing new banking crises and crippling production in entire regions of Europe.
John Maynard Keynes opposed the Treaty of Versailles in 1919 with these far-sighted words: “If we take the view that Germany must be kept impoverished and her children starved and crippled . . . If we aim deliberately at the impoverishment of Central Europe, vengeance, I dare predict, will not limp.” Even though the positions are now reversed, with the peripheral countries in dire straits and Germany in a comparatively advantageous position, the current crisis presents more than one similarity with that terrible historical phase, which created the conditions for the rise of Nazism and the second world war. All memory of those dreadful years appears to have been lost, however, as the German authorities and the other European governments are repeating the same mistakes as were made then. This short-sightedness is ultimately the primary reason for the waves of irrationalism sweeping over Europe, from the naive championing of flexible exchange rates as a cure for all ills to the more disturbing instances of ultra-nationalistic and xenophobic propaganda.
In the absence of conditions for a reform of the financial system and a monetary and fiscal policy making it possible to develop a plan to revitalise public and private investment, counter the inequalities of income and increase employment in the peripheral countries of the union, the political decision makers will be left with nothing other than a crucial choice of alternative ways out of the euro.

→  settembre 22, 2013


Intervista di Paolo Nessi

Non ci saranno privatizzazioni pari a un punto di pil, obiettivo fissato dal governo Monti, ma la metà. Ovvero, si passa da 15 miliardi di euro a 7,5. Questo è ciò che emerge dal Documento di Economia e Finanza (Def) emanato dal governo. Oggetto della vendita, restano le quote di partecipazione statale in aziende come Poste Italiane, Eni, Enel, Finmeccanica e Fincantieri. Franco Debenedetti, economista e presidente dell’Istituto Bruno Leoni, ci spiega cosa ne pensa delle manovre del governo.

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→  settembre 13, 2013


La notizia cattiva è che Lehman è fallita, quella buona è che lo Stato non è intervenuto per salvarla: fummo in pochi a pensarla così, quel 15 settembre di cinque anni fa. Poi, quando il Dow Jones arrivò a perdere il 43%, nella sola America si volatilizzarono 6,3 milioni di posti di lavoro, e il Pil Usa scese del 3%, le critiche da pioggia diventarono grandinata. Chi aveva ragione? A cinque anni di distanza, credo che quel giudizio fosse giusto: è stato un bene lasciar fallire Lehman, anche se non solo, e forse neppure principalmente, per i motivi cari ai pochi che lo espressero.

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→  agosto 14, 2013


Caro direttore,
come si fa ad essere promossi a scuola? Basta trasformare i 4 al 5, i 5 al 6 e avere qualche 7. Non vorrei mancare di rispetto agli amici professori, ma è quello che mi è venuto in mente leggendo l’ultimo articolo di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi («Agenti occulti della povertà», Corriere della Sera dell’8 agosto). Come si fa a far crescere l’Italia, si chiedono? Basta trasformare in A e B i C, voti che il Fmi ci ha appioppato in tutte le riforme di cui è dimostrata la capacità di produrre crescita, e il nostro reddito aumenterebbe. Che si tratti di studenti o di governanti, la lezione è chiara. Che sia semplice, è da vedere: in entrambi i casi.

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→  agosto 8, 2013


di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

L’Italia è ferma da due decenni. In questo periodo il reddito medio degli italiani (dati Eurostat) si è ridotto del 14 per cento, mentre rimaneva sostanzialmente invariato nel resto dell’area euro e cresceva del 12 per cento negli Stati Uniti. Da che cosa dipende questo risultato drammatico? Il Fondo monetario internazionale ha confrontato i progressi compiuti da alcuni Paesi nel riformare le proprie economie ( Fostering Growth in Europe , aprile 2012). Ha suddiviso le riforme in due gruppi: quelle che possono tradursi più rapidamente in maggior crescita (riforme del mercato del lavoro; privatizzazioni; liberalizzazioni nel campo dei trasporti, della distribuzione dell’energia, delle professioni, della distribuzione commerciale) e quelle che invece richiedono tempi più lunghi per produrre effetti positivi (formazione del capitale umano, cioè scuola e università; pubblica amministrazione; giustizia civile).

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