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→  dicembre 20, 2013

di Stefano Feltri

Il senatore del Pd Massimo Mucchetti, presidente della commissione Industria, è preoccupato per il destino di Telecom e soprattutto è molto perplesso per come si è comportato il governo. A parole Enrico Letta approvava il progetto bipartisan di modifica della legge sull’Of – ferta pubblica di acquisto, per costringere Telefónica a spendere qualche miliardo, se proprio vuole il controllo dell’azienda italiana, remunerando i piccoli azionisti e non solo il salotto buono. Ma Palazzo Chigi ha boicottato la modifica promossa da Mucchetti, affondata due giorni fa in Senato: “La riforma dell’Opa viene per l’en – nesima volta sospesa, ma non cancellata: la non ammissibilità riguarda il provvedimento sugli Enti locali cui era agganciata”. Forse prima o poi si farà, ma è troppo tardi per evitare che Telecom vada agli spagnoli per pochi spiccioli. Senatore Mucchetti, partiamo dall’inizio. Dopo l’annuncio dell’accordo Telco, il 24 settembre, il Senato fa le audizioni del caso e il 17 ottobre approva una mozione per la riforma dell’Opa obbligatoria. Il governo è un po’ per – plesso, ma non rischia il confronto. Si rimette all’aula, che dà un consenso plebiscitario alla mozione. Pochi giorni dopo, ecco un emendamento al decreto Imu che dà corpo alla mozione. Il governo, prima in commissione, poi in aula, chiede il ritiro dell’emendamento per evitare una terza lettura del decreto alla Camera. Si accetta solo perché il governo afferma di condividere gli argomenti del Senato e a provvedere “in tempi brevissimi”, testuale. Invece niente, nessun decreto sull’Opa. Passano le settimane, noi ripresentiamo, migliorato, l’emendamento. Questa volta alla legge di Stabilità, ma la commissione Bilancio del Senato non riesce a completare l’esame del disegno di legge. La proposta viene riagganciata al decreto per gli Enti locali. Nel frattempo, Marco Causi, deputato del Pd, la propone alla Camera, ma è dichiarata non ammissibile dalla commissione Bilancio (presieduta dal lettiano Francesco Boccia, ndr). E ora di nuovo inammissibile al Senato. Sono passati quasi tre mesi e la riforma resta al palo senza che il governo accetti un confronto pubblico. Non demorderemo, ma temo ormai che arriveremo tardi. Perché Letta è contrario a una riforma della legge sull’Opa che ostacolerebbe l’operazione di Telefónica? Il governo avrebbe preferito che, alla soglia fissa del 30 per cento oltre la quale scatta l’obbligo dell’Opa e che si è dimostrata inefficace, si aggiungesse una seconda soglia anch’essa fissa e non una legata al controllo di fatto, quando questo derivi da una partecipazione inferiore al 30 per cento ma superiore al 15. Sul piano politico, il governo avrebbe voluto un provvedimento che entrasse in vigore non prima del maggio 2014 così da non avere influenza sull’affare Telecom. In ogni caso, la convinzione del governo è così blanda che non è mai stata oggetto di una sua iniziativa. Un compromesso era possibile? Era già pronto un testo B con la seconda soglia fissa al 15 per cento. Ma Letta non vuole un provvedimento immediatamente esecutivo. Sarebbe, a suo avviso, un intervento su una partita in corso che scoraggerebbe gli investimenti esteri. Questa obiezione di Letta è fondata? È una preoccupazione che avevamo anche noi. Ma non è fondata. Il contratto Telco non prevede una data per il closing. Non si danno partite senza che si sappia quando l’arbitro fischia la fine. E non c’è passaggio del controllo fino a quando Telefónica non si attribuirà i diritti di voto sulle nuove azioni Telco acquisite il 24 settembre. Investimenti esteri: Telefónica, in Telecom dal 2007, si è sempre opposta a un aumento di capitale che abbattesse il debito, frutto delle speculazioni degli azionisti maggiori. Senza risorse, di quali investimenti parliamo? La Commissione Caio scoprirà che la rete fa acqua. Sarà una conferma autorevole. E poi? Telefónica non mette un euro in Telecom ma dà una mancia a Intesa, Mediobanca e Generali. Starei attento a non fare regali, quando si trovasse il modo di estrarre la rete da Telecom per farvi investire lo Stato. Letta sta lasciando andare Telecom per mantenere buone relazioni con Generali, Mediobanca, Intesa e con gli spagnoli, visto che è animatore del forum Italia-Spagna? Questo lo dice lei. Io credo alle motivazioni che Letta ha dato, ancorché non le condivida. Anche Mediaset vuole mantenere buoni rapporti con Telefónica, viste le operazioni sulla pay tv che hanno in discussione in Spagna… Non vedo come Mediaset possa condizionare Letta, essendo Forza Italia all’opposizione. L’assemblea dei soci di oggi potrebbe ribaltare la situazione? Molto dipenderà dalle scelte di BlackRock. Tutto lascia credere che il fondo Usa giochi con Telefónica, di cui è il primo socio non bancario. Come potrebbe sfiduciare il consiglio di Telecom che l’ha appena beneficato con il prestito convertendo? Un fondo autonomo avrebbe interesse a un ribaltone che renda contendibile Telecom. Che conseguenze avrebbe un eventuale concerto con gli spagnoli, alle spalle del mercato? Un accordo sottobanco tra Telefónica e BlackRock andrebbe provato dalla magistratura cui Consob ha passato le carte. Comunque, con Telefónica, BlackRock potrebbe ricavare benefici se appoggerà l’uscita di Telecom dal Brasile. Che cosa sta succedendo in Brasile? La banca d’affari brasiliana Pactual sta preparando un’offerta su Tim Brasil per ripartirla tra Telefónica, America Movil e Oi-Portugal Telecom. Quando arriverà l’offerta, Telecom l’accetterà riducendo Tim Brasil a un mero fatto finanziario o la lascerà cadere perché intende restare multinazionale? Se Telecom venderà, BlackRock potrà cedere bene la sua quota agli spagnoli restando sotto il 30 per cento. A quel punto si arriverà alla fusione per incorporazione di Telecom Italia in Telefónica, controllante de facto, a concambi azionari che lascio immaginare. Nessuno me l’ha detto, ma è lo scenario che temo. Esistono alternative a Telefónica? Certo. Telecom può anche andare avanti da sola con un vero aumento di capitale. In seguito, potrà partecipare ai processi di concentrazione delle telecomunicazioni lungo l’asse renano. Sommare i debiti di Telecom Italia a quelli di Telefónica, invece, non creerebbe ricchezza ma un debito più grande. Anche Orange e Deutsche Telecom hanno forti esposizioni debitorie, ma il rischio Germania e il rischio Francia sono inferiori al rischio Italia e al rischio Spagna. Dobbiamo decidere se stare nel Mediterraneo o giocare in Serie A.

→  dicembre 17, 2013


di Massimo Mucchetti

Faccio appello al premier e al segretario del Pd, dalle colonne de l’Unità, affinché rompano gli indugi e battano un colpo per salvare Telecom Italia dalle opache mene di un concorrente, Telefonica, o quanto meno costringano tale insidioso soggetto a pagare il dovuto lanciando un’Opa per contanti rivolta a tutti gli azionisti. Non che questo garantisca troppo, ma almeno la triste fine della madre di tutte le privatizzazioni costerebbe qualcosa al beneficiario finale e non si sarà risolta in un mancia, elargita dall’hidalgo Alierta, ai tremebondi signori di Generali, Intesa Sanpaolo e Mediobanca d’intesa con Mediaset.

E guardino, Letta e Renzi, che l’evocazione di Mediaset non è una svista travagliesca.

Sono perfettamente consapevole che questo appello ha poche probabilità di essere accolto. Enrico Letta non è mai venuto in Parlamento a illustrare la linea del governo e a rispondere alle perplessità che essa suscita. Si è limitato a poche parole di maniera: un po’ poco per chi dice di voler fare politica industriale. Matteo Renzi ha fatto una battuta a «Servizio Pubblico» che ho dimenticato. Ma chi presiede la commissione Industria del Senato, interpretando peraltro un’opinione multipartisan, ha il dovere di parlare chiaro anzitutto ai leader del governo e del partito che sostiene.

Inerzia ingiustificata
L’inerzia del governo e del Pd non si giustifica con il rispetto del mercato in un mondo nel quale i governi intervengono pesantemente nell’economia. È dei giorni scorsi la notizia che il Tesoro Usa ha perso 11 miliardi di dollari investendo in azioni Gm. Ha fatto male? No. Ha dimostrato di avere coraggio e visione, perché oggi Gm è tornata grande e genera gettito fiscale.

Con la loro pseudo neutralità, Letta e Renzi stanno commettendo lo stesso errore che commise D’Alema nel 1999. L’allora premier postcomunista non fu responsabile di una privatizzazione sbagliata di Telecom, come ha detto Renzi. La privatizzazione la fecero Ciampi e Draghi due anni prima, e qui non abbiamo lo spazio per raccontarla come si deve. D’Alema non fece votare il Tesoro, ancora nel 1999 maggior azionista singolo di Telecom, nell’assemblea chiamata dal management per varare misure anti scalata, che sarebbero state possibili al raggiungimento del quorum. L’avesse fatto, sarebbe stato difficile per la Banca d’Italia, altra azionista Telecom, chiamarsi fuori e anche qualcun altro in Italia si sarebbe posto il dubbio se quell’Opa facesse davvero gli interessi dell’azienda. Forse non sarebbe stato sufficiente a raggiungere il quorum o forse sì.

Certo, la neutralità di D’Alema, che pure aveva la responsabilità di proteggere il valore della partecipazione Telecom del Tesoro, favorì gli scalatori e aprì le porte alla politica del debito, esaltata poi da Tronchetti Provera, e alla cristallizzazione del controllo di fatto in una scatola finanziaria, poi passata di mano più volte senza nulla dare ai soci di minoranza e ogni volta aggravando le condizioni dell’azienda.
Ora, non si può criticare D’Alema, che pure operava all’indomani dell’approvazione delle norme sull’Opa obbligatoria, e dunque si trovava in fase sperimentale, e poi seguire la stessa posizione ponziopilatesca quindici anni dopo, quando la legge sull’Opa che ha dimostrato tutte le sue fragilità e quando la sequenza delle diverse proprietà ha fatto i danni che sappiamo a Telecom.

Di più, non si può girare la testa dall’altra parte quando il fondo di private equity americano Blackrock, grande azionista di Telefonica e consulente ben remunerato di Intesa Sanpaolo, viene favorito dal management insediato dagli spagnoli e dai loro sodali italiani in modo smaccato e sospetto con l’attribuzione di una parte cospicua del convertendo senza seguire le procedure che regolano i rapporti tra parti correlate. Non si può considerare normale che Blackrock informi prima l’americana Sec del suo rastrellamento azionario in Telecom Italia e si faccia richiamare all’ordine dalla Consob. Non si può far escludere dalla commissione Bilancio della Camera l’emendamento sull’Opa per estraneità di materia (che, invece, al Senato era stata concessa) per evitare un confronto alla luce del sole e poi, nottetempo, infilare nella legge di Stabilità un emendamento sulla Consob, quasi a volerla commissariare mentre sta cercando di far luce sulle molte oscurità del caso Telecom.

Il premier Letta dice che non si interviene in una partita in corso. Ma si ricorda che cosa fece il governo di Madrid in occasione del tentato take over di Endesa da parte della tedesca E.On? E si ricorda come Enel ci arrivò, bussando a tutte le porte e pagando tutto a tutti? Di quale partita si parla se il contratto, siglato il 24 settembre 2013 tra i soci di Telco, non prevede nemmeno una data per il closing? Si è mai vista una partita dove l’arbitro dà il fischio di inizio ma nessuno sa quanto deve durare? Se il closing avviene tra 5 anni, restiamo fermi 5 anni aspettando Godot? Il presidente della Consob, dice che si può modificare la legge sull’Opa senza che si possa parlare di effetti retroattivi fino a quando Telefonica non avrà la maggioranza dei diritti di voto in Telco. Perché palazzo Chigi fa finta di niente?

Ansia di compiacere
C’è forse una sfiducia preventiva nella Consob di Giuseppe Vegas perché Vegas è stato nominato da un governo Berlusconi. Eppure, l’impegno di Forza Italia sul fronte Telecom sembra al momento non andare oltre l’impegno generoso e intelligente dei senatori Gasparri e Pelino. Mi risulta che Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, non condivida le modifiche all’Opa.

E poi leggo sul Sole 24 Ore che Mediaset sta studiando con Telefonica un’offerta comune per la pay-tv iberica Digital Plus. Che cosa deve pensare una persona normale? Che cosa penseranno i militanti del Pd che sperano di girare pagina?

Non capisco quest’ansia di compiacere un soggetto come Telefonica in nome dell’attrazione degli investimenti esteri. Telefonica non sta mettendo un euro in Telecom Italia. E non l’ha mai messo prima. Anzi è perfettamente corresponsabile della carenza di investimenti dell’ex monopolio, dovuta ai debiti fatti dai suoi «padroni», non dall’azienda. Certo, Telefonica dà qualche denaro a Intesa Sanpaolo, Generali e Mediobanca. Ma allora vediamola dalla parte dei venditori, questa storia. E allora, di nuovo ci vuole chiarezza. Su sua richiesta ho ricevuto il presidente delle Generali, Gabriele Galateri, dopo l’annuncio del 24 settembre.

Per scoraggiarmi dal proseguire con la riforma dell’Opa obbligatoria, che potrebbe costringere il suo amico Cesare Alierta a mettere mano al portafoglio se vuol comandare, Galateri ha detto di aver avuto via libera da chi di dovere prima del 24 settembre. Letta mi ha sempre detto di non averne mai saputo nulla. E questo il governo ha detto in Senato. Quali sono i poteri occulti che hanno dato via libera al presidente delle Generali oppure questi viene in Senato a millantare?

Una caricatura di mercato
Caro Letta, caro Renzi, fermate questa brutta giostra. Che è una caricatura di mercato. Prima che, magari, qualche magistrato scopra un concerto tra spagnoli e americani degno di quelli del banchiere Fiorani sulla pelle di una delle maggiori aziende italiane, non di una media banca com’era Antonveneta. Date via libera, anche se forse ormai è tardi, alla riforma dell’Opa. E non diteci che bisogna studiare di più. Sono passati tre mesi e non avete mosso un dito. E non diteci, quando riformate la Banca d’Italia per decreto in 10 giorni perché i disegni di legge rappresentano un binario morto, che qui ci vuole un disegno di legge.

→  dicembre 3, 2013


La patrimoniale, come il mostro di Loch Ness, periodicamente riappare. Ma mentre gli avvistamenti del misterioso abitante del lago scozzese si sono diradati, quelli dell’imposta si sono fatti più frequenti. Evocate a volte a fini redistributivi, a volte per ridurre debito pubblico, tutte le patrimoniali straordinarie – quelle, per intenderci, un colpo secco e via – sembrano ignorare un fatto: che a pagare le imposte sono le persone, non i loro beni.

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→  novembre 14, 2013


Riassunto delle puntate precedenti. Un neozelandese compera all’asta per 2,9 milioni l’isola di Budelli. Insorgono WWF e la Coldiretti, Fulvio Pratesi e il nipote di Garibaldi, in 76.000 rispondono all’appello, si invoca l’intervento del neo senatore Renzo Piano: lo comperi l’Ente Parco Nazionale della Maddalena. Ma non si può, l’art 138 della precedente legge finanziaria impedisce a qualsiasi ente pubblico di comperare immobili fino al 31 Dicembre. Il termine per la prelazione scade l’8 Gennaio: si sterilizzi dunque il 138. SEL presenta il relativo emendamento alla legge stabilità.

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→  novembre 11, 2013


di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Alla fine degli Anni 80, la parte di attività economica gestita dallo Stato era in Italia superiore a quella di qualsiasi altro Paese europeo, eccezion fatta per la disastrosa parentesi dei governi Attlee e Bevan in Gran Bretagna.
Quel modello entrò in crisi all’inizio degli Anni 80, crisi politica e morale oltre che economica. Fu Giuliano Amato, prima da ministro del Tesoro, poi da presidente del Consiglio, ad avviare il processo per sottrarre le banche al controllo pubblico, creando i presupposti per la privatizzazione di Efim, Eni e IRI. Fu un cambiamento tanto radicale da paragonarlo (il paragone è dello stesso Amato) al passaggio tra regime fascista e Repubblica.
Perché, nonostante la ovvia differenza fra la dittatura mussoliniana e la Repubblica democratica, entrambe non conoscevano il senso del limite dell’intervento pubblico.
E sbagliato dire che non ci fosse una strategia e, ce lo consenta Raffaele Bonanni, non è da par suo sostenerlo sulla base dell’usurato folklore della finanza (giudaico-massonica?) a bordo del panfilo della regina d’Albione.
Prima ancora dell’esigenza di ridurre il debito (che comunque per effetto di quelle privatizzazioni scese in un quinquennio di 12 punti in rapporto al Pil, un risultato mai più ripetuto), c’era l’obbiettivo di restituire al mercato la parte di economia che per mezzo secolo era stata sottratta all’iniziativa privata.
Non solo questo aveva prodotto risultati che sarebbe impietoso ricordare (si pensi al fallimento dell’Efim che lasciò un buco stimato dal liquidatore, il professor Predici, in circa 7 miliardi di euro), ma soprattutto aveva impedito il formarsi di un vero capitalismo privato.
Per avviare le privatizzazioni venne approntato un nuovo quadro legislativo: il Testo Unico sulla Finanza, compresa la legislazione sull’Opa per rendere contendibili le aziende; la legge 474 per dare un quadro legislativo alle modalità di privatizzazione e alla destinazione del ricavato; le autorità di regolamentazione come condizione per privatizzare i servizi pubblici essenziali (se alcune non hanno funzionato è anche per il modo in cui la politica spesso ne ha gestito le nomine, non certo per colpa dei privati regolati).
Ma dopo averli tenuti nella bambagia per sessant’anni (con alcune importanti eccezioni), non si poteva pensare che spuntassero all’improvviso imprenditori italiani robusti.
A quello che era stato definito «capitalismo senza capitali» (e, potremmo aggiungere, con pochi imprenditori) si chiese di trovare i capitali, finanziari e umani, per acquisire oltre all’Iri, all’epoca la più grande azienda d’Europa, l’Enfi e altre più problematiche attività. Il tutto vincendo le resistenze interne dei manager delle aziende di Stato. Tutto si può fare meglio, ma essere riusciti a farlo comunque e in poco tempo, è stato un grande successo di cui andare orgogliosi. E, ci consenta di osservare, sin dall’inizio le critiche nascondevano la difesa di interessi particolari che le privatizzazioni avrebbero smantellato (ricorda la Stet?).
La riduzione delle spese è all’ordine del giorno. Ma, come abbiamo ricordato nell’articolo del 5 novembre, per tagliare le spese ci sono due modi: uno è ridurre quanto si spende per fare le cose, l’altro è ridurre le cose che si fanno. Il primo modo è sempre a rischio, richiede uno sforzo continuo nel tempo; il secondo è definitivo. Finché un’attività è dello Stato, lo Stato deve gestirla, e ciò costa soldi e comporta responsabilità. Dopo che ha venduto, lo Stato non gestisce più: la dimensione e i costi dell’amministrazione si riducono in modo permanente. Ciò che succede dopo, giusto o sbagliato che sia, lo è per gli azionisti, allo Stato non costa.
Vendere un’impresa pubblica non significa ridurre la ricchezza del Paese. Le aziende statali non sono, se non in senso strettamente contabile, «ricchezza del Paese». Al contrario, spesso la inibiscono impedendo od ostacolando la nascita di aziende che provino a far e le stesse cose senza la copertura del «papà Stato». La ricchezza di un Paese sta nella sua produttività e nella sua capacità di innovare, che non nascono certo fra imprenditori protetti dallo Stato. Il prestigio di un Paese non sono le aziende statali: è il fatto che la gente voglia venirci per lavorare e provare ad avere successo. Magari investendo in Italia, acquistando un’azienda. Ma perché dovrebbe farlo se sa che verrà pregiudizialmente accusato di essere complice di una «svendita»?

→  novembre 11, 2013


di Raffaele Bonanni

Caro direttore,
il dibattito innescato dall’editoriale di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi sulle privatizzazioni ci ha riportato indietro nel tempo e precisamente ai primi di giugno del 1992 quando a bordo del panfilo della famiglia reale inglese «Britannia», in una riunione di esponenti della finanza internazionale e del mondo imprenditoriale italiano, si decise di vendere gran parte delle aziende pubbliche (Iri, ma e Imi) per fare cassa, senza alcuna strategia industriale e senza alcun disegno di democrazia economica e di partecipazione dei lavoratori.
Fu, davvero, una occasione perduta perché quelle aziende si sono disperse e hanno una avuto una forte regressione sia sul mercato, sia sul piano occupazionale.
Hanno ragione Alesina e Giavazzi quando sostengono che bisogna abbattere il debito pubblico, riducendo drasticamente la pressione fiscale, giunta ormai a livelli insostenibili per i lavoratori, i pensionati e le imprese.
Ma non è vendendo le poche aziende d’eccellenza a capitale pubblico che si risanano i conti dello stato. Parliamo di grandi gruppi industriali che operano sul piano internazionale, che fanno utili e distribuiscono dividendi persino superiori al loro valore di mercato.
Vogliamo distruggere questo patrimonio umano e professionale come è accaduto per le telecomunicazioni o per gran parte del settore agroalimentare italiano? Non è questa la strada giusta. Lo diciamo fui da ora con fermezza al ministro dell’Economia, Saccomanni: la Cisl si opporrà alla prospettiva di ulteriori privatizzazioni al buio, senza una discussione seria con il sindacato sulle ricadute occupazionali, sulle garanzie degli investimenti e sulla partecipazione dei lavoratori nei luoghi alti della decisione imprenditoriale.
La ricchezza economica di un Paese va salvaguardata non dilapidata. Questo è il compito di chi governa la cosa pubblica. Per abbassare le tasse, l’unica strada possibile è quella di tagliare la spesa pubblica improduttiva. Si cominci con il dismettere subito il patrimonio immobiliare e demaniale che ammonta a circa 400 miliardi di euro. Chiudiamo tutti quegli enti inutili, le troppe società in house piene di debiti delle Regioni e quelle aziende municipalizzate dove si annidano sprechi, ruberie ed inefficienze. Mettiamo sul mercato le micro aziende statali, regionali o comunali mal gestite, lottizzate dai partiti e che non fanno utili. Il governo faccia subito un decreto, imponendo i costi standard a tutte le amministrazioni pubbliche, a tutte le Regioni, agli enti locali, alla sanità. Riduciamo le consulenze e il numero esorbitante dei dirigenti pubblici spesso strapagati, legati alla politica e senza alcun controllo di merito. Anche noi siamo contrari a ulteriori patrimoniali che rischiano di ricadere solo sulle spalle della povera gente, come è accaduto con le eccessive tasse sulle case. Ma un Paese civile non può consentirsi di tassare la speculazione finanziaria al 20 per cento, meno del denaro «sudato», come avviene in tutta Europa. O di proteggere il gioco d’azzardo online e i videogiochi (che hanno un volume d’affari di 5o miliardi di euro) con una tassazione scandalosa dallo 0,6 al 3% del fatturato. Cerchiamo di favorire gli investimenti esteri in Italia, invece di pensare di vendere grandi aziende come Eni, Enel, Finmeccanica o Poste che producono reddito, ricerca e innovazione. E se il governo ha davvero gli «attributi», come sostiene il presidente Letta, cominci da queste cose e non dalla vecchia ed equivoca ricetta di svendere i «gioielli di famiglia», ciò che fa prestigio, ricchezza e benessere per il nostro Paese.