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→  giugno 26, 2015


Troppo impegnati a inseguire Tsipras, i leader europei non si lascino sfuggire Londra mercatista, liberale e filoamericana

Non è ancora successo, ma so come andrà a finire: il solito papocchio, la Grecia resta nell’euro. Non è ancora successo, ma temo come andrà a finire: nessun compromesso, l’Inghilterra uscirà dell’Unione europea. I due fatti non sono uno conseguenza dell’altro, ma sono conseguenza di un terzo a monte di entrambi: una gestione politica dell’Europa che non esita a perdere la faccia per far restare la Grecia, e che non esita a perdere l’anima anche a rischio che ci lasci l’Inghilterra. Lloyd Blankfein ha detto che l’errore era stato accettare l’entrata della Grecia: impedendone l’uscita, si raddoppia. Allora Atene aveva falsificato i conti consuntivi, adesso falsifica quelli preventivi. Impressiona la manifestazione di debolezza: che cosa si teme? Se è per le drammatiche conseguenze per la Grecia, l’Europa – rectius la Banca centrale europea – ha risorse sufficienti per tenere a galla un paese che ne è qualche punto percentuale. Se è per le conseguenze geopolitiche per l’Europa, già ci è già stato preannunciato il ricatto a cui oggi, cedendo, ci consegniamo. Se le conseguenze temute sono poi quelle per il resto dei paesi dell’euro, è impressionante la manifestazione di debolezza che implica: i conti pubblici italiani, spagnoli, eccetera, hanno dunque la solidità delle promesse greche? Non volendo riconoscere che la rigidità rende i sistemi fragili, si pensa di rimediare alla fragilità del sistema irrigidendolo: guai se uno esce dell’euro, avanti a testa bassa, fiscal union, political union. Una situazione di insolvenza è stata trattata come crisi di liquidità, i finanziamenti sono stati spostati dalle banche agli organismi istituzionali, cioè dal privato al pubblico, eliminando la possibilità che l’aumento dei tassi segnali il rischio. Un problema economico è stato reso politico.

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→  giugno 24, 2015


articolo collegato di Carlo De Benedetti

Ragionando in termini finanziari il problema dell’Europa con la Grecia è uno solo: «non dovevate farla entrare». Difficile dare torto a uno come Lloyd Blankfein, il ceo di Goldman Sachs, uno che solo nell’investment banking mobilita 1,6 miliardi di dollari all’anno. Quando un mese fa l’ho incontrato a New York la nostra discussione è andata, direi naturalmente, su quello che entrambi consideravamo il problema dei problemi: un’Europa che non solo non riesce e fare passi avanti, ma ne sta facendo più di uno indietro. A cominciare proprio dalla Grecia.

In termini finanziari Lloyd ha senza dubbio ragione. Nessuna unione monetaria può reggere su differenze così macroscopiche tra economie nazionali. La Grecia, al di là della falsificazione dei parametri sull’indebitamento, non era in grado di stare insieme alla Germania nella stessa moneta.

E a nulla potevano servire i numeri e i numeretti, i parametri e vincoli, dietro ai quali si è voluto nascondere questa realtà. Oggi le Borse festeggiano un possibile accordo, ma tutta la questione greca – come sottolineava oggi Gideon Rachman sul Financial Times – è un lose-lose qualsiasi sia l’esito della trattativa perché le premesse sono sbagliate.
L’Europa finanziaria, l’Europa dei numeri, è un dead man walking, un brutto sogno che non avremmo mai dovuto concepire. E non ce ne tireremo fuori con altri numeri, altri vincoli, altre regolette. L’Europa esiste, ed è un grande progetto per il futuro, se torniamo a considerarla prima di tutto una comunità di valori e di cultura. E in questo contesto la Grecia è un pilastro del nostro futuro comune, il fondamento stesso – indispensabile – dell’Europa. Ma allora va cambiato completamente il paradigma. Va preso atto del fallimento del disegno a trazione tedesca che da 25 anni produce solo danni. Siamo il continente che cresce meno in tutto il globo, conosciamo una disoccupazione che mai avevamo avuto, demograficamente arretriamo e, soprattutto, ogni giorno vediamo crescere al nostro interno le forze distruttive disgregatrici del populismo anti-europeista e razzista.

È vero, c’è stata la crisi finanziaria. Ma come abbiamo risposto? L’epicentro della crisi c’è stato negli Stati Uniti, loro inizialmente ne hanno vissuto l’impatto più drammatico, ma hanno reagito subito. Chi ha sbagliato ha pagato e si è fatto da parte. Le banche sono state nazionalizzate e poi rimesse sul mercato. La Banca federale non ha mai smesso di pompare liquidità nel sistema. In pochi anni l’economia è tornata a girare e a crescere, la disoccupazione è scesa dal 12 al 5,5 per cento.

È vero, c’è stata la crisi finanziaria. Ma come abbiamo risposto? L’epicentro della crisi c’è stato negli Stati Uniti, loro inizialmente ne hanno vissuto l’impatto più drammatico, ma hanno reagito subito. Chi ha sbagliato ha pagato e si è fatto da parte. Le banche sono state nazionalizzate e poi rimesse sul mercato. La Banca federale non ha mai smesso di pompare liquidità nel sistema. In pochi anni l’economia è tornata a girare e a crescere, la disoccupazione è scesa dal 12 al 5,5 per cento. Intanto abbiamo il record di produzione di progetti per la “nuova Europa”. Pieni sempre di numeri, di parametri, di regole. Avevamo provato a darci una Costituzione e l’avevamo fatta di 370 pagine. Un orrore. Se poi abbiamo provato ad essere ambiziosi, abbiamo prodotto il libro dei sogni che si chiama Lisbona: tanti obiettivi meritori senza una road map che fosse minimamente credibile.

E così siamo qua. Siamo qua a vedere crescere in tutta Europa l’onda dei partiti della rabbia e della protesta. In Francia, in Spagna, in Italia (da noi ce ne concediamo addirittura due), in Grecia. È con vero dolore che ho visto raddoppiare i consensi delle forze anti-europeiste anche in Danimarca, un Paese che amo da sempre, per il suo spirito di libertà, tolleranza, apertura, un Paese anche ben governato. Ma fino a quando la regola dell’Europa sarà quella dei vincoli e dei parametri numerici andrà così.

Anche sulla questione immigrati abbiamo risposto con la stessa logica, con lo stesso stile: lentamente, impiccati dalla mancanza di una policy comune sull’immigrazione e sull’asilo. Secondo le Nazioni Unite i rifugiati nel mondo del 2014 sono stati 59,5 milioni, niente di simile è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale. Una situazione eccezionale che richiederebbe risposte eccezionali. Le soluzioni esistono (così dicono gli esperti), ma occorre cambiare il linguaggio politico e di conseguenza è necessario coraggio e visione di lungo termine. Come ricorda Silvia Kaufmann, i 28 capi di Stato e di Governo che si incontreranno questa settimana a Bruxelles dovrebbero avere in mente un precedente tragico: la conferenza di Evian del luglio 1938. Convocata dal Presidente Roosevelt, aveva lo scopo di trovare una soluzione per le centinaia di migliaia di ebrei tedeschi e austriaci disperati dopo che Hitler li aveva espulsi. La conclusione della conferenza fu una catastrofe: né l’Europa, né il Nord America, né l’Australia accettarono di dare asilo a numeri significativi di questi rifugiati. Anche allora le due parole più usate furono “densità” e “saturazione”. Auguriamoci che l’Europa, che ha già vissuto anni fa questa tragedia, non dia una risposta che ha già avuto in passato conseguenze così catastrofiche.
Ma tutto fa pensare che non accadrà. Che l’Europa continuerà la sua deriva.
Andrà così. Andrà così fino a quando non saremo in grado di darci regole capaci di far nascere leader politici europei. Dove pensiamo di andare con l’Europa così com’è? Perciò serve una rifondazione. E non basterà di certo l’aspirina prevista nel documento dei cinque presidenti.

Dobbiamo ricorrere a dosi massicce di politica per restituire l’Europa agli europei. Dobbiamo prendere coscienza che l’Europa esiste se torniamo a concepirla come una piattaforma unica di valori e cultura. Anche gli Stati Uniti, in fondo, funzionano così. Nessuno si immagina di far diventare l’Arkansas una Silicon Valley. L’Arkansas viene sovvenzionato, perché è parte di un sentire comune.

L’Europa così com’è ha fallito. O ne prenderemo rapidamente atto, e saremo capaci di cambiare, oppure saremo travolti dall’onda. Va recuperato l’orgoglio di essere la comunità che ha dato al mondo, proprio partendo dalla cultura ellenistica, il meglio del pensiero e dei diritti dell’uomo. Solo su questa base potremo ancora stare insieme e costruire un futuro comune.

→  giugno 24, 2015


articolo collegato di Martin Sandbu

The referendum on UK membership of the EU is still some time off but the rhetorical attacks have begun, calling out those who wanted Britain to join the euro, most of whom have retracted their support or tried to forget it. Eurosceptics do not intend to let them get away with it. If you were so misguided as to have supported the euro then, they argue, surely we cannot take seriously your argument for continued EU membership today.
So, even if euro membership for the UK is not on the agenda, it is important to revisit the case. And the sceptics’ argument is unfounded: there is a good case to make that Britain would have fared better in the crisis inside the single currency than it did outside.
The eurozone’s terrible economic performance weighed heavily on Britain, dashing hopes of a recovery led by investment and exports. It happened because European leaders failed to pursue the best policies — in particular, their failure to end the credit crunch and loosen monetary conditions sooner, and their choice to push austerity even in economies with ample fiscal space.
The important question, therefore, is how the UK would have changed the eurozone’s policies from the inside. The answer is: in ways that would have brought growth back faster.
Take monetary policy first. The Bank of England would be a heavyweight inside the euro, and not just on account of its economy’s size. The BoE’s intellectual pole position on monetary matters and its feel for financial markets, honed by centuries in the middle of the City of London, would have made it a leader within the European Central Bank.
How would that influence have been used? The BoE understood the need for extraordinarily aggressive policy much better than its counterpart in Frankfurt. In October 2008, the ECB raised rates while the BoE embarked on a loosening that cut rates by four percentage points in less than six months. It has kept them at 0.5 per cent since March 2009, the month in which it launched an asset purchase programme that has accumulated government bonds worth a fifth of annual national income.
In contrast, the ECB raised rates twice in 2011, which helped throw the eurozone back into recession with knock-on effects on UK growth. And it took Frankfurt six years to follow Threadneedle Street’s lead on asset purchases.
Britain’s central bankers would have fought for similarly aggressive policies on the ECB’s executive board. Indeed the country’s huge, wobbly banking sector would have left them — and the rest of the ECB ­— with no other choice. (Even outside the euro, UK banks have trillions of liabilities denominated in euros, which the BoE could not have printed in the case of a run. Within the euro, that would have been the ECB’s problem.) One of the euro’s largest economies could not have been bullied the way smaller countries at risk were treated.
We cannot know how successful they would have been, but it is clear eurozone monetary policy would have tilted in a more pro-growth direction, and one that more confidently stabilised financial markets. Had the ECB started a broad bond-buying programme in early 2009, before the sovereign debt crisis was on the horizon, yields might never have spun out of control as they did.
What about fiscal policy? George Osborne, chancellor of the exchequer, can seem more fiscally conservative than Germany. But his original economic plan relied on eurozone demand for UK exports picking up the slack left by brutal deficit consolidation. From his perspective, the optimal policy would have been rapid cuts for high-deficit countries but compensatory stimulus in those with room to do so. That implies resisting Germany’s push for deficit cuts by all. This could have spared the eurozone a second downturn and shortened the UK’s patch of stagnation.
So in the fiscal sphere, too, British euro membership would have tilted policy in the direction of growth. And the influence could have been substantial. Recall Prime Minister David Cameron’s “veto” of the contractionary fiscal compact. In the event it was no veto: Germany pressed ahead, via an intergovernmental treaty committing 26 states to balanced budgets. But its intent was always to change fiscal policy for the currency union as a whole. One eurozone member could have stopped it.
To deny that British euro membership would have made the crisis better for all is to ignore the difference the UK would have made. Perhaps this is credible if one thinks Britain is as mismanaged at home and ineffectual abroad as Italy. But that is a strange view to take for those who believe Britain is so much more capable than its neighbours that it is better off outside their team.

→  giugno 21, 2015


articolo collegato di Barbara Spinelli

Dice Christine Lagarde, mettendo in guardia la Grecia in nome del Fondo Monetario, che «possiamo riavviare il dialogo solo se ci sono adulti nella stanza». Paradossalmente ha ragione: ci sono troppe persone incaute, troppi esperti economici privi di memoria storica e coscienza geopolitica, nelle stanze dove da mesi si sta decidendo il destino non tanto di Atene, quanto dell’Unione. Perché quando si discute dell’euro e delle sue regole, quando si invocano istituzioni europee più solide senza mettere in questione i parametri chiamati a sorreggere la moneta unica, è di tutta l’Europa che si parla e non di un singolo Paese in difficoltà.

Non è completamente adulto il Fmi, che difende a oltranza riforme strutturali giudicate dal Fondo stesso nocive e controproducenti, dunque sbagliate, fin dal 2013. Non sono adulti coloro che agitano lo spettro del Grexit, fingendo che sia una cosa facile, seminando panico nei risparmiatori greci, disinformando sul caos che regnerebbe nella Banca centrale ellenica. I Trattati dell’Unione e lo statuto della Bce non prevedono uscite unilaterali dall’euro, a meno che il Paese a rischio bancarotta non decida preliminarmente di abbandonare l’Unione stessa. Cosa che il governo greco non ha alcuna intenzione di fare. Cacciarlo non si può.

La verità l’ha accennata Mario Draghi, il 15 giugno nel Parlamento europeo, chiedendo che a sciogliere i nodi siano i politici dell’Eurogruppo e non i banchieri centrali. Si è guardato dal proporre alternative serie, ha ripetuto che «la palla resta inequivocabilmente in campo greco», e con ciò è stato più “politico” di quanto pretendesse, ma ha ammesso che in caso di ulteriore deterioramento dei negoziati «entreremmo in acque inesplorate».

Le pressioni che si stanno esercitando su Atene, perché comprima ancor più spesa pubblica e pensioni già ridotte al minimo, conferma che l’Unione è guidata da poteri sprovvisti di senso della responsabilità. Se fossero adulti, quei poteri inviterebbero nelle stanze dei negoziati persone che abbiano senso storico, e soprattutto memoria. Persone con una visione centrale e un forte principio ispiratore, consapevoli del fatto che la storia è tragica, memori dei disastri passati e lucide sui pericoli incombenti: lo sfaldarsi dell’Unione, e della sua forza di attrazione presso i propri cittadini.

Ci sarebbero, seduti al tavolo delle trattative, esperti geo-strategici, ed economisti sistematicamente disprezzati, anche se in questi anni non hanno sbagliato previsioni, come i due premi Nobel Joseph Stiglitz e Paul Krugman. Tra coloro che insistono nel chiedere al governo Tsipras riforme strutturali già compiute non si annoverano economisti preveggenti ma piccoli politici che pur di conservare il potere rimangono pigramente appesi a dottrine dell’austerità al tempo stesso egemoniche e defunte, perché smentite da fatti di cui non si vuol tenere conto. Il prodotto interno lordo della Grecia, calcolato a prezzi costanti, è già calato del 27% a seguito dell’austerità, il debito pubblico è salito al 180% del Pil, e la disoccupazione è giunta al 27%.

Gli esperti in geopolitica aiuterebbero a capire la centralità della Grecia in un’Europa alle prese con un caos, alle proprie frontiere orientali e meridionali, che non sa e non vuole affrontare autonomamente, prendendo le distanze da una strategia statunitense che coscientemente resuscita la guerra fredda con la Russia e che al di là del Mediterraneo ha contribuito a creare un arco di destabilizzazione esteso dall’Africa subsahariana fino all’Afghanistan. La Grecia è ai confini con questo mondo, all’incrocio tra Balcani, Medio Oriente, Siria. I suoi legami con la Russia sono forti e antichi. L’avversione del governo Tsipras alle guerre contro il terrore, e oggi a interventi militari in Libia per smantellare le reti di trafficanti, è ben conosciuta a Berlino e Parigi. Non meno conosciuta è la sua avversione al Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Qualcuno forse nell’Unione vuol perdere Atene proprio per questi motivi. Ma la perdita sarebbe un suicidio geopolitico dell’Europa.

Se non vuole continuare a essere una pedina delle amministrazioni Usa e precipitare in una nuova guerra fredda, se vuole guardare con occhio freddo alla questione ucraina – riconoscendo che da un’oligarchia filorussa si è passati a un’oligarchia legata a estreme destre russofobe – l’Europa non può fare a meno della Grecia. Non può farne a meno neanche sulla questione immigrazione. Il nuovo governo ellenico sta affrontando un afflusso di migranti e richiedenti asilo ben più pesante e improvviso di quello italiano. Lo fa senza cedere a impulsi xenofobi. È non solo scandaloso ma immensamente ottuso giocare con l’ipotesi di un Grexit, e tacere sull’Ungheria che il 17 giugno ha annunciato la costruzione di un muro lungo 175 chilometri, ai confini con la Serbia, per fermare l’ingresso di profughi e migranti.

Mancano infine persone con un minimo di cultura generale, al tavolo delle trattative. In un articolo uscito il 16 giugno sulla Welt, il commentatore Jacques Schuster mette in guardia i connazionali tedeschi sostenendo che Tsipras si sta rivelando uno dei politici più astuti e abili d’Europa. In che consistono quest’astuzia e quest’intelligenza? Nel sondare l’anima tedesca, e nel profittare malvagiamente e furbescamente dei «nervi deboli» della Germania. Non potrebbe essere altrimenti, perché «i greci sono un popolo di naviganti», e i naviganti «sono abituati a fluttuare nelle acque, e a oscillare sull’orlo del baratro».

Articoli del genere sono allarmanti. Tornano parole del primo anteguerra, con le sue allusioni psico-etniche alla “nervosità” di singoli popoli personificati. E torna la distinzione tra mare e terra prediletta da Carl Schmitt negli anni ’30 e ’40 del secolo scorso: tra popoli senza legge abituati a dondolarsi negli oceani e civiltà ben ancorate alla terraferma, capaci conseguentemente di darsi il nòmos, la legge e le regole necessarie.

I capi europei sembrano venire da quelle epoche, monarchi che come ubriachi si lasciano tentare da simili vocabolari bellicosi senza averne coscienza. Il futuro dell’Europa è troppo importante per essere affidato a sonnambuli esperti solo in teorie economiche defunte. Essere adulti, in Europa, è riconoscere le acque non solo inesplorate ma melmose in cui rischiamo di entrare.

→  giugno 15, 2015


Il capitale sociale chi non ce l’ha non se lo può dare. Caro, Renzi, ecco perché un’Unione federale in Europa non curerebbe i vizi greci e nemmeno quelli (minori) italiani

Davvero la lezione dalla vicenda greca, comunque vada a finire, è che bisogna fare un passo avanti verso un’ulteriore cessione di sovranità, un‘unione fiscale e politica, con un proprio bilancio capace di assorbire gli choc, con un politico e non un tecnocrate al governo dell’economia, come dice Sandro Gozi, sottosegretario con delega agli affari europei? (la Repubblica 12 giugno)

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→  giugno 15, 2015


articolo collegato di Angelo Panebianco

D a decenni, con un’accelerazione dopo il varo della moneta unica, tanti invocano l’integrazione politica come panacea dei mali d’Europa. C’è del giusto. Non appare sostenibile la moneta unica in assenza di una «sintesi politica», di un sistema di governo. Semplice buon senso. In questi ragionamenti, però, c’è sempre stato anche qualcosa di poco convincente. Non è chiaro se chi invoca l’integrazione politica si renda pienamente conto delle implicazioni. Si ha l’impressione che molti la immaginino come una specie di assemblea di quartiere «in grande», nella quale si formano disciplinate maggioranze che decidono sulle proposte della giunta di quartiere su come ripartire oneri e vantaggi. Non c’è mai stato niente di più «spoliticizzato» della concezione della politica prevalente in quei commenti. Per ragioni che attengono alla storia dell’integrazione europea, l’idea di politica che vi è stata appiccicata sopra è quella che poteva inventarsi (con l’interessata complicità dei governi) un club di tecnocrati convinti che le decisioni che contano dovessero essere prese all’interno del club medesimo: gente educata e preparata che pacatamente discute del bene comune. Il popolo, poi, null’altro avrebbe dovuto fare che avallare le lungimiranti decisioni. Niente di più lontano da ciò che la politica è: conflitti di potere in cui si consumano ambizioni personali e di gruppo, e scontri frontali, e spesso feroci, fra contrapposte visioni di ciò che è collettivamente bene o male.
La politica, quella vera, si fonda sul principio dell’inclusione e dell’esclusione sulla base di criteri predefiniti (tu sei dentro e tu sei fuori) e ha un rapporto intimo, e inesorabile, con l’uso della forza. C’è una spiegazione del perché la concezione della politica prevalente sia stata quella del suddetto club di tecnocrati. Era l’idea di politica propria di un’Europa che non contava politicamente più nulla. Quando l’integrazione europea mosse i primi passi, negli anni Cinquanta, e ancora nei decenni successivi, l’Europa era divisa fra sfere di influenza, dipendeva dalle superpotenze. È parte della retorica europeista la bugia secondo cui gli europei decisero di mettersi insieme perché non volevano più farsi la guerra come era avvenuto per secoli. Invece, gli europei si misero insieme perché non potevano più farsi la guerra: non erano più il centro del mondo, ora dipendevano dagli americani e dai russi. Poiché la politica (in quel suo aspetto fondamentale che riguarda le decisioni su guerra e pace e sull’uso della coercizione) era competenza delle superpotenze, poiché l’Europa era ormai solo spettatrice delle gare di potenza, ne derivò una concezione irrealistica, distorta, di ciò che avrebbe significato, nei decenni a venire, unificarla politicamente. Ora le illusioni dovrebbero essere cadute. Se era comprensibile fino a qualche anno fa che si pensasse all’integrazione nei termini sopra descritti, adesso che la politica, quella vera, è venuta a cercarci, diventa colpevole insistere. Altro che Grecia. Che fare con la Russia o con le popolazioni in movimento dall’Africa e dal Medio Oriente, o con lo tsunami dell’estremismo islamico? Che fare insomma con i grandi nodi geopolitici? Sulla Russia, ad esempio, gli europei hanno adottato una posizione comune (le sanzioni) ma una parte di loro la subisce, si è dovuta inchinare di malavoglia a ciò che resta della leadership americana. Ma quella parte d’Europa è anche pronta, se potrà, ad accordarsi con lo zar delle Russie. Ma una cosa è dire che della collaborazione dei russi abbiamo bisogno (per esempio, in Medio Oriente), una cosa diversa è aspettare l’occasione per normalizzare i rapporti con loro fingendo che, dall’occupazione della Crimea in poi, nulla sia successo. Che razza d’Europa hanno in mente coloro che, ragionando solo di esportazioni e importazioni, pensano sia possibile una rinnovata partnership con Putin alle condizioni di quest’ultimo? È il solito vuoto, il solito «nulla politico», di cui in Europa esistono fior di cultori e specialisti.Sull’immigrazione si è scatenata una competizione di stampo nazionalista fra i Paesi europei. Renzi, nell’intervista di ieri al Corriere , ha sostenuto con ragione che dobbiamo battere i pugni in Europa e che lo stiamo facendo. Ma è un fatto che i vari governi europei, pronti a lasciare l’Italia nelle peste, non sono «cattivi», sono pressati da opinioni pubbliche che pretendono argini contro i flussi migratori. E in democrazia, ciò che vogliono le opinioni pubbliche è «legge» per i governi. Nulla meglio dell’incapacità di elaborare una politica comune dell’immigrazione illustra quanto ingenue siano sempre state le idee prevalenti sulla «integrazione politica». C’è qualcosa che si può fare? Sì, ma occorre tempo. Si elimini per sempre, quando si parla di Europa, qualunque riferimento alla parola «Stato» o simili: non ci sarà mai nessuno Stato europeo e genera crisi di rigetto il solo accennarvi. Come la Lega anseatica, la confederazione di città mercantili tedesche del tardo Medio Evo, abbiamo bisogno di mettere in comune poche cose e dobbiamo spiegarlo bene agli europei: niente superstato, niente scavalcamento (se non per il poco che è indispensabile) delle democrazie nazionali, solo un ristretto insieme di decisioni comuni per fronteggiare le più insidiose sfide esterne. Abbiamo effettivamente bisogno di politica. Ma anche di sapere di che cosa stiamo parlando .