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→  febbraio 28, 2008


a cura di Luca Ricolfi

Negli ultimi dieci anni la nostra economia ha cominciato a perdere di competitività, e da allora il distacco dalle altre economie europee è rimasto identico. Tutti gli squilibri sociali denunciati alla fine degli anni Novanta ci sono ancora; le nostre imprese sono sempre le più tartassate d’Europa; idem per quanto riguarda la lentezza della giustizia, lo stato delle carceri, il funzionamento delle ferrovie, il costo dell’energia. Dopo gli anni spensierati della Prima repubblica, che ha visto la crescita senza freni del debito pubblico, abbiamo assistito al tentativo di risanare i conti dello Stato, ma con un unico strumento, e cioè la pressione fiscale.

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→  febbraio 26, 2008


di Giuliano Cazzola

Quando si è saputo che Pietro Ichino era disposto a candidarsi nelle liste del Pd (si veda lo scambio di lettere sul Corriere della Sera tra il giurista milanese e Franco Debenedetti che lo sconsigliava di accettare) è successa l’iraddiddio (pardon: della dea Ragione, visto che essere laici è più politacally correct). Gli esponenti della Cosa Rossa hanno fatto a gara nel coprire di insulti il povero professore, avvalendosi – sono parole di Lanfranco Turci – di argomentazioni simili a quelle che sono costate la vita a Massimo D’Antona e a Marco Biagi e che costringono Pietro a vivere “blindato” da anni. Più cauti e civili i sindacalisti della Cgil (Paolo Nerozzi e Nicoletta Rocchi andranno a riequilibrare in Parlamento i picchi di riformismo in cui si esibisce Veltroni). Ma la musica è sempre la stessa: giù le mani dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A tarda serata, dopo il lancio di un chilo di dispacci di agenzia carichi di contumelie nei confronti del giurista, è giunta la presa di posizione ufficiosa del Pd, all’insegna del veltroniano “ma anche” (che ha fatto la fortuna del comico Crozza). “Ichino è bravo – si diceva – e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue”. E Massimo D’Alema – su Il Sole-24Ore – ha chiuso il caso: Ichino “è intelligente – ha dichiarato – coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico”. In pratica, ragazzino lasciaci lavorare!

E adesso? Che cosa farà il professore? Rinuncerà all’arma potente dell’editoriale del Corriere della Sera per diventare un “profeta inascoltato”? Questa esperienza Ichino l’ha già archiviata più venti anni or sono (come deputato del Pci): era senz’altro più giovane e meno noto di adesso, ma si accorse ben presto che al suo pensiero innovativo nessuno dei suoi compagni prestava attenzione. Tanto che – e fu la sua fortuna – non venne rieletto. Sinceramente avremmo gradito che il Cavaliere – in un guizzo comunicativo – si fosse rivolto a Pietro Ichino – proprio nel giorno in cui subiva in solitudine la gogna delle Erinni e dei trinariciuti – offrendogli di capeggiare la lista del PdL in Lombardia e promettendogli di poter svolgere, a vittoria avvenuta, un ruolo di primo piano nel prossimo governo. “Caro professore – avrebbe dovuto affermare Berlusconi – perché si ostina ad essere trattato come un cane in chiesa? Le sue idee sono le nostre. Venga a prendere il posto che fu di Marco Biagi. In materia di lavoro avrà carta bianca”. Sicuramente – e purtroppo – Ichino avrebbe declinato l’invito, ma la mossa del leader del PdL avrebbe fatto discutere e preteso una risposta seria da parte dell’interessato. Ma se il Cavaliere non ha colto l’occasione una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche “dure” del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione. L’handicap del centro destra continua ad essere il solito: con scarse propensioni riformiste il PdL non riesce a penetrare nell’intellighenzia del Paese. Così finisce per diffidare degli intellettuali e dei tecnici, in nome di un primato della politica tutto da dimostrare. Ed è un atteggiamento sbagliato, perché niente è più credibile sul piano internazionale di un civil servant di indiscusso prestigio, la cui influenza non dipenda dai voti del suo partito ma dalle competenze che gli sono riconosciute. Nessun ministro dell’Economia sarebbe meglio di Mario Monti. Se Prodi non avesse potuto contare sulla credibilità di Tommaso Padoa Schioppa, i circoli internazionali avrebbero sbattuto la porta in faccia alla sua compagine senza attendere nemmeno un minuto. Alla pregevole azione del governo Berlusconi è mancato proprio l’ésprit de finesse della competenza. Si prenda, per tutti i casi, la legge di riforma costituzionale, ottima nell’ispirazione di fondo (tanto da tornare di attualità), ma scritta coi piedi sul piano della tecnica legislativa. Si consideri, al contrario, la legge Biagi, una delle pagine più alte della legislatura, un provvedimento che ha fatto il giro del mondo e che fa testo ovunque si studi il diritto del lavoro. Dietro ad essa c’era la cultura non solo di uno studioso eccellente, ma della sua scuola, tanto che Michele Tiraboschi è stato pronto a prendere il posto del maestro caduto e a portarne a termine l’opera. Ma se Biagi non fosse caduto sul campo dell’onore, la CdL avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo?

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La ricetta di Veltroni è debole e non può funzionare, la sinistra ci prova, il tesoretto non è mai esistito
di Franco Debenedetti – La Repubblica, 25 febbraio 2008

→  febbraio 25, 2008

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Intervista a Tremonti

*In rosso, le porzioni di testo evidenziate da Franco Debenedetti

La distribuzione. Per fermare i prezzi stop alla globalizzazione. Lo Stato dovrebbe acquistare beni di prima necessità da distribuire alle famiglie più bisognose

ROMA – Onorevole Tremonti, l’inflazione cresce e il problema del potere d’acquisto è sempre più urgente. Veltroni vi accusa di avere bloccato la restituzione del tesoretto. Cosa replica?

«Sul set – risponde il vicepresidente di Forza Italia – è già tutto pronto per il ciak della scena prima. La sequenza: “imbarco-uscita in mare della nave”. I riflettori sono accesi, la nave è nuovissima, il comandante iconografico nella sua uniforme, l’ascensore sociale – quello della mobilità e dei talenti – sta portando sul ponte di prima classe bella gente: affascinanti e attempati gentiluomini, ricercatrici avvenenti, figli di industriali. Tutto intorno si cominciano ad occupare con garbo elegante le chaise longue. La lista dei passeggeri di seconda e terza classe non è ancora nota. Ma in fondo non è importante. La rotta della nave è quella della felicità: nel discorso di Milano si stabilisce “il diritto alla felicità” e sulla banchina se ne distribuisce il biglietto. La nave si chiama Titanic, l’iceberg contro cui andrà a sbattere si chiama Istat. Quanto al tesoretto non è che noi abbiamo detto no, è che non esiste».

Ma l’iceberg inflazione c’è per tutti. Voi come lo eviterete?

«Prima di partire bisogna conoscere il mare in cui entri. Quello uscito con l’Istat non è il solito dato congiunturale sull’inflazione, è un dato strutturale sul “carovita”. Un fenomeno nuovo che viene dall’Asia e impatta violentemente e verso il basso sulle masse popolari dell’America e dell’Europa. E’ il portato della globalizzazione, un fenomeno disegnato, creato e cantato da quelli che hanno governato l’Occidente, l’Europa e l’Italia negli Anni Novanta e che ora si ricandidano a farlo. Artefici e vittime di un destino che non hanno capito. Quella che vendevano come l’età dell’oro è durata solo per un pugno di anni, ora stanno arrivando tempi di ferro. La globalizzazione ci sta presentando il suo primo conto. Quando nel 1995 ho scritto il “Fantasma della povertà” nessuno ci credeva!».

Ha portato guai davvero così terribili la globalizzazione?

«Un fenomeno che altrimenti avrebbe occupato decenni e decenni è stato prima compresso e poi fatto esplodere in pochi anni: la Cina è entrata nell’Organizzazione del commercio mondiale solo l’11 dicembre 2001. L’India in parallelo. È così che di colpo sono cambiate la struttura e la velocità del mondo. Un miliardo di persone sono passate di colpo dall’autoconsumo al consumo, dal mercato chiuso al mercato aperto e hanno cominciato a vivere con noi, come noi, insieme a noi. Se il petrolio che c’è nel mondo, se gli animali da carne che ci sono nel mondo, se il grano che c’è nel mondo restano uguali ma la domanda cresce violentemente, i prezzi esplodono. Quello che voglio dire è che la causa del drammatico impoverimento popolare che sta arrivando non è interna ma esterna. E qualcosa di simile non si è mai visto nella storia. Il secondo conto della globalizzazione è quello della crisi finanziaria, una crisi che sta piegando l’economia americana e con questa l’economia dell’Europa e dell’Asia. È una alternativa drammatica: se la globalizzazione continua come oggi la massa della nostra popolazione sarà più povera, se la globalizzazione entra in crisi finanziaria sarà ancora peggio. Le cause, le colpe, i rimedi li ho scritti in un libro che uscirà ai primi di marzo».

Che propone di fare?

«Per cominciare bisogna dire che cosa non fare. Non entrare in questo scenario con il pensiero debole, con il populismo leggero, con il relativismo, con il sincretismo, con il veltronismo. Nei dodici punti di Veltroni c’è tutto tranne l’essenziale. Ci trova il congedo di paternità, il Sud che diventa un hub, l’energia pulita con il sole e con il vento come nel Mulino Bianco, le centrali di sapere, le infocittà, i cento campus ecc. ecc. Non trova le tre parole che invece marcheranno i prossimi anni: la parola crisi, la parola solidarietà pubblica, la parola Stato. Ricorda quando parlavo di colbertismo? Le annuncio il clamoroso necessario ritorno del pubblico! Veltroni pensa a “chiamare il mercato” per risolvere i problemi sociali. Io penso che, in tempi di ferro, questo lo debba e lo possa fare molto di più lo Stato. Veltroni è arrivato alla Terza Internazionale essendosi preparato sui libri della Seconda. E’ arrivato a copiare il Berlusconi del 1994 solo che Berlusconi lo faceva nel 1994 oggi siamo nel 2008, in un mondo totalmente diverso».

Il vostro programma invece ha la ricetta giusta?

La nostra bozza di programma incorpora il tempo duro che c’è e che arriva. Se ci fa caso comincia dall’Europa, dalla protezione delle nostre industrie e dei nostri capannoni, del nostro lavoro. Quando la chiedevamo con Bossi, Veltroni ci accusava di barbarie economica adesso le stesse cose le chiedono Obama e McCain. Un dettaglio che non è un dettaglio: prevediamo che il governo compri beni di prima necessità e li distribuisca ai comuni e al volontariato per aiutare chi non arriva a fine mese».

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→  febbraio 22, 2008

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Intervista a Franco Debenedetti
di Rodolfo Parietti

Qualche tempo fa, con l’abituale gusto per la facezia, aveva scritto: «È più vantaggioso essere pessimisti che ottimisti». Eppure, l’ingegner Franco Debenedetti, classe 1933, ex senatore dell’Ulivo per tre legislature, ci tiene a mettere nella giusta prospettiva le stime della Commissione europea sull’asfittica crescita italiana. Per il semplice fatto, dice, «che non c’è nulla di nuovo. È da 10 anni che il nostro Paese è costantemente al di sotto del tasso di sviluppo europeo».

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→  febbraio 20, 2008


di Marco Alfieri

Da quando esistono Forza Italia e la Lega, la “questione settentrionale” è diventata uno dei trailer mediatici più di successo della seconda repubblica. Ma la sinistra, nel profondo nord, ha sempre perso. Nord terra ostile, appunto.
Attraverso un’analisi acuta e disincantata – a metà tra pamphlet di scenario e reportage sul campo – il libro racconta in presa diretta la modernizzazione, spesso caotica ma vitale, di territori a capitalismo diffuso dove la qualità delle infrastrutture, la competitività della propria azienda, i tanti lavori invece del ‘posto fisso’, il rapporto con il fisco, le lentezze della burocrazia e l’emergenza sicurezza sono dimensioni decisive nelle scelte di voto.

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→  gennaio 31, 2008

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da Peccati Capitali

Emma Marcegaglia, giovane, perbene, nordista, una storia industriale personale e di famiglia, un’esperienza alla guida dei giovani: ha tutto per essere un buon presidente di Confindustria. L’interrogativo è un altro: cosa deve essere una “buona” Confindustria? Qualcuno (Francesco Giavazzi ma non solo) dice che ormai non serve più e che dovrebbe chiudere. Io ci andrei piano: abbiamo bisogno di quelli che De Rita chiama corpi intermedi, che sappiano produrre e connettere identità a fronte della pervasività dello Stato.

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