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→  ottobre 1, 2008

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L’intervista

Dopo la bocciatura del rescue-plan da parte del Congresso Usa, ieri il presidente Bush ha rivolto un appello perché si agisca subito, garantendo che si arriverà ad una soluzione. I mercati prima sono crollati, poi ieri, dopo l’annuncio, hanno reagito in modo positivo. Difficile prevedere lo scenario. Per Franco Debendetti «ci sarà una grande concentrazione di banche, quindi minore concorrenza, e questo è già un male. In America si finirà con 3 o 4 megabanche universali. In Europa dipende molto dalla velocità con cui si farà pulizia nei bilanci. Se non lo si farà, si rischia un esito alla giapponese»

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→  settembre 26, 2008

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di Giuseppe De Rita

Caro direttore,
non sono passate molte settimane da quando scrissi sul rapporto fra mercato e intervento pubblico, rapporto che, per me antico saraceniano, corrisponde al concetto e alla prassi dell’«economia mista». Scrivevo allora che non amo più di tanto questo termine, perché lo considero figlio di un’epoca passata, ma le vicende delle ultime settimane mi convincono a tornare sull’argomento, forse con un po’ di maggiore cattiveria. Sono infatti sbalordito dal modo un po’ svagato e impudente con cui politici e opinionisti ripropongono il tema.

A parte l’onesta determinata lucidità con cui Giulio Tremonti dice che «la salvezza è nel pubblico» e Francesco Giavazzi ribadisce il primato del mercato, il panorama delle opinioni è congestionato e confuso, con qualche tocco di furbizia. Ci si ritrovano infatti la propensione a pensare “a pendolo” (prima il mercato, poi il pubblico, poi il mercato, e oggi di nuovo il pubblico); la vaga definizione di nuovi necessari ruoli di intervento dello Stato (da quello diretto sulle opere pubbliche alla ridefinizione delle regole di sistema); la ricerca di nuovi mix di responsabilità, con la riproposta di un’«economia sociale di mercato»; l’avventura intellettuale e politica verso concetti e prassi di sussidiarietà orizzontale e verticale, che per ora hanno sfondato solo nella dottrina sociale cattolica. Un panorama, mi si perdoni la preannunciata cattiveria, un po’ desolante, specialmente se si mettono a confronto le opzioni sopra elencate con le spietate difficoltà poste a tutti noi dalla crisi, nazionale e internazionale, che stiamo attraversando. Dovessi io gestire la crisi, sparerei a vista a chi mi venisse a parlare di sussidiarietà o di economia sociale di mercato (chiedendo venia al professor Natalino Irti e alla Scuola di Friburgo). Con tutti i dubbi di chi l’ha vissuta in prima persona e ne ha visti il bene e il male, preferisco la rude prassi decisionale beneduciana, di un uomo che era convinto che l’economia mista prima si fa e poi la si teorizza.

Riproporre l’economia mista comporta però la presa di coscienza che oggi, rispetto al passato, vince un accentuato policentrismo dei poteri, sia privati che pubblici; e che quindi non si può riproporre una pura e semplice pendolare ripresa di un determinante intervento statale. Non siamo più la società semplice degli anni fra il 1935 e il 1960; siamo una realtà molto più complessa per cui lo Stato può essere indispensabile in casi specifici ma non può ritornare a essere quel «soggetto generale dello sviluppo» su cui tanti (quorum ego) hanno discettato fino a metà degli anni 70. Ricordiamoci infatti che il nostro sviluppo ha non uno, ma tanti soggetti. Un sistema che ha cinque milioni e mezzo di imprese è per sua natura policentrico; un sistema che ha un centinaio di migliaia di aziende che affrontano con successo e in piena autonomia la globalizzazione imperante, è policentrico; un sistema in cui alcuni settori importanti (distribuzione, logistica, trasporto) sono regolati da una concentrata dialettica fra piccole e grandi imprese, è policentrico; un sistema in cui la dimensione finanziaria e bancaria ha dato luogo a un’intensa metamorfosi dimensionale e istituzionale, è policentrico (basterebbe vedere come alcune grandi banche hanno recentemente operato con un impegno da “banche di sistema” che in passato sarebbe stato demandato alle grandi agenzie pubbliche); un sistema in cui alcuni enti locali, regionali e comunali, hanno sviluppato proprie strategie di sviluppo (in Emilia o in Lombardia, a Torino o a Milano, nella conurbazione triveneta come nei piccoli comuni dell’Italia centrale) è policentrico.

Questo non vuol dire che la responsabilità politica e l’intervento pubblico siano oggi poco importanti, vuol dire solo che essi devono sostenere il policentrismo e non sostituirlo: devono cioè dare generale orientamento politico alle decisioni e ai poteri dei vari soggetti (capendo e gestendo oggi la crisi e aiutando domani le minoranze vitali che competono sui mercati mondiali); e devono concentrarsi su singole e strategiche operazioni di infrastrutturazione che diano assetti di rete al policentrismo imprenditoriale e localistico. Per il resto asteniamoci; prendiamo decisioni e operiamo di fatto in una logica di economia mista, ma senza filosofarne, se non vogliamo innescare pericolosi atteggiamenti collettivi di securizzazione.

Si dirà da qualcuno che anche questa attiva limitata partecipazione del potere pubblico al complessivo policentrismo del sistema potrebbe collidere con le filosofie e le prassi “mercatistiche” dell’Unione europea. Ma la crescita di complessità e articolazione dell’economia europea impone a tutti un po’ di elasticità culturale, prima che politica. Attento come sono, da ricercatore, al progressivo policentrismo di interessi e di poteri che l’Europa a 27 sta creando, credo che sarebbe delittuoso governare ancora il continente con l’approccio ideologico (puramente liberista sul piano economico, ottusamente burocratico sul piano normativo, sotterraneamente lobbistico sul piano del business) che ha contraddistinto il governo comunitario negli ultimi due decenni. Qualcosa va cambiato, ma avremo la forza politica e la presenza dialettica per non restare su un piano puramente esigenziale? Io credo di si, se non ci sentiremo in difficoltà minoritarie; la nostra esperienza di economia mista e di governo policentrico del sistema non sono cose di cui vergognarsi, sono anzi componenti essenziali, e oggi indispensabili, di un moderno governo dello sviluppo.

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→  settembre 16, 2008

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L’intervista

Ingegner Debenedetti, da un lato Lehman Brothers va verso il baratro, dall’altro il Tesoro americano dice no al salvataggio. Qual è il suo commento?

La brutta notizia è il fallimento di Lehman, la bella notizia è che il Tesoro Usa non è intervenuto. È nei momenti di crisi che il mercato fa il suo lavoro; quando tutto funziona nel migliore dei modi, il mercato non discrimina. È nei momenti di crisi, invece, che il mercato fa la selezione.

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→  settembre 8, 2008

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di Geminello  Alvi

In queste ancora calme settimane di fine estate s’è avviato sui giornali un utile dibattito sulla economia sociale di mercato. E già l’aggiunta della parola sociale fa intendere al nostro lettore come si sia mitigata quella mitizzazione del mercato astratto che ci tormenta da anni. Il ministro Tremonti intende farne uno dei temi d’azione di cui si discuterà a settembre. La qual cosa un po’ turba Mario Monti, il quale però, con ogni suo prudente garbo, paventa il discredito del liberismo. Teme che dietro la critica alle follie globalizzanti si celi un ritorno al mercantilismo. Ovvero a più dazi, arbitri del potere statale. Michele Salvati a sua volta da una parte approva il timore di Monti, dall’altra rimprovera Tremonti di poca socialità. Di non aver ridotto abbastanza le tasse ai redditi meno elevati. Insomma Monti o Salvati l’esito è uguale: per fare più sociale l’economia di mercato si dovrebbero dosare redistribuzione statale e controlli: si dovrebbe usare lo Stato per lenire i guai del mercato globale, ma non troppo. Ecco la conclusione che si ricava a leggerli, e che con franchezza, mi pare un po’ troppo poco.
Se ne ha l’impressione di rimasticaticcio, di giri di parole per parare il colpo, ricondurre il tema ai soliti liberismi di sinistra. Negli anni ’70, l’economia era ridotta dalle sinistre a lotta per ridistribuire il reddito, e più Stato. Queste aberrazioni si sono negli anni corrette, ma a dosi di conformismo liberal. L’idea di socialità in economia è restata infatti la stessa: qualcosa che lo Stato deve imporre, e tutela. Idea, direi, del tutto sbagliata. E però è la sola possibile per una cultura di sinistra stanca, e che non ha mai voluto rinnovarsi. Sarebbe solo bastato in effetti già leggersi Omero, per capire che la parola «oikonomia» significa redistribuzione ospitale. Dunque è inerente, originaria all’atto economico una solidarietà, che non implica lo Stato. Perciò Olivetti nei suoi esperimenti a Ivrea parlava della sua fabbrica come di una comunità: influenzato da Rudolf Steiner, voleva tenerne ben fuori lo Stato politico. Ma non gli si badò, tutti presi da Marx o Sraffa. E trascurando per esempio pure von Hayek, liberista estremo, ma che vedeva nello scambio una catallassi, un’ammissione nella comunità.
Insomma la mia tesi è che un’economia sociale può compiersi meglio per via comunitaria e libertaria, limitando le tasse, e ogni intrusione statale. Nel migliore dei casi con la cultura e la sanità finanziate da fondazioni. La socialità in economia richiederebbe del resto il meno possibile di far intervenire Stati o super Stati. Ma è quanto meno aggrada alle sinistre. Le quali, screditatisi tutti i loro statalismi, si sono messe a difendere i super Stati: la Ue o il Wto. Obliando le comunità concrete tormentate da tasse, immigrati, globalizzazioni, e alle quali gioverebbero perciò un po’ meno Stati e super Stati. E servirebbe invece un’impresa in armonia alla comunità, che mantenga il vincolo di sani bilanci; ma riunisca consumatori e lavoratori, in disegni di sussidiarietà. Calate così le tasse lo Stato potrebbe ridursi a poche funzioni; in confederazioni di comunità libere, anche di sottrarsi alle follie globalizzanti. Giacché non deve obliarsi: persino per il liberista estremo von Hayek lo scambio era una libera ammissione nella comunità.
In altri termini il dibattito sull’economia sociale non richiede le solite chiacchiere stanche sull’equilibrio tra Stato e mercato. Non può svolgersi all’altezza dei tempi senza riferimenti alla cultura comunitaria e libertaria. Essa è varia e vasta, pure se ignorata in una cultura italiana, così impoverita dalle sinistre.

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→  agosto 31, 2008

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I rischi di Tremonti Andrebbe ridisegnato il welfare da cima a fondo. In Italia ancora troppa protezione verso i soggetti forti

Giulio Tremonti ha annunciato per l’autunno un’ampia discussione sull’economia sociale di mercato. Poichè questa espressione ha subito negli anni mutazioni e perfino metamorfosi, c’è da chiedersi che cosa con essa si intenda, oggi, in Italia.

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→  agosto 28, 2008

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di Carlo Bastasin

Sembrano slegati tra loro i temi che nelle ultime settimane hanno innervato il discorso pubblico italiano: la riscoperta dell’economia sociale di mercato, il futuro della scuola e il conformismo che si esprime nell’opinione pubblica. Ma se riuscissimo a intrecciarli metterebbero in luce una filigrana sorprendente e perfino scioccante della società italiana…

L’economia sociale di mercato non è un modello definito di società, ma una visione del ruolo centrale dell’individuo nella società. È nato nel ’48 in Germania cercando di coniugare il desiderio di libera iniziativa del cittadino con la sua necessità di sicurezza, a cui esso partecipa sia come percettore di risorse pubbliche sia come contribuente, come lavoratore e come capitalista. Dopo alcuni decenni, sulla libertà di iniziativa dell’individuo ha prevalso il ruolo politico dello Stato sociale, che aveva permesso di ricostruire un sentimento pubblico positivo. Una forma di patriottismo sociale è riuscita infatti a riscattare gli Stati nazionali screditati dalle tragedie della guerra e un sentimento di eguaglianza è diventato centrale nella tradizione repubblicana europea e nella sottostante identità etnica.

Tuttavia negli ultimi anni, nonostante uno Stato sociale enorme, la disuguaglianza e la povertà sono tornate a crescere. In Germania la quota dei poveri aumenta dal ’98 dell’1% all’anno e sfiora il 20% della popolazione. In Italia c’è uno scivolamento delle fasce medie di reddito verso il basso, mentre il debito pubblico impedisce sia di investire, sia di correggere le pesanti aliquote fiscali che colpiscono anche i redditi medio bassi.

Così, in Germania, dove pure è in atto una competizione a distribuire reddito in vista delle elezioni del 2009, la cancelliera Merkel ha lanciato una campagna di ammodernamento dell’economia sociale di mercato fondata sulla scuola. « Alla Bundesrepublik va sostituita la Bildungsrepublik»: la repubblica dell’istruzione.
Il ragionamento è semplice. I poveri sono per quasi tre quarti immigrati, spesso disoccupati, e per un’altra fetta sono genitori soli. I figli di questi cittadini sono svantaggiati dall’inizio alla fine della loro vita.

Il modo per aiutarli è l’intervento pubblico nelle scuole, dall’infanzia all’università. In tal modo si sviluppa non solo l’integrazione sociale, ma la capacità di crescita del Paese e una generale tensione alla conoscenza, alla competizione dei talenti e all’apertura delle idee.
Ciò che cambia radicalmente è che se nel passato l’obiettivo dello Stato sociale era l’elettore medio, fulcro dell’interesse politico, ora è invece quello ai margini: spesso non è nato in Germania, parla male la lingua, spesso nemmeno vota perché è troppo giovane o troppo sradicato. Il contrario dell’elettore mediano. È sufficiente questo a capire quanto anticonformismo politico sia necessario oggi per fare il bene del proprio Paese.

Merkel ha cominciato un viaggio tra asili e accademie dell’intera Germania, parla con i presidi e con i genitori e promette di riportare il sistema dell’istruzione alle vette del passato. I giornali ironizzano sul cancelliere che va a scuola e i Laender le contendono la competenza costituzionale. Ma il tema “scuola” è ormai tornato centrale, in modo semplice e credibile. Da qualche anno perfino i risultati degli studenti sono risaliti dal basso livello – pari a quello italiano – che aveva scioccato la Germania e scatenato l’allarme.

Proviamo un parallelo con l’Italia. Di questi tempi non si può nemmeno parlare di aiuti scolastici agli immigrati, che sono mal tollerati perfino se istruiti, nonostante garantiscano un futuro al Paese. Il clima di costante eccitazione elettorale inoltre porta a corteggiare il consenso della maggioranza contro quello delle minoranze e dei più deboli.

Un accenno del ministro dell’Istruzione alle disparità regionali della qualità delle scuole (approssimazione molto fedele dei dislivelli di reddito) ha suscitato irritazioni e facili ipocrisie, essendo peraltro in contrasto con l’anacronistica visione governativa di una scuola incubatrice dei sentimenti di tradizionalismo nazionale, di identità e di omologazione (fin dalla divisa). Infine alla verifica delle qualità degli insegnanti e degli studenti attraverso test nazionali, si è privilegiato il rafforzamento gerarchico dei presidi.

Chiusure nazionali, autoritarismo, pretese identitarie: la scuola non può crescere in questo conformismo. Il dibattito sull’opinione pubblica suscitato il mese scorso su queste colonne è presto deragliato su una strada ideologica, ma dovrebbe invece misurarsi proprio sul tema della scuola e dell’informazione, le piattaforme su cui si basa la libertà di scelta degli individui.
Una cornice di miseria psicologica di massa, in cui gli individui tendono a mimetizzare le proprie idee entro percorsi imitativi, sentendosi protetti solo se riaffermano ciò che è uguale a se stesso e discriminano ciò che è diverso – a scuola come nell’informazione – non è un ambiente da cui nascono idee e spirito di iniziativa. È anche così che il conformismo italiano da anni ostacola il cambiamento e lo sviluppo.

I media hanno la loro pesante responsabilità. Sarebbe infatti interessante vedere il presidente del Consiglio, così come ha fatto a Napoli con la questione rifiuti, confrontarsi sul campo con la questione della scuola. Ma che cosa succederebbe se Berlusconi imitasse la Merkel visitando licei e accademie per sensibilizzare il Paese? Telecamere, passerelle, applausi e fischi in un Paese politico trasformato dal suo sistema nervoso mediatico e dai suoi attori in un teatro vano e retorico.

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