Caro direttore,
Leggo sul Riformista del 18 novembre una lunga lettera di Franco Debenedetti (“Villari sì e Bassanini invece no”), zeppa di critiche e di insinuazioni velenose nei miei confronti. Le critiche sono tutte legittime quando non sono basate su una manipolazione dei fatti. Ma è invece ciò che fa Debenedetti fingendo ignorare che nel Consiglio d’amministrazione della Cassa depositi e prestiti non sono stato nominato da Prodi (come lui afferma falsamente) ma dagli azionisti di maggioranza, 66 Fondazioni bancarie non classificabili in termini di schieramenti politici.
E fingendo di ignorare che alla stessa presidenza della Cassa (come due anni fa alla vicepresidenza) sono stato designato dai medesimi azionisti di minoranza, e non dal Governo: anche se naturalmente la cosa è stata da essi trattata e concordata con Tremonti, nell’ambito di una riforma della governance della Cassa che affida all’amministratore delegato Varazzani tutti i poteri per la gestione dell’azienda e fa del presidente un organo di garanzia e di raccordo con gli azionisti e le istituzioni (Regioni, enti locali, commissione parlamentare di vigilanza).
Basterebbe questo dato, per vero, a smentire la ricostruzione critica di Debenedetti, il suo ricorso alla categoria del “collaborazionismo” (come un Franco Monaco qualsiasi!) e le illazioni sulla “valenza” della mia nomina (rectius elezione) per il Pd. Ma non si può non notare che anche Debenedetti (come, per vero, molti altri) sembra prigioniero di una cultura iperpoliticistica e ultrapartitocratica, per la quale qualunque cosa, e dunque anche le scelte del variegato mondo delle Fondazioni bancarie andrebbero ricondotte a logiche e convenienze di partito, e andrebbero su queste misurate. È peraltro la stessa distorsione culturale che ha spinto in passato lo stesso Debenedetti a contestare il ruolo e l’autonomia delle Fondazioni bancarie, come espressione della società civile («organizzazioni delle libertà sociali» secondo la felice formula usata da Zagrebelsky nella sentenza della Corte costituzionale che ne ha sancito la natura privata e l’incomprimibile autonomia), e che lo ha indotto a bollarle come insopportabilmente «autoreferenziali», perché non lottizzate dai partiti (almeno nella maggior parte dei casi). Ed è forse proprio questa una delle chiavi utili a capire le ragioni profonde della sua astiosa polemica.
Quanto alla intervista a Cazzullo sul Corriere, forse Debenedetti ignora che ci sono anche interviste (e intervistatori) non pilotati.
Cazzullo mi ha fatto le domande che voleva, e io gli ho dato risposte sincere. Per chi è convinto, come me, che le grandi riforme e le coraggiose innovazioni di cui il Paese ha bisogno richiedono, se non una grande coalizione, almeno un rapporto costruttivo e dialogico tra maggioranza e opposizione, era impossibile sottrarsi alla domanda sull’unica situazione politica che avrebbe consigliato una soluzione alla Merkel, il sostanziale pareggio elettorale del 2006. È peraltro una tesi che sostengo da anni, che ho illustrato nella prefazione all’edizione italiana del rapporto Attali (scritta con Mario Monti), che dunque nulla ha a che fare con la presidenza della Cdp.
Idem sul piano Rovati. È Cazzullo che ha notato qualche convergenza su quanto gli avevo appena detto e il piano Rovati. E Debenedetti, che riceve le newsletter di Astrid, sa perfettamente che da molto tempo andavamo riflettendo su quelle ipotesi (delle quali, all’inizio di quell’estate, avevo discusso con Bernabè, Colao, Parisi, Paola Manacorda, Francois de Brabant). La cena ferragostana con Prodi e Rovati è andata esattamente come ho riferito. Per ciò, pur giudicando intempestiva e inopportuna l’iniziativa di Rovati, l’avevo allora sostanzialmente condivisa nel merito e gli espressi all’epoca la mia solidarietà. So bene che ora questa ipotesi trova consensi nel centrodestra (ma non solo). E allora? Vogliamo porci il problema sostanziale, per il Paese, che è sottesa a quella discussione, o invece di privilegiare le peggiori logiche partitiche? Vogliamo capire chi può finanziare la ristrutturazione in fibra ottica del local loop della rete Tlc, che richiede non meno di 15 miliardi di nuovi investimenti? L’ipotesi di un intervento pubblico in una rete che (almeno per ora) è in regime di monopolio naturale, seguendo l’esempio del Giappone, della Corea (e della Francia), merita la pregiudiziale ideologica avanzata da Debenedetti? O non è questione (opinabile) da affrontare laicamente, confrontando soluzioni alternative?
Cordiali saluti
Franco Bassanini
Dallo statuto consultabile sul sito della Cassa non risulta che i soci che hanno più del 15% del capitale, cioè le Fondazioni, oltre al diritto di presentare una propria lista di consiglieri, abbiano quello di nominare né un vicepresidente né il presidente: con Prodi o con Tremonti, a essere “sovrano” è sempre il Tesoro. Se proprio si vogliono usare parole forti, “manipolazione” è indurre a credere il contrario. Parola forte è anche
“collaborazionismo”: non tocca all’autore difendere titoli e occhielli su cui non mette verbo, ma a Bassanini è sfuggito che, essendo messo al plurale, aveva senso affatto diverso. Quanto alle Fondazioni (bancarie, se è lecito precisare), è vero che la Corte ha sancito la loro natura privata, ma è altrettanto vero che la maggior parte dei membri degli organi di governo sono “nominati” direttamente o indirettamente dal pubblico.
È la differenza tra l’essere e il dover essere. Come al solito.
Franco Debenedetti
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di Franco Debenedetti – Il Riformista, 18 novembre 2008