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→  gennaio 28, 2015


di Michele Salvati

Quali saranno le conseguenze delle elezioni greche sui Paesi dell’eurogruppo, e soprattutto sui più deboli, nessuno è oggi in grado di prevedere: dalle prime reazioni dei mercati, delle autorità europee e dei Paesi più forti — della Germania soprattutto —, sembrerebbe esclusa una catastrofe imminente. Ma molte cose possono andare storte se il nuovo governo greco non si rimangerà gran parte delle sue promesse elettorali nelle negoziazioni con la troika. Se così non farà, e se l’atteggiamento europeo sarà poco flessibile, i rischi di guai seri saranno soltanto rimandati. Essendo troppe le variabili in gioco, guardare avanti è impossibile. È possibile invece guardare indietro e trarre qualche lezione, per noi e per i Paesi in condizioni simili alle nostre, dalla (sinora) breve storia dell’Unione monetaria europea.
Alcuni colleghi hanno trovato eccessive le affermazioni di un mio recente articolo (Corriere, 17 gennaio): che è stato un errore aderire al trattato di Maastricht e che, se fosse possibile farlo senza incorrere in costi esorbitanti, dovremmo uscire dalla moneta unica. A quell’errore ho partecipato: negli anni 90, la convenienza ad aderire al Trattato — data la situazione di inflazione latente e gli alti tassi d’interesse che eravamo costretti a pagare — mi sembrava ovvia. Non mi rendevo però conto che, nel lungo periodo, tale convenienza era legata a tre scommesse, tutte perse, dunque a tre illusioni.
La prima era che la favorevole situazione economica internazionale che accompagnò la nascita della moneta europea durasse indefinitamente. Ci eravamo dimenticati delle analisi di Keynes e di Minsky, dell’instabilità congenita del capitalismo, degli squilibri reali e finanziari che stavano montando. Quando esplose, nel 2008, la crisi finanziaria americana rapidamente si trasmise all’Europa, in un mondo ormai strettamente interconnesso i capitali cominciarono ad abbandonare gli investimenti nei Paesi più fragili dell’eurozona. Erano in euro, è vero, ma l’Europa non era uno Stato sovrano e non c’era una Banca centrale costretta a intervenire per difenderli, non c’era un prestatore di ultima istanza. Cominciò allora la divaricazione (spread) tra i rendimenti e iniziarono a crescere gli oneri a carico degli Stati più indebitati e più fragili. Già, ma perché negli anni favorevoli, tra il 1999 e il 2007, questi Stati non si erano dati maggiormente da fare per ridurre il proprio indebitamento e, più in generale, per aumentare la propria competitività?
E qui si rese evidente la seconda illusione: rimediare ai guasti di un passato di cattiva gestione economica e di debolezza strutturale non è per nulla semplice, e sicuramente non è rapido. Nelle migliori élite italiane circolò a lungo l’idea che il «corsetto» dell’euro avrebbe indotto i governanti a una gestione più responsabile delle finanze pubbliche (la famosa metafora di Ulisse che si fa legare all’albero maestro per non cedere alle lusinghe delle sirene). Si vide però assai presto, nella legislatura 2001-2006, che il corsetto non teneva e che il confortevole avanzo primario della precedente legislatura veniva rapidamente dilapidato.
Non voglio farne una questione di parte, perché dubito che un governo di centrosinistra si sarebbe comportato in modo molto diverso: troppo invitante è l’uso della spesa pubblica per assicurarsi consenso politico. Trasformare un Paese «vizioso» in uno virtuoso, quando non ci sono ragioni impellenti per stringere la cinghia, è uno sforzo politico sovrumano e richiede o un consenso sociale straordinario (quello inglese ai tempi della guerra, del «sudore, lacrime e sangue ») o un dittatore benevolo, più che un normale leader democratico. O entrambi. Ma non avrebbe potuto l’Unione — e i Paesi più forti dell’eurogruppo — venire in soccorso del Paese (temporaneamente?) in crisi e sotto attacco speculativo?
Questa è la terza illusione, la terza scommessa irrealistica, quella di scambiare il sogno di un’Europa federale con la realtà, una realtà in cui un demos europeo è molto debole, la politica è ancora largamente un affare nazionale, i sospetti e i pregiudizi dei singoli Paesi dell’Unione nei confronti degli altri sono molto forti. Se persino una parte del popolo italiano — quella rappresentata dalla Lega — protesta contro lo sforzo di mutualità richiesto alle regioni più ricche a sostegno di quelle più povere, e questo dopo 150 anni di unità politica, come illudersi che la Germania avrebbe potuto comportarsi diversamente con l’Italia?
Gli economisti si saranno accorti che mi sono limitato a riformulare diversamente parte degli argomenti secondo i quali l’Europa dell’euro non è un’area valutaria ottimale e dunque un’unione monetaria vincolante è difficilmente sostenibile. Questa è la lezione riassuntiva che i Paesi più fragili dell’eurogruppo dovrebbero trarre dall’esperienza dei quindici anni di moneta unica. La crisi provocata dalle elezioni greche può essere una occasione per ristrutturare l’intero edificio costruito a Maastricht. Una ristrutturazione che non abbisogni, per funzionare, delle tre scommesse illusorie che ho appena descritto.

→  dicembre 13, 2014


di Pierluigi Panza

È un errore piccolo piccolo, scoperto grazie all’ex senatore Franco Debenedetti, ma…anche i tedeschi non sono perfetti. È successo l’altro ieri al presidente della Repubblica Joachim Gauck nel discorso all’«Italian-German High Level Dialogue». «Ogni volta che entro nel mio studio a Schloss Bellevue – ha detto – assisto a un dialogo italo-tedesco: alla parete è appeso uno splendido quadro dell’italiano Canaletto che ritrae Dresda. Girandomi, posso ammirare il Paesaggio italiano del tedesco Adolf Friedrich Harper». Ma il quadro in questione è una Veduta di Dresda da sotto il Ponte di Augusto dipinta tra il 1751 e il 1753 non da Canaletto ma dal nipote Bernardo Bellotto (nella foto, una sua raffigurazione di Dresda). C’è da dire che Bellotto, dal 1747 pittore di corte presso l’Elettore di Sassonia, nei primi tempi sfruttò il nome del celebre zio.


Una voluta omonimia a ravvicinare la fredda trasparenza dell’aria di Dresda al caldo vibrare dell’atmosfera della laguna? Oppure il sotterraneo influsso del clima dell’incontro, in cui si è discusso di realtà e di rappresentazioni, di radici comuni e di interlocuzioni difficili, di passati ideali e di recenti contrasti?
(F.D.)

→  settembre 23, 2014


di Michele Ainisi

L’Italia è unita, gli italiani no. Si dividono per tifoserie politiche, per sigle sindacali, per corporazioni. Li separa la geografia economica, dato che il Pil del Mezzogiorno vale la metà rispetto al Settentrione. Sui temi etici restano in campo guelfi e ghibellini. Ma adesso s’alza un altro muro, il più invalicabile: l’anagrafe. Quella delle idee, con la crociata indetta dal premier contro ogni concezione ereditata dal passato. Dimenticando la massima di Giordano Bruno: «Non è cosa nova che non possa esser vecchia, e non è cosa vecchia che non sii stata nova». E quella, ahimè, delle persone. Distinte per i capelli bianchi, anche nel loro patrimonio di diritti.

Da qui la trovata che illumina il Jobs act : via la tutela dell’art. 18, ma solo per i nuovi assunti. Per i vecchi (6 milioni e mezzo di lavoratori) non si può: diritti quesiti, come ha precisato il leader della Uil. Curiosa, questa riforma che taglia in due il popolo della stessa azienda, mezzo di qua, mezzo di là. Riforma parziale, un po’ come una donna parzialmente incinta. Doppiamente curioso, l’appello ai diritti quesiti. A prenderlo sul serio, quando entrò in vigore la Carta repubblicana avremmo dovuto mantenere lo Statuto albertino per tutti i maggiorenni.
E a proposito della Costituzione. Nel 1970 lo Statuto dei lavoratori – di cui l’art. 18 rappresenta un caposaldo – fu salutato come il figlio legittimo dei principi costituzionali. Così, d’altronde, viene ancora definito nella letteratura giuridica corrente. Poi, certo, non ha senso discutere di garanzie quando manca il garantito: il diritto al lavoro esiste soltanto se c’è il lavoro. E a sua volta ogni Costituzione può essere applicata in varia guisa. Anche riconoscendo ai lavoratori licenziati un indennizzo, anziché il reintegro nel posto di lavoro. Ciò che tuttavia non si può fare è d’applicare contemporaneamente la stessa norma costituzionale in due direzioni opposte. Lo vieta la logica, prima ancora del diritto. Tanto più se il criterio distintivo deriva dall’età, di cui nessuno ha colpe, però neppure meriti.

Ma il Jobs act non è che l’ultimo episodio della serie. Le discriminazioni anagrafiche condiscono sempre più frequentemente la pietanza delle nostre leggi, ora a danno dei più giovani, ora degli anziani. Così, nel giugno 2013 il governo Letta decise incentivi per l’assunzione degli under 30. E i cinquantenni che perdono il lavoro? Perdono anche il voto, o quantomeno lo dimezzano, secondo la proposta di legge depositata da Tremonti nel 2012: voto doppio per chi è sotto i quarant’anni. Invece nella primavera scorsa la ministra Madia ha tirato fuori la staffetta generazionale nella Pubblica amministrazione: tre dirigenti in pensione anticipata, un giovanotto assunto. Dagli esodati agli staffettati. Tanto peggio per i vegliardi, cui si rivolgono però in altre circostanze i favori della legge, dalle promozioni automatiche all’assegnazione degli alloggi popolari, dalle pensioni sociali al ruolo di coordinatore nell’ufficio del giudice di pace (spetta al «più anziano di età»: legge n. 374 del 1991).

No, non è con queste medicine che possiamo curare i nostri mali. Occorrerebbe semmai una medicina contro ogni discriminazione basata sul certificato di nascita. Gli americani ne sono provvisti dal 1967 (con l’Employment act ), gli inglesi dal 2006. Mentre dal 2000 una direttiva europea vieta le discriminazioni anagrafiche nel mercato del lavoro. In attesa d’adeguarci, non resta che il soccorso d’una (vecchia) massima: i diritti sono di tutti o di nessuno, perché in caso contrario diventano altrettanti privilegi.

→  settembre 22, 2014


di Giorgio La Malfa

Caro direttore,

Sul piano strettamente economico la decisione del governo di procedere in questo momento a un’ulteriore riforma del mercato del lavoro per aumentarne la flessibilità a me sembra un errore. Anzi un errore grave che può compromettere ulteriormente una situazione economica che è già molto seria.

Non è questa solo l’opinione mia e di molti economisti. Oggi è una posizione che trova importanti convalide nelle analisi delle organizzazioni internazionali. Ha cominciato il Fondo Monetario riconoscendo che gli effetti della correzione accelerata dei conti pubblici ha avuto effetti depressivi molto forti. Ma quello che più conta è l’analisi, largamente ignorata in Italia, che ha fatto il Presidente della BCE, Mario Draghi, in un cruciale discorso tenuto il 22 agosto scorso negli Stati Uniti.

In quel discorso Draghi ha spiegato che nella disoccupazione europea vi sono due componenti, una strutturale collegata alle condizioni di rigidità del mercato del lavoro ed una ciclica collegata alle condizioni della domanda. Subito dopo ha detto che oggi la priorità è risollevare la domanda aggregata: “Le politiche di intervento sulla domanda non sono giustificate soltanto dalla significativa componente ciclica della disoccupazione. Esse sono rilevanti perché, data l’incertezza che prevale in questo momento, esse contribuiscono ad evitare il rischio che la debolezza dell’economia produca un effetto di isteresi [un circolo vizioso in cui la depressione della domanda causa una parziale distruzione della capacità produttiva ndA].” Ed ha concluso: “Oggi […] i rischi di ‘fare troppo poco’ – e cioè il rischio che la disoccupazione divenga strutturale – sono maggiori dei rischi ‘di fare troppo’ – cioè di determinare un’eccessiva pressione in aumento per i prezzi ed i salari.”

Se questa è la diagnosi di un autorevole economista che per di piu siede al vertice di una istituzione che è, per cosi dire, istituzionalmente conservatrice, come si può pensare che il problema di cui oggi ha bisogno l’Italia sia un’ulteriore flessibilità del mercato del lavoro? Il primo effetto della maggiore flessibilita sarebbe un ulteriore aumento della disocccupazione e un ulteriore avvitamento dell’Italia nella crisi. Il governo dovrebbe concentrare la sua attenzione sullo stimolo della domanda e lasciar stare il mercato del lavoro che la crisi di questi anni ha già reso anche troppo flessibile.

Non discuto le ragioni politiche che possono indurre il presidente del Consiglio a ingaggiare una polemica con I sindacati. I sindacati non sono molto popolari oggi, nemmeno fra I loro aderenti, e quindi scontrarsi con loro può creare delle simpatie nell’opinione pubblica. E il governo può averne bisogno essendo palpabile la disillusione di una parte dell’elettorato che aveva votato Renzi alle elezioni europee. Tutto questo si capisce, ma non vorrei che la ricerca della popolarità ci facesse fare nuovi e costosi errori.

→  agosto 21, 2014


Caro direttore, Renzi, se vuole, è capace di parlar chiaro. Lo ha dimostrato con le riforme istituzionali (Senato e legge elettorale): erano chiari gli obbiettivi, i tempi, le alleanze politiche, e il metodo, almeno per ora, sembra averlo premiato. Invece quando dice che «in nessun caso noi sforeremo il 3%» nel rapporto tra deficit e prodotto interno lordo (Pil), non riusciamo a capire se questa è una buona o una cattiva notizia. Cioè se significa che ha scelto la strategia di «tagli marginali e qualche aumento nascosto della pressione fiscale» che, secondo Alberto Alesina e Francesco Giavazzi (Corriere della Sera, 17 agosto), «ci regalerebbe un altro anno di crescita negativa», oppure se vuol dire che questo per lui è solo un traguardo di tappa, e che non ha rinunciato alla «strategia coraggiosa» che gli consigliano.

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→  giugno 22, 2014


di Piero Ostellino
«I l problema non sono le regole; sono i ladri». La frase, pronunciata da Renzi a commento dello scandalo del Mose, avrebbero potuto dirla Antonio Di Pietro o qualsiasi altro uomo politico della Prima Repubblica. È figlia della convinzione che, dopo Tangentopoli e Mani pulite, la politica la si possa fare solo delegandone la gestione alla magistratura e ai carabinieri. Che piaccia o no, è la definitiva trasformazione del Partito democratico nella vecchia Democrazia cristiana o, se si preferisce, in una specie di neoberlusconismo di sinistra. L’occupazione del potere per, poi, non usarlo che per conservarlo. Le chiacchiere sulla rottamazione delle generazioni precedenti, sul loro ricambio con le nuove e sulla politica di cambiamento, che Renzi continua a ripetere anche ora che è segretario del Partito democratico e sta al governo come se non lo fosse, sono state un’operazione di marketing per pervenire al ricambio di una classe dirigente postcomunista, logorata dal consociativismo con la Dc e ormai esausta, che non aveva più nulla da dire. Nel Paese, quelle chiacchiere sono state la forma che il trasformismo inaugurato nel 1876 con la caduta della destra storica e l’avvento della sinistra (liberale) ha assunto nell’era della comunicazione, che conta più della realtà effettuale e la crea e col quale, nel passato, si erano sempre mascherate, con doppiezza controriformista, operazioni di puro potere personale, politicamente legittime sotto il profilo formale, ma discutibili sotto quello degli interessi reali del Paese. Con Matteo Renzi, cui pare piaccia più essere capo del governo che farlo, la politica italiana registra il ritorno ai metodi della vecchia Dc. L’ex sindaco di Firenze, che è ambizioso e non lo nasconde, ha capito che prendersela con i ladri e promettere demagogicamente un futuro luminoso solletica il moralismo e il pressapochismo populista e non costa; anzi, rende, purché non si metta mano alle condizioni strutturali che generano i ladri. La frase che il problema non sono le regole, sono i ladri, è una riproposizione di quella sul «mariuolo Chiesa», che Craxi aveva usato per tenere fuori il Psi dallo scoppio di Tangentopoli. Ma quando Craxi chiamò, in Parlamento, le forze politiche ad assumersi collettivamente la responsabilità del finanziamento illecito dei partiti e a fare i conti con le degenerazioni del «sistema», fu isolato; Dc e Pci si spartirono il potere, l’una, quello istituzionale e economico; l’altro, quello culturale e politico, decretando, con la fine del Partito socialista come forza potenzialmente riformista, il trionfo del peggior conservatorismo. Il segretario del Psi sarebbe morto in esilio, mentre in Italia, con il compromesso storico, si sviluppava il progressivo degrado del Paese. Renzi ha fatto astutamente tesoro del fallimento del tentativo riformista craxiano per scalare, riuscendoci, sia la direzione del Pd, sia quella della politica nazionale. Se non toccherà gli interessi consolidati dalla struttura sociale corporativa ereditata dal fascismo, in altre parole, se non farà nulla di più di «promettere che molto, non tutto, è già stato fatto», come sta dicendo incessantemente, è probabile resti a lungo a Palazzo Chigi. Certo, qualcosa farà, una (parziale) riduzione della spesa pubblica, ormai fuori controllo, e una (relativa) razionalizzazione della Pubblica amministrazione perché la stessa forza delle cose glielo impone, ma non ridurrà l’eccesso di intermediazione politica rispetto alla sfera privata, che è la vera causa della corruzione. Non darà, come sarebbe auspicabile, più spazio al mercato, e al merito, rispetto al familismo e clientelismo amorale sul quale si regge l’intero Ordinamento politico e giuridico dal 1948. Le regole, in un Paese dove per costruire un nuovo capannone per la fabbrichetta, malgrado tutto felicemente in espansione, o per convertirla, ci vogliono decine di permessi, licenze, concessioni, si perde molto tempo per districarsi nella giungla burocratica e si spendono molti soldi in avvocati e consulenti, e dove il cittadino-contribuente non riesce più a orientarsi nel mare di una legislazione fiscale disordinata e invasiva, finendo regolarmente con essere trattato come suddito, contano caro Renzi, e come contano ! Sono esattamente le regole che lei dovrebbe cambiare. Ma che, temo, non cambierà perché ha capito che sarebbe defenestrato all’istante. Da vecchio democristiano, lei sa, andreottianamente, che il potere logora chi non ce l’ha. Perciò, dal governo, sta logorando il suo stesso partito, come la Dc aveva fatto, a suo tempo, sempre dal governo, col Pci e le stesse capacità di resistenza del Paese. Non è detto sia necessariamente un male; ma è altrettanto lecito dubitare, non solo da sinistra, che «morire democristiani» sia un bene.