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→  febbraio 5, 2006

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Partito Democratico

di Michele Salvati

Al dibattito sul Partito democratico nuoce un poco la commistione tra argomenti relativi a problemi di convenienza politica contingente e argomenti relativi alle idee, ai programmi, alla cultura che questo partito dovrebbe esprimere. Il primo tipo di argomenti è di solito riferito al centrosinistra e alle strategie più opportune per favorirne il successo elettorale. Il secondo tipo è quasi sempre declinato in riferimento al Paese: come il Partito democratico possa contribuire alla costruzione di un sistema politico più efficace, che elimini o riduca le storture che ci portiamo appresso dal passato, che immetta nella nostra politica una ventata di novità.
La commistione di argomenti è inevitabile. Come discussione politicamente significativa – c’era anche prima, ma riguardava solo pochi aficionàdos – quella sul Partito democratico nasce come conseguenza di una operazione politico-elettorale, e nell’ambito delle convenienze strategiche create dalla legge elettorale maggioritaria: la formazione della lista dell’Ulivo e la decisione di candidare Prodi come premier alle elezioni politiche del 1996. Si parte dunque dal «contenitore» e dalla convenienza a costruirlo. I «contenuti», l’anima, vengono dopo, un po’ per la spinta di Prodi, un po’ per la partecipazione degli aficionàdos di cui dicevo, e soprattutto per dare un senso all’alleanza tra i riformisti del centrosinistra. Riformisti che in larga misura provenivano da partiti che l’anima l’avevano lasciata nella Prima repubblica: quali erano, nella Seconda, le ragioni che giustificavano l’autonomia di un partito ex comunista ed ex democristiano?
Insomma, ragioni di contenitori e di contenuti si sono mischiate sin dall’inizio del dibattito, hanno continuato ad accavallarsi nelle sue numerose riprese provocate dalle iniziative di Romano Prodi, e si intersecano tuttora, nella discussione che si è accesa – solo tra gli aficionàdos, naturalmente, visto che Prodi non è intervenuto – a seguito di un mio lungo appello ai Ds che il Riformista ha pubblicato martedì scorso.
Discussione di cui anche questo giornale ha dato notizia mercoledì e a cui ha contribuito con l’articolo di De Rita pubblicato ieri. Che cosa dicevo? Due cose, in sostanza. Le ragioni di contenuto ci sono sempre: un Partito democratico non solo avvantaggerebbe il centrosinistra ma sarebbe utile per il Paese. Le ragioni di convenienza elettorale si sono invece molto ridotte colla nuova legge: se si vuol fare questo partito bisogna farlo presto, subito dopo le elezioni e finché dura la luna di miele della vittoria (se ci sarà), e bisogna accompagnare il tentativo con un ritorno al maggioritario. Le reazioni più impegnative e più argomentate che ho sinora ricevuto non riguardano il ragionamento sui contenitori: tutti riconoscono che le convenienze elettorali di una fusione tra i grandi partiti del centrosinistra sono diminuite e quelle dei singoli partitile della Margherita soprattutto, sono aumentate. Questo sposta la spinta per il Partito democratico tutta o quasi sui contenuti: esistono veramente buone ragioni storico-culturali per farlo? E, soprattutto, possono queste ragioni essere espresse e rappresentate da ex comunisti ed ex democristiani di sinistra, da Ds e Margherita, che dovrebbero essere i principali promotori dell’ iniziativa?
Si tratta di interrogativi che lo stesso appello provocava sostenendo una tesi all’apparenza paradossale: che il terreno comune dell’incontro non poteva essere altro che una cultura liberale, di sinistra ma liberale, perché è ormai questa la cultura dominante dei partiti riformisti nei Paesi europei, anche dei partiti socialdemocratici.
Il paradosso, mi faceva notare Biagio De Giovanni (ma anche, parlando di programmi concreti. Franco Debenedetti), sta nel fatto che nella Prima repubblica comunisti e democristiani sono stati tra i principali ostacoli alla diffusione di una cultura liberale nel nostro Paese e non si può dire che i loro successori abbiano fatto passi definitivi in questa direzione: «liberale» non è un insulto nella sinistra italiana come lo è in quella francese, ma talora poco ci manca. È una obiezione forte, lo riconosco, ma vale a maggior ragione se ex democristiani ed ex comunisti sono lasciati ognuno nel proprio contenitore, a cuocere nel proprio brodo: non potrebbe una fusione «calda», cui partecipassero molti enzimi della società civile, essere una buona occasione per sciogliere le resistenze che ancora rimangono?

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Rilancio della UE

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