→ luglio 21, 2008

di Sergio Romano
Siamo abituati agli atti d’accusa che coinvolgono numerose persone e alle sentenze, soprattutto in Appello e in Cassazione, che riducono considerevolmente il numero e le responsabilità degli imputati. Nel procedimento che concerne dal 2005 Telecom, Pirelli e il responsabile dei loro servizi di sicurezza, Giuliano Tavaroli, sembra che stia accadendo esattamente l’opposto. Durante lo «scandalo dei dossieraggi» (un gigantesco mercato di controlli telefonici e spionaggio informatico che coinvolse, come vittime e clienti, parecchie migliaia di persone) avemmo tutti l’impressione che le indagini avrebbero inevitabilmente trascinato sul banco degli accusati il presidente e l’amministratore delegato dell’azienda, rappresentati come registi dell’intera operazione. Ebbene, no. Dopo tre anni di indagini, la Procura della Repubblica di Milano starebbe per incriminare una trentina di persone, fra cui Tavaroli, e per rinviare a giudizio le società Telecom e Pirelli, ma avrebbe implicitamente scagionato Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora. Il «teorema», come direbbe Berlusconi, è stato smontato. Ma questo non è accaduto alla fine di un sofferto tragitto giudiziario, costellato di sentenze e di appelli.
È accaduto grazie a una Procura che, occorre riconoscerlo, non ha fatto nulla, nella fase calda dello scandalo, per alimentare sospetti e supposizioni. Forse è giunto il momento di chiedersi come e perché l’Italia sia particolarmente vulnerabile a questo tipo di vicende. Quando esplodono, gli scandali italiani cadono su un terreno pronto ad accoglierli. Una parte importante della pubblica opinione è convinta che la sua classe dirigente (politici, imprenditori, finanzieri) sia avida, corrotta, profondamente immorale, instancabilmente indaffarata ad arricchire se stessa e a derubare i suoi connazionali. La battuta di Giulio Andreotti («a pensare male s’indovina») è diventata un motto nazionale. In molti Paesi la possibilità che una truffa o un complotto siano stati orditi da personalità eminenti suscita generalmente sorpresa, sconcerto, incredulità. Da noi suscita una specie di trionfale compiacimento e ribadisce convinzioni diffuse. Le assoluzioni, quando arrivano, dimostrano soltanto che anche la giustizia, in ultima analisi, è al servizio dei potenti. Il sospetto che diventa una patologia nazionale crea un ingranaggio inarrestabile, un ciclo continuo, difficile da interrompere. Non è necessario costruire teoremi. Esistono già, depositati nel profondo della diffidenza e della sospettosità nazionali. Attenzione, non vorrei essere frainteso. In un Paese afflitto da corruzione, conflitto d’interessi, spirito mafioso e criminalità organizzata, gli scandali, purtroppo, sono spesso reali. Ma se è sciocco negarne l’esistenza, è altrettanto sciocco pensare che tutti gli amministratori pubblici siano ladri e tutti gli imprenditori sospettabili delle peggiori nefandezze. Il Paese, nonostante tutto, è molto meglio di quanto pensino i suoi cittadini.
Esiste naturalmente una responsabilità dei mezzi d’informazione. La stampa, nel senso più largo della parola, è lo specchio che riflette i sentimenti, gli umori e le idiosincrasie della società. Ma quella italiana non si limita a registrare gli umori del Paese. In molti casi li amplifica e li rilancia. Le ragioni sono in parte antiche e in parte nuove. Là dove non esiste una netta distinzione tra stampa d’informazione e stampa popolare, il giornale è spesso condannato a essere contemporaneamente l’uno e l’altro per cercare di raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Questa ambivalenza tende a diventare ancora più evidente in una fase in cui i giornali sono insidiati da nuovi mezzi d’informazione, moderni, aggressivi e destinati a conquistare una parte crescente della società. Esiste la concorrenza, beninteso, ma vi sono circostanze in cui costringe i concorrenti a rincorrersi verso il basso piuttosto che verso l’alto. Temo che nella vicenda dei dossier illeciti l’informazione abbia avuto, quasi senza eccezioni, le sue responsabilità. Per «servire» il lettore e non restare indietro rispetto alla concorrenza, ha finito per somministrargli ogni giorno una dose crescente di sospetti. E ha dimenticato che certe vicende, anche quando sono destinate a ridimensionarsi, possono avere conseguenze micidiali per la sorte dei protagonisti dello scandalo. Nel Sole 24Ore di ieri Franco Debenedetti ha intravisto una relazione tra lo scandalo dei dossier e le sorti di Telecom nei mesi successivi. Per Debenedetti in questa vicenda vi sarebbe anche lo zampino della politica. Può darsi. Ma vi è certamente una responsabilità della informazione di cui noi tutti dobbiamo essere consapevoli.
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di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2008
Telecom, Tavaroli dà la colpa a Tronchetti Provera
di Oreste Pivetta – L’Unità, 22 luglio 2008
→ maggio 16, 2008

Intervista a Franco Debenedetti
Ragionamenti rozzi e tesi paracomuniste che alimentano un clima populistico. Non usa mezzi termini Franco Debenedetti, manager di lungo corso, poi parlamentare dell’Ulivo e ora nei board di Cir, Cofide e Piaggio, nel bocciare la proposta della Uè di sforbiciare gli stipendi d’oro dei dirigenti.
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→ maggio 8, 2008

Intervista a Franco Debenedetti
ROMA — «Una compagine ben equilibrata, con punte di eccellenza». Il Berlusconi IV passa l’esame di Franco Debenedetti, ex senatore diessino, economista liberale.
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→ aprile 20, 2008

Lettere al Corriere
Studi sull’universo
Caro Romano, un tribunale, riportava il Corriere, potrebbe bloccare il Large Hadron Collider, il gigantesco acceleratore di particelle costruito a Ginevra con il finanziamento dei governi di mezzo mondo. Lì verranno riprodotte le condizioni dell’universo un decimo di miliardesimo di secondo dopo la singolarità della sua nascita, e si cercherà conferma dell’esistenza del «bosone di Higgs», il mattone mancante al modello standard della fisica delle particelle.
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→ marzo 26, 2008
Cosa insegna il caso AUDI
di Massimo Mucchetti
Da sei mesi in qua accadono fatti curiosi. A Londra, la Bank of England nazionalizza la Northern Rock dopo averle prestato risorse ingenti senza le usuali garanzie. A New York, la Federal Reserve assicura con risorse pubbliche il salvataggio della banca d’investimento Bear Stearns a opera della JP Morgan per evitare che la sua insolvenza mandi a picco altre banche sue controparti. A Detroit, la General Motors e la Ford licenziano operai e impiegati con salari alti e protezioni pensionistiche e sanitarie per sostituirli con giovani pagati la metà e senza corporate welfare. In Germania, l’Audi dà un bonus di 5.700 euro ai dipendenti, e non è la sola grande impresa a farlo. Sono episodi legati a circostanze specifiche, ma riletti in sequenza sembrano declinare la crisi dell’arciliberismo. Nel suo «Supercapitalism», che l’editore Fazi sta traducendo per l’Italia, Robert Reich, già ministro del Lavoro nella prima presidenza Clinton, sostiene che la supremazia del consumatore finisce per mettere in crisi il cittadino. La concorrenza senza vincoli determina la ritirata del diritto, figlio della politica, a favore di una contrattazione sempre più parcellizzata, nella quale prevale il più forte e la rappresentanza del lavoro dipendente viene sopportata come un cartello residuale. Nella pubblica amministrazione e nei monopoli, in effetti, gli insiders costituiscono spesso corporazioni di fatto. Ma nei settori esposti alla concorrenza gli interessi delle persone si manifestano diversamente. La ristrutturazione dell’industria automobilistica americana è l’esempio classico di quanto costi l’ aumento della concorrenza derivante dalla globalizzazione. E di come questo prezzo venga caricato sulle spalle di lavoratori che credevano di far parte della classe media, architrave delle democrazie. Detroit fa emergere le schizofrenie del cittadino lavoratore. Come produttore, questo cittadino cerca il salario migliore. Come sottoscrittore del fondo pensione, può aver interesse al licenziamento di altri produttori se così salgono le quotazioni dei titoli nei quali il fondo investe per pagargli la pensione domani. Come consumatore, desidera merci e servizi ai prezzi più convenienti, ma non avrà nessuna soddisfazione a vedere scaffali pieni e auto coreane a buon mercato se non ce la fa più a star dietro alle offerte perché, come scrive Reich, al netto dell’inflazione prende la stessa paga oraria di trent’anni prima, ha già rinunciato a 15 giorni di vacanza per arrotondare, la moglie lavora, ha il mutuo, la casa in pegno alla banca, e magari teme pure di perdere il posto. La nuova popolarità del protezionismo non deriva da un errore della storia, ma dai limiti di quello che Giulio Tremonti chiama mercatismo.
Può essere che anche in Italia i dazi, ancorché calibrati, difendano la manifattura di 5 anni fa e non quella attuale che ha imparato a fare i conti con la Cina. Può essere che l’invocazione di un governo sovranazionale della globalizzazione suoni meglio se fatta da un euroentusiasta anziché da un euroscettico. Può essere tutto. Ma può bastare la pedagogia liberista o non serve invece una politica che ricomponga l’Io diviso del cittadino nell’ età della globalizzazione? Chi è sensibile alle sofferenze del mondo può accettare sacrifici, meglio se provvisori, quando l’ apertura dei mercati e le nuove tecnologie offrano occasioni di riscatto a centinaia di milioni di persone. Ma è difficile imporre un prezzo se non è ben ripartito. Negli Usa dove la religione del Pil si è celebrata anche sull’ altare dei subprime, la disuguaglianza è a livelli record. Nell’ Italia della crescita stenta, come la definisce Draghi, i salari restano al palo, mentre i guadagni di top manager e capitalisti volano. Si dice sia il mercato dei migliori, ma forse è soltanto il circolo collusivo al vertice della piramide sociale. E’ in tale contesto che si scopre il vero volto della più globalizzata delle attività economiche, quella bancario-finanziaria: non è la più concorrenziale, e nemmeno la meglio organizzata come si è raccontato fin qui per giustificare i fasti della sua gerenza, ma la più protetta perché non corre il rischio di fallire. E perché a pagare il conto sono i contribuenti, i dipendenti e i soci (fra cui i fondi pensione), assai meno il vertice che conserva retribuzioni, vecchie stock options, consulenze e commissioni fondate su gestioni di cui ora pagano il fio soprattutto gli altri. Se l’ economia in generale rischia una selezione rovesciata con il protezionismo, lasciar fare al capitalismo finanziario e abbandonare a se stesso il lavoro minaccia la coesione della società. Le soluzioni non sono facili per nessuno. Ma, in fondo, il caso Audi qualcosa insegna. La società tedesca paga un premio ai dipendenti per due buone ragioni. La prima è perché guadagna bene grazie ad automobili eccellenti prodotte in modo efficiente, segno di un sistema che sa rinnovare la propria vocazione industriale anche per effetto delle politiche pubbliche. La seconda è perché nel consiglio di sorveglianza dell’ Audi siedono i rappresentanti dei lavoratori: non perché abbiano investito nelle azioni della ditta, ma perché lo stabilisce la legge. Quando Nicolas Sarkozy auspica l’ equa tripartizione del valore aggiunto tra capitale, lavoro e fisco dimostra che anche per un francese di destra la sfida della cittadinanza passa attraverso un’ inversione di tendenza nella redistribuzione. L’ Audi aggiunge che la redistribuzione è tanto più solida quanto più potere e responsabilità sono condivisi per decisione democratica dei cittadini.
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La memoria corta di chi invoca barriere
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 28 marzo 2008
→ marzo 8, 2008

Protezionisti e liberisti
di Angelo Panebianco
Questione dell’aborto a parte, quella innescata da Giulio Tremonti su protezionismo e globalizzazione, con le reazioni polemiche che ha suscitato, è, almeno fino ad ora, l’unica discussione politico- culturale degna di questo nome della campagna elettorale. Investe un tema su cui l’intero Occidente è diviso e, plausibilmente, si dividerà ancor più nei prossimi anni. Una divisione che, per giunta, è impossibile ricondurre alla logora distinzione destra-sinistra. Si pensi, ad esempio, al fatto che il protezionismo è una delle bandiere del candidato alla nomination democratica Barack Obama.
Tremonti, armato dell’intelligenza e dell’anticonformismo che tutti gli riconoscono, ha rotto lo schema classico che vede (dall’epoca reaganiana e thatcheriana in poi) i liberal- conservatori combinare anti-proibizionismo in economia e tradizionalismo nelle questioni etiche. Riprendendo temi che aveva già sollevato in passato e a cui ha dato veste più sistematica nel suo ultimo libro, Tremonti ripropone l’idea della necessità di una dura difesa europea, e occidentale, dalla concorrenza asiatica. Nel quadro di una rivolta, anche morale, contro la rinuncia della politica a guidare il mercato. Sarebbe facile (ma sbagliato) dire che in questo modo i «no-global», coloro che combattono il mercato globale, hanno trovato un campione, inaspettato ma anche molto più preparato di quelli che si erano scelti fino ad oggi. Sarebbe sbagliato perché Tremonti non è certo, a differenza dei no-global, un avversario del capitalismo e della libera impresa. Ciò che propone è una protezione del capitalismo occidentale dal dumping
sociale, ossia dall’aggressione economica portata da Paesi nei quali le condizioni politiche garantiscono bassi salari e vantaggi competitivi. Una protezione che, nella visione di Tremonti, spetta agli statisti, a una politica di nuovo consapevole del proprio ruolo di comando, assicurare.
Non c’è dubbio che una posizione come quella di Tremonti sia fatta per dividere trasversalmente gli schieramenti. Contrastata dai liberali del centrodestra (ben rappresentati da economisti come Renato Brunetta o Antonio Martino) può trovare orecchie attente nel sindacalismo, Cgil compresa. Può attrarre quella parte del ceto medio, per esempio il mondo artigianale, estraneo ai processi di internazionalizzazione dell’economia, ma può anche arrivare a spiazzare e imbarazzare la sinistra estrema.
Non è certo l’unico, né il primo, Tremonti, a mettere in guardia contro la cosiddetta «faccia oscura della globalizzazione». In Occidente lo hanno già fatto molti altri prima di lui. Ma c’è una differenza. Tremonti occupa un ruolo politico di primissimo piano all’interno di uno schieramento liberal-conservatore e, se le elezioni daranno la vittoria al Popolo della libertà, sarà di nuovo alla guida dell’economia italiana. Ha ragione Alberto Mingardi quando, sul Riformista, osserva che Tremonti sembra proporre l’archiviazione del reaganismo, sinonimo (più nell’immaginario che nella realtà) di liberalismo economico senza vincoli, e il ritorno a forme di conservatorismo «sociale» come quello che fu incarnato in Europa dal generale De Gaulle.
Come Francesco Giavazzi (su questo giornale), come Renato Brunetta, come Antonio Polito (Il Riformista), come Fabrizio Onida (Il Sole 24 ore), anche chi scrive pensa che la strada indicata da Tremonti non sia quella giusta, e che la concorrenza, anche quella drogata dei colossi asiatici, possa essere affrontata solo con riforme liberalizzatrici e con la lotta contro l’oppressione burocratico-statale dell’economia. E non mi sembra che questo sarebbe un compito indegno, o subalterno, da proporre alla politica. Per esempio, piuttosto che la creazione di istituti di credito, se non pubblici, comunque guidati dallo Stato, non servirebbe di più al nostro Mezzogiorno, come ha proposto l’Istituto Bruno Leoni, la sua trasformazione in una no taxation area per le imprese disposte ad investirvi?
Pur non condividendo, riconosco tuttavia che quella di Tremonti è una posizione rispettabile e seria. È quello, comunque, uno dei più importanti temi con cui gli occidentali dovranno confrontarsi nei prossimi anni. Nonostante il ruolo politico di Tremonti, tuttavia, non credo che, in caso di vittoria del centrodestra, la sua posizione culturale possa tradursi in immediata azione politica. Non solo perché nel centrodestra sono in molti a pensarla diversamente da lui. Ma anche, o soprattutto, perché chi avrà responsabilità di indirizzo economico nei prossimi anni sarà inevitabilmente «assalito dalla realtà», dovrà fare i conti, prima di ogni altra cosa, con la necessità, comunque, di liberalizzare l’economia, colpire le rendite politiche annidate al centro e alla periferia, fare insomma tutte quelle cose che piacciono ai liberali, a quelli che pensano che il mercato, meglio senza frontiere, non sia solo il mezzo più efficiente per creare e distribuire ricchezza ma sia anche garanzia di libertà (per chi ce l’ha) e di emancipazione (per chi vi aspira).
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Caro Tremonti, non aver paura
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 08 marzo 2008