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→  febbraio 21, 2009

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di Francesco Giavazzi

Ci siamo infilati in una situazione assurda. I prezzi delle attività finanziarie, e quindi la ricchezza delle famiglie, sono precipitati, quasi che le economie del mondo fossero state tutte rase al suolo da un bombardamento globale, come la Germania nel 1945. In pochi mesi nel mondo è stata bruciata ricchezza per un valore di circa 40 mila miliardi di dollari. In una settimana Wall Street ha perso il 13 per cento; in poco più di un anno il valore delle azioni americane si è dimezzato. Ma non c’è stato alcun bombardamento: le aziende sono ancora tutte lì, anche le case, anche le nostre risorse naturali e i lavoratori hanno la medesima esperienza oggi che avevano ieri. È la sfiducia che ha trascinato il mondo in questa situazione assurda ed è da lì che occorre partire. La prossima sarà una settimana cruciale.

Se la caduta di Wall Street non si arresta, il vortice rischia di accelerare: un’ulteriore caduta della ricchezza delle famiglie americane rallenterebbe ancor più i consumi e cancellerebbe gli effetti dello straordinario piano fiscale approvato la scorsa settimana dal Congresso. Che fare? Innanzitutto non dimenticare che (grazie alla globalizzazione) mai il mondo era cresciuto tanto rapidamente quanto nel decennio precedente la crisi. E non solo i Paesi ricchi: per la prima volta anche l’Africa sub-sahariana aveva cominciato a crescere. Certo, c’erano molte debolezze: il prezzo delle abitazioni in qualche Paese era salito troppo; negli Stati Uniti ad alcuni immigrati recenti erano stati concessi mutui che non potevano permettersi; le banche si erano illuse di aver diversificato il rischio e invece spesso non lo avevano fatto; la regolamentazione faceva acqua; il Congresso aveva consentito che Fannie Mae e Freddie Mac, istituzioni che avrebbero dovuto essere dei semplici fondi di garanzia, si trasformassero in speculatori aggressivi, trasferendo il rischio su contribuenti ignari.

Ma tutto questo non giustifica l’abisso in cui siamo caduti. I mutui negli Stati Uniti oggi non valgono praticamente più nulla e tuttavia il prezzo delle case è sceso del 20-30%, non si è azzerato. Nelle città americane le abitazioni non sono scomparse, sono ancora tutte lì: varranno meno di due anni fa, ma dubito che non valgano più nulla. Come riportare il mondo alla ragionevolezza, come arrestare questa spirale perversa? È possibile e potrebbe non costare nulla. Il vortice in cui sono entrate le Borse dipende dalle banche: in una settimana Citigroup ha perso metà del suo valore e un’azione oggi vale meno di due dollari (ne valeva 50 un anno e mezzo fa). Ma la banca non è fallita: lo sarebbe se davvero pensassimo che le case e le aziende americane non valgono più nulla, ma così non è. Per far uscire i mercati dal vortice della sfiducia il governo americano dovrebbe garantire tutte le attività finanziarie collegate al mercato immobiliare, cioè impegnarsi ad acquistarle a un prezzo prefissato, superiore all’attuale prezzo di mercato.

Una simile garanzia rialzerebbe immediatamente i prezzi e con essi la ricchezza delle famiglie. Risolverebbe anche i problemi delle banche. Come per Citigroup, se le banche americane siano, o meno, fallite, dipende dai prezzi delle attività che hanno in bilancio: se il prezzo di questi titoli è zero sono tutte fallite; se il prezzo è ragionevole non lo è nessuna (ieri il governatore Draghi ha proposto garanzie pubbliche non sullo stock di attività oggi detenute dalle banche, ma sui nuovi prestiti, un intervento che va nella medesima direzione e aiuterebbe a far ripartire il credito alle nostre aziende). A quale prezzo dovrebbero essere offerte queste garanzie? Certo non ai prezzi precedenti la crisi, ma nemmeno ai prezzi di oggi, che per molti titoli sono prossimi a zero. Una possibilità è usare i prezzi precedenti il fallimento di Lehman, cioè quando i mercati già scontavano la crisi, ma prima del crollo.

E quanto costerebbero le garanzie ai governi? È probabile che su alcuni titoli il governo perda, cioè che i prezzi di realizzo siano inferiori al valore della garanzia. Ma per la maggior parte — quando il mondo tornerà alla ragionevolezza — il prezzo salirà ben oltre il valore della garanzia: in questi casi si potrebbe tassare la plusvalenza. Non solo le garanzie potrebbero non costare nulla: per i contribuenti potrebbero rivelarsi un grande affare. In questo fine settimana a Washington si è fatta strada anche un’altra idea: essa pure potrebbe spegnere il vortice senza costare nulla. Sul Washington Post Ricardo Caballero, economista del Mit, ha proposto che il governo si impegni ad acquistare fra due anni il doppio delle azioni delle quattro maggiori banche al doppio del prezzo di oggi. Il primo effetto sarebbe quello di raddoppiare il capitale delle banche tramite fondi privati.

Nello stesso tempo il prezzo delle azioni salirebbe immediatamente vicino al livello della garanzia pubblica, sollevando tutto il mercato. Anche questo provvedimento non costerebbe nulla ai contribuenti, a meno che davvero pensiamo che l’economia americana sia come la Germania del ’45. Il vantaggio rispetto alle garanzie sull’attivo delle banche è che in questo caso basta un annuncio: potrebbe accadere già domani. Delle garanzie sull’attivo delle banche ci sarà comunque bisogno, ma per quelle c’è un po’ più di tempo (qualche giorno, non qualche mese). Ciò che invece accelera il vortice è parlare di nazionalizzazioni. Nazionalizzare una banca significa azzerare (o almeno diluire) il capitale degli azionisti: non c’è da sorprendersi se questo rischio fa crollare le Borse. Fortunatamente ieri l’amministrazione Obama ha preso le distanze da chi chiede nazionalizzazioni.

Nella scena più famosa di Mary Poppins, Mr Dawes, l’anziano impiegato di banca, spaventa il piccolo Michael tentando di sottrargli un penny. La gente non capisce, si impaurisce e travolge la banca. È per evitare questi panici che sono nate le garanzie pubbliche sui depositi bancari. La prossima settimana il mondo potrebbe avvitarsi in una depressione, ma se accadrà sarà solo responsabilità nostra, cioè dei nostri governanti. Il mondo non è radicalmente diverso oggi da quanto fosse un anno fa, tranne che si è persa la fiducia. È da questa osservazione che deve partire l’opera di ricostruzione.

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L’intervista

di Franco Debenedetti

«Non è scandaloso parlare di nazionalizzazione: può essere uno strumento temporaneo, un passaggio, per rimettere poi le banche sul mercato».
Statalizzare, insomma, si può per Franco Debenedetti, già senatore indipendente della sinistra, oggi consigliere di Cir, Cofide, Iride e Piaggio.

Cosa intende per «nazionalizzazione temporanea» e come potrebbe avvenire?
«Lo Stato compra le banche, toglie dal bilancio i titoli tossici, le ricapitalizza e su questa base le fa ripartire».

Siamo alla disfatta del mercato…
«Il problema è che il mercato, in questo momento non riesce a dare un prezzo ai cosiddetti titoli tossici. Non si sa quanto valgono. Qual è il valore dei veleni? Questo è il problema su cui si sono sostanzialmente infrante le soluzioni finora messe in atto. Se proprietario è lo Stato, il problema di dare un prezzo non è più critico, perché vengono solo mosse da una posta a un’altra all’interno del bilancio dello Stato. In questo modo lo Stato surroga il mercato nella sua funzione di dare un prezzo ai beni».

Una via praticabile in Italia?
«Nazionalizzazione è una parola politicamente tabù, desta timori e preoccupazioni nei Paesi come l’America che non hanno avuto imprese di Stato, figurarsi da noi che ce le ricordiamo fin troppo bene. Ma si tratta di un passaggio che non deve spaventare: il punto critico non è il momento della nazionalizzazione, ma ciò che avviene dopo, cioè in quanto tempo le banche sono restituite al mercato. Lo Stato banchiere è una sciagura».

Con quali soldi realizzarla, nel caso?
«Il costo per lo Stato dipende dal prezzo al quale viene comprata la banca, dall’eventuale riconoscimento agli azionisti e agli obbligazionisti, e dall’entità dell’aumento di capitale e da quanto vale la banca risanata. E da quale valore avranno in futuro i “veleni”. Può essere un’operazione molto costosa; ma costoso è pure lo stillicidio di provvedimenti finora presi, e che sono lontani dall’essere stati risolutivi».

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→  febbraio 15, 2009

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Torna il progetto di evoluzione in fibra ottica e si apre l’ incognita dei soci

di Massimo Mucchetti

Nell’autunno del 2006, il progetto di staccare da Telecom Italia l’infrastruttura di rete per attribuirla a una nuova società partecipata dalla Cassa depositi e prestiti (Cdp) venne accolto con critiche sdegnate da parte dell’opposizione di centro-destra, dell’intellettualità liberista e dei vertici della Confindustria. Il progetto, che Angelo Rovati, consigliere economico di Prodi, aveva inviato in via confidenziale all’allora presidente di Telecom, Marco Tronchetti Provera, fu eletto a simbolo del ricatto statalista contro la libertà dell’impresa. Nella primavera del 2009, la stessa idea viene riproposta con incalzante pubblicità dal responsabile economico di Forza Italia, Pierluigi Borghini, senza che i censori di ieri elevino analoghe proteste. Eppure, anche adesso, Telecom è una società privata guidata da un amministratore delegato, Franco Bernabé, contrario al piano Rovati comunque riverniciato. Potremmo finirla qui sottolineando come, per l’ennesima volta, l’Italia si riveli un Paese senza memoria votato alla polemica strumentale. Ma oggi c’è dell’altro. L’Italia ha interesse a far evolvere la rete telefonica in rame in una nuova e assai più potente rete in fibra ottica. Prima si fa e meglio è: per modernizzare il Paese e sostenere keynesianamente l’economia.

A Telecom, invece, conviene diluire nel tempo l’investimento per poter via via intercettare la nuova domanda di banda larghissima e non appesantire troppo il debito ereditato dalle vecchie gestioni. Paese e azienda potrebbero avvicinarsi riducendo l’onere dell’investimento grazie all’utilizzo delle frequenze radio che, con il passaggio dall’analogico al digitale, non saranno più necessarie alle tv, e dunque dovrebbero tornare nella disponibilità del Tesoro. In Europa e Usa questo è il dividendo digitale che i governi reinvestono a favore dell’intera economia. Nell’Italia, dove Mediaset considera le frequenze proprietà privata, non avviene. Vogliamo parlarne? L’attribuzione della rete a una nuova società può migliorare la concorrenza? Bene. Non abbiamo mai pensato che bastasse evocare il fantasma dell’Iri per bocciare un’idea. La svolta pro-concorrenziale di Forza Italia non può far che piacere. Purché non celi il diavolo nei dettagli. L’azionariato ideale della nuova società, riferisce il Sole 24 Ore, comprenderebbe Telecom, la Cdp, il fondo F2i, Mediaset, Fastweb e i fornitori. In un simile schema i conflitti d’interesse sono evidenti: i fornitori che, da soci, concorrerebbero a fare il prezzo delle forniture; il supercliente, la tv del premier, che, forse deluso dalla sperimentazione sarda sul digitale terrestre, guadagnerebbe con poca spesa l’accesso privilegiato alla Ip television.

Il cavo Telecom che porta Internet consentirà, in prospettiva, di personalizzare gli spot con un sensibile miglioramento dei ricavi pubblicitari. Un conto è se Mediaset accede a questa piattaforma in regime di par condicio con i concorrenti attuali e potenziali. Un altro conto è se lo fa da azionista comunque più influente della società della rete, visto che Berlusconi presiede un governo che ha il 70% della Cdp e detta le regole per Mediobanca, Intesa, Generali e Autostrade, azionisti eccellenti della stessa Telecom.

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Dopo le frasi su “Eluana ammazzata”

MILANO – la polemica scoppiata in Senato sulla morte di Eluana Englaro va oltre Palazzo

Madama. Arrivando ad incrinare i rapporti tra personaggi dei rispettivi schieramenti fino ad

oggi portati al dialogo e al rispetto reciproco.

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→  gennaio 27, 2009

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Parla Franco Debenedetti: «Ragioni politiche contrastano spesso con ragioni industriali»

ROMA — Franco Debenedetti confessa che quando ha appreso la notizia il passato gli è scorso

davanti agli occhi come un rapidissimo flashback: «Una carrellata dei suoi successi e anche

delle sue sconfitte, degli entusiasmi che ha suscitato, delle energie che ha catalizzato. Che

vuole, abbiamo lavorato trentacinque anni insieme…».

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→  novembre 1, 2008

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Interventi e repliche

«Il caso Volkswagen, scrive Massimo Mucchetti, ha messo gli hedge funds addirittura in ridicolo» (Corriere, 31 ottobre). Avevano venduto titoli VW contando che la recessione colpisse tutti i titoli ciclici. Ma nel frattempo Porsche, che ufficialmente aveva il 35% della VW, aveva aumentato il suo controllo fino al 74,1%, usando strumenti che in Germania consentono di non rivelare al mercato l’incremento della partecipazione. Così il circolante si era ridotto al 5,8%: la necessità di ricoprirsi a qualsiasi prezzo ha fatto schizzare il titolo da 210 euro a 1.005 euro, facendo di VW la prima società al mondo per capitalizzazione, e facendo perdere ai fondi hedge da 20 a 30 miliardi di euro.

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