→ novembre 27, 2011

di Roger Abravanel
La vicenda Finmeccanica ha dato una nuova prospettiva al dibattito sulle privatizzazioni. C’ è chi dice che la privatizzazione di Finmeccanica ridurrebbe le occasioni per ulteriori «fondi neri» e chi (come questo quotidiano) sostiene che privatizzarla non servirebbe a molto perché il privato utilizzerebbe la leva della corruzione della committenza pubblica esattamente come fa una azienda a controllo statale. La realtà è che la privatizzazione incide poco su questo tipo di problemi perché la Finmeccanica opera in un settore (difesa, sicurezza) dove la trasparenza è scarsa, le pratiche commerciali a volte ai limiti della legalità e l’ interferenza della politica significativa per definizione. Il cancro della corruzione in questi settori non si combatte con le privatizzazioni, ma con una committenza pubblica piu trasparente e un’ azione giudiziaria internazionale più incisiva e coordinata. La vera ragione per ridurre ulteriormente il ruolo dello Stato come azionista di Finmeccanica (come committente è impossibile) è un’ altra: creare valore proprio attraverso quello «spezzatino» tanto osteggiato dal fronte anti-privatizzazione. In Finmeccanica esistono business globali molto competitivi e in posizione di leadership: gli elicotteri (Agusta-Westland), l’ avionica (Selex-Galileo) legati alla committenza militare in Italia e nel mondo, e altri come l’ Ansaldo Energia e l’ Ansaldo Sistemi, più connessi al mercato privato mondiale dell’ energia e dell’ industria. Questi business competitivi (veri e propri «gioielli») convivono con altri che sopravvivono grazie alla committenza pubblica italiana – la Alenia e la «sicurezza» (la «famigerata» Selex-sistemi integrati) – e con altri che da sempre restano nell’ orbita pubblica per ragioni di salvaguardia dell’ occupazione (l’ Ansaldo Breda). Ora bisogna decidere cosa cedere e cosa tenere in orbita pubblica (e come farlo), con tre obiettivi: proteggere e rendere ulteriormente competitivi i «gioielli» a fronte della crisi finanziaria globale che porta a forti contrazioni degli investimenti pubblici in tutto il mondo in ogni settore (in particolare in quello della Difesa), generare un po’ di cassa e risolvere una volta per tutte il problema delle attività che sopravvivono solo grazie alla committenza dello Stato italiano o alla sua protezione. Per questo una privatizzazione tout court non è possibile senza una chiara strategia che dev’ essere impostata dal nuovo governo e affidata come mandato al cda e al presidente (attuale o futuro). Il fronte anti-privatizzazioni porta però avanti da mesi un’ altra argomentazione contro tutte le privatizzazioni: la cosiddetta «svendita dei gioielli di famiglia» ovvero alcuni business di Finmeccanica e poi l’ Enel e l’ Eni. Ma oggi lo Stato italiano non è in una situazione molto diversa da quella di una famiglia che deve svendere i propri gioielli per evitare il fallimento. Peraltro non è certo che si tratti di una «svendita». Gli anti-privatizzazioni sostengono che «lo Stato non può rinunciare ai 2 miliardi di dividendi dell’ Enel e dell’ Eni». Ma se questi dividendi in passato hanno reso il 7-8%, un vero affare quando il debito costava il 3%, oggi con un costo marginale del debito del 6-7% a causa dell’ esplosione degli spread la situazione è cambiata. E l’ incasso di almeno 30 miliardi (la vendita dei «gioielli») vale una manovra di uno Stato che tenta disperatamente di non fallire. In altre parole lo Stato italiano deve vendere perché il costo di tenersi i «gioielli» è oggi pari alla loro cessione; e comunque non può più permetterseli. Peraltro, non solo Finmeccanica beneficerebbe di una privatizzazione divenendo più competitiva e creando valore per gli azionisti e i lavoratori. Anche per Enel e Eni una minor presenza dello Stato sarebbe salutare. Dai tempi della loro parziale privatizzazione, queste aziende hanno fatto passi da gigante in termini di competitività, qualità del top management e della governance (Consiglio di amministrazione) che, per molti aspetti, può anche essere considerata oggi migliore di quella di molte aziende italiane quotate dove l’ azionista di riferimento sono le famiglie italiane. Ma la crisi mondiale in corso e le nuove sfide globali richiedono che i vertici perseguano sforzi ancora maggiori nel taglio dei costi e nelle cessioni/alleanze internazionali, difficilmente compatibili con una forte presenza dello Stato. Queste nuove strategie devono essere approvate da cda informati ed attivi che appoggiano vertici pronti a impegni coraggiosi. In Italia, spesso i vertici costruiscono da soli le strategie e semmai le concordano con l’ azionista pubblico che sceglie anche l’ amministratore delegato con minimo coinvolgimento del consiglio e del suo presidente (che alla fine conta abbastanza poco). Ciò è consentito dalle loro pratiche di governance che ormai non sono più in linea con i tempi: i cda di queste aziende scadono tutti assieme e non hanno mandati in scadenza dei singoli consiglieri come nelle migliori pratiche mondiali che invece consentono al cda e al suo presidente di nominare l’ amministratore delegato. In sintesi quindi, l’ invito per il governo Monti è di accelerare le privatizzazioni delle aziende «ex-pubbliche», più facili da realizzare che la vendita del patrimonio immobiliare e delle caserme e con più potenziale di contribuire alla ulteriore crescita di imprese globali che creano posti di lavoro e valore per i loro azionisti.
→ novembre 26, 2011

Caro Direttore,
i sistemi di contabilità nazionale (SEC 95, comma h art. 1.13) impongono a tutti i Paesi di stimare e di contabilizzare nel PIL anche “l’economia non osservata”. Non è dunque esatto quanto scrive Milena Gabanelli (Ecco perché va limitato l’uso del contante, Corriere della Serra del 24 Novembre, pag 35) che “il sommerso non [vada] a far parte del rapporto debito PIL”; quindi non è vero che esso concorra a far sì che “gli investitori [siano] disposti ad acquistare i nostri titoli di stato solo a un tasso di interesse pari a più del triplo di quanto pagano gli inglesi o i tedeschi”.
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→ novembre 24, 2011

di Milena Gabanelli
Equità, liberalizzazioni e lotta all’evasione fiscale dovrebbero essere i farmaci da prescrivere al malato Italia per uscire dalla crisi. La proposta di tassare l’uso eccessivo del contante si prefigge di ridurre il più possibile l’evasione fiscale rendendola non conveniente mediante una tassa sul prelievo e sul deposito operata dalle banche per conto dello Stato. Ne sarebbero colpiti solo coloro che, in presenza di metodi di pagamento alternativi tracciabili (quali gli assegni, le carte di credito, il bancomat e i bonifici) si ostinerebbero a fare un uso eccessivo del contante creando un costo alla collettività.
Il costo a cui mi riferisco è determinato dai seguenti fattori:
- dall’incapacità dello Stato di farsi pagare le tasse da tutti, che limita la competizione fra operatori a favore di chi evade;
- dal freno che gli studi di settore hanno sulla crescita economica, penalizzando le attività in fase di start-up, oppure in un momento di difficoltà, favorendo invece quelle che hanno fatturati superiori a quanto previsto dagli studi di settore. Un maggior utilizzo della moneta elettronica potrebbe allentare questo freno o addirittura farlo scomparire;
- dal fatto che l’evasione fiscale, resa possibile solo dai pagamenti in contanti, crea una seria diseguaglianza fra i cittadini che percepiscono un reddito da lavoro dipendente e coloro che invece hanno una partita Iva e possono/scelgono di evadere parte dello loro tasse.
Soprattutto l’evasione fiscale nasconde circa il 20% del nostro Prodotto interno lordo che, in quanto sommerso, non va a far parte del rapporto debito/Pil e che ad oggi ammonta al 120%. Con un rapporto così alto, gli investitori sono disposti ad acquistare i nostri titoli di Stato solo a un tasso di interesse pari a più del triplo di quanto pagano gli inglesi o i tedeschi. Fare emergere questo 20% di Pil sommerso ci aiuterebbe a risanare i conti pubblici e renderebbe quindi possibile l’attuazione della riforma fiscale.
In conclusione: nessuna soglia minima alla tracciabilità, poiché anche portandola a 100 euro, la porta rimarrebbe socchiusa ai più furbi, e tassa sull’uso del contante. Questo renderebbe preferibile l’emissione e la richiesta di fattura. Si deve prevedere ovviamente la possibilità di scaricarne una piccola parte dalla dichiarazione dei redditi, come si deve prevedere l’abbassamento dei costi di transazione bancaria. A parte i tangentisti, gli spacciatori, evasori e i criminali, la gente comune non necessita di più di una cinquantina di euro alla settimana, la cui imposta potrebbe anche essere detratta. Insomma i nostri tecnici al governo potrebbero sicuramente disegnare un sistema che oltre ad essere a mio parere più equo e liberista, reintrodurrebbe anche la cultura della legalità.
→ novembre 14, 2011

di Armando Torno
Pamphlet: torna un testo classico di Vilfredo Pareto
Anche se Vilfredo Pareto (1848-1923) è un pensatore non particolarmente ricordato oggi in Italia, le sue idee sono un riferimento obbligatorio per chi studia economia, sociologia o politica. La distinzione da lui lasciata tra azioni logiche e non logiche (ma non per questo insensate) o la teoria della circolazione delle élite (la cui alternanza caratterizza i fatti della storia) sono due esempi dei tanti possibili.
Di lui ora sta per tornare in libreria un’opera brillante e intelligente: Il mito virtuista e la letteratura immorale (Liberilibri, pp. 248, 18). Vide la luce a Parigi nel 1911 e in italiano nel 1914 con non poche integrazioni, ma anche — come scrisse lo stesso Pareto all’economista Maffeo Pantaleoni — con «molti, moltissimi errori materiali» commessi dal traduttore. Liberilibri, editore di Macerata, la ripropone eliminando le antiche mende, con un’introduzione di Franco Debenedetti. Il quale ricorda che il libro è «lo sfogo del liberale positivista contro le repressioni dei conservatori, e l’esempio di come analizzare le irrazionalità del comportamento umano in modo scientifico».
L’opera, sottolinea ancora Debenedetti, nasce contro le misure repressive che Luigi Luzzatti, il protezionista della scuola padovana divenuto presidente del Consiglio, prenderà nel 1910 contro la letteratura immorale. Sono gli anni in cui Pareto sente l’influenza di Pantaleoni e dei suoi Principi di economia politica pura; il tempo nel quale rinuncia (1899) alla cattedra che fu di Léon Walras, l’economista matematico di Losanna, per scrivere un trattato di sociologia. Disciplina che don Benedetto Croce giudicava al tramonto, dopo il declino del positivismo e delle filosofie della storia. Del resto, questa povera sociologia non era forse, per il pensatore napoletano, un «mezzo inferiore» della vita intellettuale?
Pareto era uno dei pochissimi che potevano permettersi una polemica con Croce senza uscirne con le ossa rotte, e questo libro su Il mito virtuista, sia pamphlet che opera scientifica, nasce mentre egli attende al Trattato di sociologia generale (1916) nell’«eremo» di Céligny e medita, tra l’altro, le idee di Georges Sorel. Già, Sorel. Aveva visto — usiamo frasi dello stesso Pareto — «molto bene l’importanza capitale del mito nella vita dei popoli», giacché l’ideale «manifestandosi sotto la forma di mito, li eccita, li trascina, li sostiene e li rende capaci di grandi azioni storiche». Colto, informatissimo, in quest’opera riproposta da Liberilibri mostra la sua indole liberale e libertaria, sbugiardando le ipocrisie che si celano nel proibizionismo. Del resto, nel 1911 e oggi, il comportamento dei «virtuisti» non cambia. Comincia con qualche appello alla morale collettiva e finisce declinando i verbi vietare e proibire.
Nell’appendice viene riportato il testo di un paio di sentenze di tribunali italiani dell’epoca e la circolare Luzzatti sulle pubblicazioni pornografiche. Sono documenti che aiutano a comprendere le tesi del libro di Pareto. Lui stesso ricorda che in un processo si vedrà l’incriminazione di due brani, l’uno tolto dalla Bibbia e l’altro dai Dialoghi delle cortigiane di Luciano. Che dire? Nel Belpaese, dove per decenni ci si è regolati alla meglio con il «comune senso del pudore», senza che nessuno avesse bene in mente cosa fosse, l’immoralità non è mai mancata e opere come Il mito virtuista si sono ignorate. Al pari delle parole di Oscar Wilde del Ritratto di Dorian Gray: «Non esistono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Tutto qui».
→ novembre 5, 2011

di Aldo Cazzullo
Ieri il signor Giuliano Melani è stato sommerso per tutto il giorno da mail e telefonate. Erano le risposte al suo appello, lanciato a pagina 24 del Corriere. Un cittadino sconosciuto, che assicura di non avere alcuna ambizione politica, ha invitato i suoi compatrioti a comprare titoli di Stato. Ma soprattutto ha sollecitato l’orgoglio nazionale. Noi crediamo che entrambi gli stimoli siano condivisibili.
L’Italia non è la Grecia, e non lo sarà mai. Ripeterlo è ovvio ma non inutile. Non c’è alcun pericolo che i titoli emessi dallo Stato italiano non siano onorati. I risparmiatori che in queste stesse ore hanno annunciato l’intenzione di spostare i loro investimenti dal nostro ad altri Paesi esprimono preoccupazioni comprensibili, ma sbagliate. L’Italia è la nazione descritta ieri a Cannes dal presidente Obama, che non ha le inclinazioni politiche del nostro governo e neppure una particolare simpatia per il nostro premier, ma ha voluto ricordare al mondo che l’Italia è un grande Paese, «con un’enorme base industriale e con asset straordinari». Una considerazione oggettiva, che per primi noi italiani dovremmo tenere sempre a mente.
Comprare Buoni del Tesoro, come il signor Melani e si spera altri milioni di risparmiatori potranno fare in piena libertà nei prossimi giorni, non è un azzardo. Se lo fa e lo ha fatto la Banca centrale europea perché non dovremmo farlo noi? Non si tratta di chiedere slanci patriottici, come quelli sollecitati in altri tempi, che non hanno portato fortuna. Si tratta di essere consapevoli di noi stessi, degli interessi comuni che ci legano, del rapporto che ci unisce a una patria unificata proprio 150 anni fa e a uno Stato a volte sentito come distante e nemico (e che a volte si comporta in modo tale da confermare questo pregiudizio), ma in realtà non è «altro» rispetto a noi.
Ognuno è tenuto a fare la propria parte. La politica deve trovare una soluzione che metta in sicurezza i conti pubblici, introduca subito le misure necessarie a tranquillizzare l’Europa e a far ripartire la crescita, e dia al Paese un governo stabile e un’ampia maggioranza parlamentare, se necessario anche attraverso elezioni. I cittadini sono chiamati a offrire una prova di orgoglio e insieme una dimostrazione di razionalità, evitando catastrofismi e fughe di capitali che sarebbero controproducenti due volte, per i rendimenti privati e per il bilancio pubblico. Ma neppure le banche possono chiamarsi fuori. Se a tutti è chiesto un segno di responsabilità, anche le banche possono dare il loro. Il modo è semplice, anche se inedito: rinunciare, per un giorno, alla commissione sulla vendita dei titoli pubblici. Si tratta di un sacrificio non indifferente, in un momento delicato per l’intermediazione finanziaria (per quanto le banche italiane siano messe meglio di quelle di altri Paesi, a cominciare dalla Francia). Ma il sacrificio degli istituti di credito darebbe un ulteriore vantaggio ai risparmiatori e un notevole sollievo allo Stato. Non si tratta di fare un favore a politici che non lo meritano. È il nostro stesso futuro a essere in gioco; è su noi stessi che stiamo investendo.
→ ottobre 26, 2011

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi
Una svolta per la crescita
In extremis il premier annuncia un intervento sulle pensioni. Ma le ipotesi valutate finora per far riprendere la crescita sono pannicelli tiepidi per un malato che rischia l’arresto cardiaco. I provvedimenti fiscali di mezza estate ridurranno il deficit di un ammontare pari a sei punti di prodotto interno lordo (pil) sull’arco di un triennio, intervenendo quasi esclusivamente con maggiori imposte.
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