→ maggio 10, 2016
Ilva, banda larga, Atlante: in tutti i dossier importanti la Cassa depositi e prestiti (Cdp) è presente con partecipazioni di minoranza. E dove non lo è, si invoca che lo sia: perché la sua stessa presenza certifica che il dossier è importante. Anzi strategico. Una partecipazione, quella di Cdp, non tanto piccola da essere irrilevante, e non tanto grande da essere determinante: sufficiente ad avere influenza. Una partecipazione tale da poter testimoniare una presa di posizione che si ritiene appropriata, senza avere la responsabilità degli imbarazzi che potrebbe produrre se fosse approvata: poni caso, se si trattasse di promuovere un’azione di responsabilità contro i passati amministratori dell’azienda che si sta salvando. A questi delicati equilibri la Cassa è abituata, da quando nel 2003 l’allora ministro Giulio Tremonti convinse le fondazioni bancarie a investire quanto bastava perché Eurostat deconsolidasse il debito postale da quello delle Repubblica.
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→ dicembre 23, 2015
Il piano industriale 2016-2020 approvato dal nuovo cda della Cassa depositi e prestiti dedica sette righe ai 160 miliardi (32 miliardi l’anno) che in questi cinque anni verranno impiegati; e oltre una pagina a spiegare come. Inoltre: da dove vengono queste risorse? Mancando ogni indicazione si pensa che il flusso annuale sia l’analogo dei 32 miliardi di risorse aggiuntive affluite alla Cassa nel 2014 (deducibile tra le passività a fine 2013 e a fine 2014). Se così stanno le cose, Cdp dovrà ricorrere al mercato per 160 miliardi nel corso del quinquennio, e la leva finanziaria, che è già aumentata di un punto dal 2013 al 2014, sarà di 20 alla fine del piano. Senza contare che non sarà facile che l’utile dia lo stesso contributo all’incremento del patrimonio netto: infatti l’utile è costituito dal margine tra tassi attivi e tassi passivi, e Poste, quando si è quotata, ha spiegato al mercato come la nuova convenzione con Cdp fosse più vantaggiosa per Poste. Ergo meno per Cdp.
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→ giugno 17, 2015
Al direttore.
Decidere di cambiare i vertici di una delle più grosse istituzioni finanziarie del paese (la Cdp ha un attivo di 400 mld) con un anno di anticipo rispetto alla scadenza naturale è un fatto clamoroso. Tempestività di informazione e trasparenza su ragioni e obiettivi erano dovute all’opinione pubblica, ai civil servant che vi hanno lavorato senza demeritare; era dovuta al mercato: Cdp non è quotata in Borsa, ma investe e potrebbe investire in aziende anche quotate. (Dell’”atteggiamento anguillesco” di Banca, banche, e fondazioni ha scritto il Foglio di ieri). Ma arriveremo a scusare l’opacità se alla fine avremo chiarezza.
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→ giugno 14, 2015
di Francesco Giavazzi
Il governo si appresta a sostituire i vertici della Cassa depositi e prestiti, la più grande istituzione finanziaria italiana. Per avere un’idea delle dimensioni, si pensi che il suo bilancio è dieci volte quello di Unicredit e Intesa Sanpaolo messe insieme. Lo Stato ne possiede oltre l’80 per cento, il capitale restante è detenuto da alcune fondazioni: Cariplo, Fondazione San Paolo, e altre. Che il governo desideri «metterci la faccia» assumendosi la responsabilità della gestione (il presidente, Franco Bassanini, e l’amministratore delegato, Giovanni Gorno Tempini, furono nominati ai tempi dell’ultimo governo Berlusconi, anche se scadrebbero solo l’anno prossimo) è non solo naturale, ma anche opportuno. Infatti, diversamente da altre aziende, come l’Eni, di cui lo Stato detiene il 30%, ma investitori privati detengono il 70%, la Cassa non ha veri soci privati. È quindi opportuno che il ministero dell’Economia eserciti pienamente i suoi doveri di azionista quasi totalitario. Ma nel momento in cui lo fa deve spiegare con grande trasparenza quali sono gli obiettivi che intende perseguire con questa enorme quantità di denaro generata dai nostri risparmi.
Negli ultimi anni la Cassa ha operato con obiettivi diversi. Nel caso di Ilva, ad esempio, si è opposta ad intervenire nell’azienda pugliese. H a ritenuto che sarebbe stato preferibile che lo Stato accettasse l’offerta di Mittal, il grande operatore siderurgico indiano, interessato ad acquisire il laminatoio di Taranto. Una scelta «di mercato» che non fece piacere al governo Renzi. In quella, come in altre vicende simili, il fatto che lo statuto della Cassa le vieti di investire in aziende in perdita ha consentito agli amministratori di opporsi a estemporanee sollecitazioni della politica che chiedevano interventi a prescindere dalla redditività economica.
Contemporaneamente la gestione di Bassanini e Gorno Tempini ha fatto anche investimenti discutibili. Ad esempio entrando (seppur non direttamente ma attraverso il suo Fondo strategico, del quale però la Cassa controlla oltre i due terzi del capitale) nella società Rocco Forte Hotels, con la scusa che gli alberghi sono un «settore strategico»; nella Cremonini, con la scusa che la filiera della carne è anch’essa «strategica» per il settore agroalimentare; nella Trevi, un’azienda di ingegneria; nella Sia, una società di servizi bancari, e così via. Investimenti dei quali si fa fatica a comprendere la strategia, a meno che essa non consista nel fare le medesime scelte che farebbe un investitore privato ma con l’immenso vantaggio di una raccolta che non costa quasi nulla perché garantita dallo Stato e di un azionista, sempre lo Stato, che non esige rendimenti particolarmente elevati.
Tre sono le domande cui il governo dovrebbe rispondere prima di metter mano al dossier Cassa.
Prima domanda: perché l’utilizzo di questa straordinaria quantità di risparmio delle famiglie deve essere decisa dalla politica, anziché da investitori privati? Quali obiettivi intende perseguire? Il governo è disposto ad impegnarsi a far sì che la Cassa intervenga solo là dove si verificano dei chiari «fallimenti del mercato», il che evidentemente esclude l’investimento in alberghi o in società di ingegneria? Impegnerà la Cassa a non detenere le azioni delle aziende acquisite per più di tre anni, dando così credibilità all’impegno che l’intervento pubblico, là dove giustificato da un fallimento del mercato, sia propedeutico ad una successiva privatizzazione? Ad esempio, la Cassa vuole acquisire aziende pubbliche locali (già partecipa agli aereoporti di Napoli, Torino e Milano, ad un termovalorizzatore a Torino, eccetera) in modo da favorirne l’aggregazione e poi la privatizzazione. Ma senza un vincolo su quanto a lungo ne potrà detenere le azioni, da queste aziende la Cassa non uscirà mai con la scusa che sono uno strumento per fare «politica industriale». Insomma, il rischio è che la disponibilità di uno strumento di intervento tanto ricco dia luogo ad una continua ricerca di ambiti nei quali utilizzarlo. È come dare 100 euro ad un ragazzino chiedendogli di usarli solo per le emergenze: quanto passerà prima che li usi per cambiare il suo smartphone ?
Altrettanto importante è impedire che la Cassa pompi ricavi esagerati dalle sue partecipazioni in alcuni monopoli naturali, come le reti elettriche e del gas, a scapito dei consumatori. Il che significa impedire che la Cassa sia, come è oggi, un’interfaccia opaca fra mercato e regolamentazione con conflitti di interesse ubiqui. Si pensi ad esempio al caso del risparmio postale: quando la Cassa fissa le commissioni per la raccolta, di fatto determina il risultato economico delle Poste, a scapito del consumatore.
La seconda domanda riguarda lo statuto della Cassa e il ruolo delle fondazioni. La loro definizione di azionisti «privati» è evidentemente una foglia di fico: le fondazione bancarie tutto sono tranne che azionisti che operano con criteri di mercato. Ciononostante esse oggi svolgono, come azionisti della Cassa, due ruoli importanti. Innanzitutto la loro presenza, fosse anche con una sola azione, evita che il bilancio della Cassa sia consolidato nei conti dello Stato. Se ciò accadesse il governo non potrebbe più «privatizzare» aziende pubbliche, come ha fatto con Eni ed Enel, semplicemente spostandone il possesso dal ministero dell’Economia alla Cassa. In secondo luogo, senza il consenso delle fondazioni è impossibile cambiare lo statuto della Cassa. Questo è un problema perché, come già accennato, lo statuto attuale non consente di intervenire in aziende in perdita. Se quindi il governo volesse usare la Cassa anche per risolvere crisi industriali – come ha dimostrato di voler fare nel caso dell’Ilva – dovrebbe cambiarne lo statuto. Per farlo, o estromette le fondazioni o le convince obtorto collo ad accettare una modifica dello statuto. Che intende fare?
La terza domanda è più generale. Vorrei che il presidente del Consiglio, prima di nominare il nuovo vertice della Cassa, spiegasse che cosa pensa del rapporto fra Stato e mercato. Ad esempio, si sente spesso dire che senza sussidi pubblici non ci può essere innovazione. A questo proposito alcuni citano il caso dell’iPhone che a loro parere non esisterebbe se 70 anni fa il Pentagono non avesse investito nella tecnologia da cui poi è nata la Rete. Innanzitutto qualunque cosa abbia fatto il Pentagono 70 anni fa, senza l’intuizione di Steve Jobs certo non avremmo l’iPhone; inoltre vi è un’enorme differenza fra mettere in gara imprese private per una fornitura militare o assegnarla a Finmeccanica, un’azienda di cui lo Stato è il maggior azionista. Che pensa Matteo Renzi di queste discussioni?
Pare che il prossimo investimento della Cassa sarà nella banda larga, con la giustificazione che Telecom non la vuole fare – se non addirittura un ingresso diretto nell’azionariato della società (cioè una ri-nazionalizzazione) per propiziare una decisione in quel senso. Telecom ritiene che un investimento nella banda larga non produrrebbe un sufficiente rendimento economico, e quindi distruggerebbe valore per gli azionisti. Può darsi che si tratti di un caso evidente di fallimento del mercato che giustifica l’intervento pubblico. Ma ne siamo proprio sicuri?
Qualche anno fa, per favorire gli investimenti in energie rinnovabili – un caso, si disse, di fallimento del mercato – il governo decise di sussidiare l’installazione di pannelli solari. Furono così concessi incentivi che oggi, a pannelli installati, si traducono in una rendita di circa 11 miliardi di euro l’anno: pagati dalle famiglie, nelle loro bollette elettriche, a poche migliaia di fortunati. E non solo si è creata un’enorme rendita che durerà per un ventennio: si è favorita una tecnologia che a distanza di pochi anni è già vecchia. Oggi l’energia solare si può catturare semplicemente usando una pittura sul tetto, con costi e impatto ambientale molto minori. Ma i pannelli sussidiati dallo Stato rimarranno lì per vent’anni e nessuno si è chiesto quanto costerà e che effetti ambientali produrrà la loro eliminazione.
→ maggio 25, 2015
Intervista di Edoardo Petti
Un fondo pubblico e privato per accompagnare la ristrutturazione di industrie strategiche che, pur presentando uno squilibrio patrimoniale o finanziario, abbiano adeguate prospettive di mercato. È la novità più rilevante contenuta nel provvedimento redatto dal governo e resa pubblica ieri dal Sole 24 Ore.A d essere costituita sarà una società per azioni con un capitale minimo di 830 milioni e che potrebbe arrivare a 1,5 miliardi. Risorse fornite grazie alla partecipazione di Cassa depositi e prestiti, Inail, grandi gruppi bancari, fondi di investimento. E che rappresenteranno la garanzia statale della durata di 10 anni per gli investimenti nelle realtà produttive.Per capire se e in che modo il programma approntato da Palazzo Chigi possa rivelarsi utile per il rilancio del tessuto industriale Formiche.net si è rivolta a Franco Debenedetti, manager, imprenditore, ex senatore dell’Ulivo e presidente dell’Istituto Bruno Leoni.
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→ maggio 24, 2015
di Carmine Fotina
Le grandi manovre sulle industrie da rilanciare possono iniziare. Il regolamento della Spa “salva imprese” prevista dal decreto banche è pronto: capitale minimo di 830 milioni per partire, garanzia statale, poteri speciali di governance agli investitori privati, uscita dalle aziende target entro 10 anni. Il decreto attuativo, ha spiegato il ministro dello Sviluppo economico Federica Guidi è stato firmato, registrato dalla Corte dei conti ed attende la pubblica sulla Gazzetta ufficiale: «Un veicolo utile per accompagnare di più e meglio alcune società a un’uscita rispetto ai piani di ristrutturazione. Ci auguriamo che una prima operazione possa essere Ilva».
La garanzia dello Stato
Il Dpcm è un passaggio indispensabile per far decollare la Spa di turnaround, alla quale dovrebbero partecipare Cassa depositi e prestiti, Inail, probabilmente i principali gruppi bancari, altri possibili privati da individuare ad esempio tra i fondi di investimento. Il decreto, in 11 articoli che fissano le regole di ingaggio, è stato perfezionato dopo varie ipotesi fatte con il coordinamento di Claudio De Vincenti, prima da viceministro e poi da sottosegretario a Palazzo Chigi, e Andrea Guerra, consigliere economico del premier.
La garanzia potrà scattare solo a fronte di sottoscrizione di capitale per almeno 580 milioni da parte di investitori che intendono beneficiarne e per almeno 250 milioni da parte di privati che investiranno capitali di rischio senza richiedere lo “scudo” statale. Non solo: ogni singolo investitore da garantire dovrà mettere sul piatto almeno 100 milioni e possedere un patrimonio netto non inferiore alla stessa cifra (oppure nel caso di fondi comuni e fondi pensione, dovrà gestire attività per oltre 500 milioni). Il capitale della società potrà salire – e il governo punta ad almeno 1,5 miliardi – ma ad ogni modo fino al 70% dovrà essere costituito da «investitori garantiti» e quindi almeno il 30% da «investitori non garantiti».
La garanzia – per la quale lo Stato mette a disposizione un Fondo di 300 milioni – sarà onerosa, con un prezzo a carico dei richiedenti che sarà la risultante di una quota fissa e una variabile da determinare con una gara per le migliori condizioni offerte. Potrà coprire l’80% dell’investimento (si vedano le schede accanto) e potrà essere escussa solo in fase di liquidazione della società, che dovrà avvenire entro il 2025.
Gli azionisti e i tempi
La Spa, secondo le prime ottimistiche dichiarazioni del governo, avrebbe dovuto vedere la luce già ad aprile. Ma solo adesso si aprirà la fase più calda della composizione dell’azionariato, della scelta del management e della selezione delle aziende target che, pur risultando in «squilibrio patrimoniale o finanziario», devono essere caratterizzate da «adeguate prospettive industriali e di mercato».
Su questo punto, la relazione illustrativa del Dpcm sottolinea che il contesto produttivo italiano «è caratterizzato da un’ampia presenza sul nostro territorio di medie e grandi aziende con buoni o eccellenti fondamentali industriali. Accade però che talvolta tali situazioni aziendali necessitino di interventi di sostegno e rafforzamento della situazione patrimoniale e finanziaria».
Il primo test individuato dal governo, come detto, sarà l’Ilva: la Spa (probabilmente entro ottobre) dovrebbe investire in una newco per il rilancio del gruppo siderurgico. La preoccupazione del governo, a prescindere dal delicatissimo caso Ilva, è evitare che il nuovo strumento parta con le stigmate di una nuova Iri e alcuni punti del regolamento sembrano voler rispondere a questa esigenza.
Come detto, la società dovrà sciogliersi entro dieci anni, dotarsi di uno statuto che preveda una rigida disciplina in materia di conflitti di interesse e un sostanziale potere di veto degli investitori privati non garantiti nelle deliberazioni sugli investimenti («concorso determinante della maggioranza dei componenti degli organi sociali designati dagli azionisti che non si avvalgono della garanzia»). Lo statuto dovrà inoltre contenere l’obbligo di distribuire almeno i due terzi dell’utile realizzato in ogni esercizio.