Con la rivoluzione digitale non è più necessario snellire Rai e Mediaset
di Carlo Rognoni
Privatizzare la Rai? Vendere una o due reti del servizio pubblico? Ogni tanto c’è ancora chi che lo propone. Eppure oggi è davvero un’idea sorpassata. Vediamo di spiegare perché. Intanto cerchiamo di capire quali sono le ragioni dei privatizzatori. Non dimenticando che ce ne sono almeno di tre tipi. Primo, ci sono i fondamentalisti del mercato: privato è bello sempre e comunque. E dunque vendere, vendere, vendere. Naturalmente anche la Rai. Secondo, ci sono i disillusi del servizio pubblico: troppa lottizzazione, troppa partitocrazia – e per di più di partiti con l’affanno e dal nome sempre più incerto. Il risultato, secondo loro, è drammatico: una informazione pilotata, non più credibile, telegiornali addomesticati che servono magari a soddisfare il narcisismo di alcuni segretari di partito ma che non aiutano certo i cittadini a capire la società che cambia, a districarsi nel mondo della politica. E poi troppi programmi di qualità bassa, all’inseguimento di un primato negli ascolti che ha solo la motivazione commerciale alle spalle, quella per conquistarsi una fetta di pubblicità più alta. Tanto vale vendere! Terzo, ci sono i liberal-riformisti: se si vuole avere più concorrenza, un sistema radiotelevisivo davvero pluralista, va rotto il giocattolo che tiene ingessato tutto il sistema, va insomma spezzato il duopolio Rai – Mediaset. E quale miglior modo se non quello di intervenire innanzitutto sul servizio pubblico e mettere in vendita una o due reti, così da creare le condizioni perché un nuovo soggetto imprenditoriale si affacci al mercato?
Posizioni ideologiche. Nel primo caso c’è poco da controbattere: di fronte a un muro di posizioni ideologiche, anche i migliori argomenti rischiano di andare a sbattere. Nel secondo caso è un po’ come se si volesse buttare via il bambino con l’acqua sporca: non funziona la governance, non danno affidamento i meccanismi di governo e direzione aziendale? Vanno aperte le finestre nelle redazioni di Saxa Rubra e va fatta circolare un po’ d’aria fresca – aria di libertà – nelle redazioni? Sicuramente si. Non c’è bisogno, però, di liberarsi del servizio pubblico tout court.
Basterebbe una legge che staccasse la spina che lega la Rai alle segreterie di partito e basterebbero dei direttori un po’ più coraggiosi, autonomi e responsabili verso chi paga il canone e non verso i leader di partito. Perché non sono i partiti gli editori di riferimento, bensì la totalità di chi paga il canone. Non dovrebbe essere così difficile imporlo alla cultura politica e a quella aziendale.
Più sofisticata e più credibile la posizione dei liberal-riformisti. Io stesso fino a qualche anno fa, di fronte alla complicità dei governi di centro destra, schiavi e vittime dell’«anomalia Berlusconi», nella conservazione del duopolio, se non del suo rafforzamento, e di fronte all’impotenza dei governi di centro sinistra a fare riforme coraggiose, mi ero andato convincendo che forse per dare un po’ di pluralismo al sistema radiotelevisivo italiano ci fosse bisogno di «uno shock terapeutico» e non ci restasse altro da fare che imporre al servizio pubblico di dimagrire e così spingere qualche imprenditore illuminato a comprarsi magari Raiuno e a cimentarsi nella concorrenza con il monopolista rimasto, anche grazie all’aiuto di norme antitrust più stringenti per il mercato pubblicitario. Non la penso più così. E a farmi cambiare idea è la consapevolezza che con la rivoluzione digitale sta completamente cambiando lo scenario dentro il quale si muove la televisione, stanno cambiando gli argomenti, i paletti, i rapporti di forza, i punti di riferimento che erano tipici dell’epoca dell’analogico.
Convergenze mediatiche. Intanto la televisione analogica in chiaro e gratuita non è più sola. Sta crescendo a ritmi accelerati la televisione a pagamento: prima di tutto il satellite che può già contare su più di 3,5 milioni di abbonati e che nei giorni del calcio va anche oltre il 15 per cento degli ascolti; è partita la pay per view in digitale terrestre grazie a Mediaset e a Telecom; e poi sta per partire la Iptv, la televisione via protocollo Internet. A Fastweb che è stata l’antesignana segue la stessa Telecom e presto sicuramente altri telefonici si affacceranno alla tv a pagamento via Internet. Parlare oggi di vendere una o due reti dimostra che non si è capito quello che sta succedendo, soprattutto se si pensa di poter creare per questa strada più pluralismo, più mercato. La novità, infatti, è che con la convergenza fra computer, televisione e telefono, non ha più senso parlare di reti, di canali, di programmi, come se ne parlava nell’epoca dell’analogico. Bisogna ripartire da un concetto nuovo, dalla «capacità trasmissiva», e cioè dalla quantità di bit al secondo che possono essere distribuiti via etere. E’ allora la percentuale di questa capacità trasmissiva che va regolamentata – e non il numero delle reti – in modo da garantire che ce ne sia a disposizione per più soggetti imprenditoriali e non solo per i soliti noti. (…)
Prima di proseguire nel nostro ragionamento teso a dimostrare la debolezza, la contraddittorietà o meglio l’obsolescenza dell’idea di vendere una rete Rai, bisogna chiarire ancora alcuni fatti di cui bisogna avere consapevolezza, prima di avventurarsi nell’ipotizzare una riforma del sistema che vada nella direzione di una maggior concorrenza, di un reale maggior pluralismo. E i fatti da conoscere, oltre al concetto di fondo della «capacità trasmissiva» sono i seguenti. Primo. Nell’epoca dell’analogico, chi ha una rete diffonde un canale, un programma, un palinsesto e dunque è logico che controlli il sistema distributivo. E’ quello che si chiama un soggetto imprenditoriale «verticalmente integrato». Dallo Stato ottiene in concessione le frequenze che gli servono solo ed esclusivamente per trasmettere – grazie agli impianti, alle torri, ai siti che occupa – la sua rete, che contiene un solo canale, un solo programma. E questo programma lo infarcisce di pubblicità nei limiti che gli consente la legge. Nell’epoca del digitale, là dove c’è una rete ci sono più canali, almeno cinque. E la legge giustamente dice che almeno il 40 per cento devono essere affidati ad altri imprenditori che producono televisione. Insomma io potrò anche tenermi tre canali ma due devo darli ad altri. Con l’arrivo della rivoluzione digitale il mio mestiere si complica e si duplica: per un verso faccio l’operatore di rete che deve garantire ad altri il massimo di trasparenza e di correttezza nell’accesso alla rete, per un altro verso continuo a fare il fornitore di contenuti. E se i contenuti di chi ospito nella mia rete fanno concorrenza ai miei contenuti? Come devo comportarmi? E’ da qui che nasce l’idea di distinguere chi gestisce la rete da chi fabbrica e distribuisce contenuti. Sono due mestieri diversi e sarebbe bene che lo fossero sempre di più in maniera tale da dar vita a società nettamente separate.
Anomali. Secondo. L’evoluzione del sistema radiotelevisivo in Italia ha prodotto negli anni alcune anomalie di cui – nell’epoca dell’analogico – non si è riusciti a liberarsi: intanto va detto che l’80 per cento delle frequenze che contano a livello nazionale se le dividono Rai e Mediaset. Sul totale delle 20 mila frequenze più o meno legittime, la metà è occupata da due sole aziende. Le altre 10 mila se le dividono tutte le altre tv nazionali e le 700 tv locali (un vero sproposito). Per capire la follia italiana forse basta un dato: la Germania occupa per tutte le sue tv la metà delle frequenze che occupa l’Italia. Negli anni le frequenze sono state occupate senza alcun rispetto per l’ottimizzazione del sistema, senza la capacità di nessuna Autorità di imporre un Piano nazionale di assegnazione delle frequenze che ottimizzasse l’uso dello spettro radioelettrico. Di fronte al caos dell’etere, per difendersi dalle interferenze si sono occupate più frequenze, si sono costruiti più impianti di quanti non fosse necessario a rigor di logica. Il risultato è che oggi realisticamente si può parlare di uno spreco di capacità trasmissiva. (…) Terzo. Uno dei guasti del duopolio è di aver consentito a un solo soggetto – Mediaset – di arrivare a controllare il 65 per cento della pubblicità televisiva nazionale. Con la spiegazione che la Rai ha il canone, al servizio pubblico sono stati imposti vincoli forti sulla raccolta pubblicitaria. Il risultato è che la Rai oggi può vendere 72 mila secondi di pubblicità alla settimana, mentre Mediaset ne può vendere la bellezza di 360 mila! Un terzo soggetto come Telecom Media Italia che pure ha due canali analogici non va oltre la raccolta del 2 – 3 per cento della pubblicità nazionale. Senza vincoli antitrust ex ante – e la Gasparri con l’invenzione del Sic ha fatto strame della norma antitrust che prevedeva un tetto del 30 per cento per ogni soggetto radiotelevisivo – è difficile pensare che anche nel nuovo mercato televisivo digitale, almeno nella fase di transizione dall’analogico al digitale, si crei una reale concorrenza. Quarto. Operatori verticalmente integrati che controllano il meglio delle frequenze e hanno la stragrande maggioranza delle risorse pubblicitarie sono anche in condizione di pagare di più e meglio i diritti dei prodotti più appetibili, dal calcio al cinema. Quei diritti che fanno aumentare gli ascolti e dunque giustificano fatturati pubblicitari sempre più alti. (…) Quinto e ultimo punto di cui è necessario aver consapevolezza prima di procedere nel ragionamento iniziale contro la privatizzazione di una rete Rai: con la rivoluzione digitale e con l’arrivo della convergenza – grazie ai bit – fra televisione, telefonia e computer, si è creata una situazione nuova per i broadcaster come Mediaset e Rai.
Quella capacità trasmissiva di cui abbiamo parlato, fa gola ormai anche alle società che vendono telefonia. Ne hanno bisogno per arricchire la loro offerta sui telefonini. La vendita della sola voce non soddisfa più i loro bisogni di crescita. Anche considerando che sempre più la voce passerà via Internet con nuove straordinarie tecnologie che riducono drasticamente il costo di una telefonata. Già oggi parlare da computer a computer non costa più di un centesimo di euro. (…)
La difficoltà per un nuovo governo sta non tanto nel prefigurare lo scenario di quando tutto il sistema sarà digitalizzato, quanto nel decidere che fare durante gli anni della transizione, del passaggio dall’analogico al digitale. Si può consentire a chi oggi ha uno strapotere nell’analogico di proseguire sulla vecchia strada della posizione dominante sia nelle frequenze, sia nella pubblicità, sia negli ascolti, aspettando che il digitale terrestre crei nei fatti maggior pluralismo? E come si deve fare per evitare che il duopolio dall’analogico si trasferisca al digitale? E che cosa si dirà a quei dirigenti Mediaset, come lo stesso Confalonieri, che dicono di temere «vendette» del centro sinistra e probabilmente per vendetta intendono il ritorno di regole antitrust, il rispetto di norme che facilitino la concorrenza e non il contrario come oggi?
Switch off. Partiamo dalla fine, da quando cioè ci sarà stato lo switch off, il totale passaggio della tv dall’analogico al digitale. A quel momento, il punto di riferimento per norme antitrust intelligenti dovrà essere la percentuale di «capacità trasmissiva» su cui un’impresa potrà contare. E’ realistico pensare che nessuno – visti i tanti soggetti anche telefonici interessati alla rete – disponga di più del 10 per cento, e non del 20 per cento come dice la legge Gasparri. Che vuol dire se la capacità è 350 megabit al secondo? Che nessuno può avere più di 35 megabit/secondo, vale a dire in teoria otto canali digitali terrestri. Meno se sono ad alta definizione e comunque da definire se tutti in chiaro oppure come in Francia alcuni anche a pagamento.
Prima di tutto vanno dunque create le condizioni perché chi fa l’operatore di rete sia un soggetto imprenditoriale diverso da chi fa il fornitore di contenuti. Solo così avrà come interesse assolutamente prioritario quello di ottimizzare l’uso della risorsa frequenze, mettendo più capacità trasmissiva possibile a disposizione di tutto il sistema. Per raggiungere questo obiettivo nel periodo di mezzo, nella fase di transizione, vanno scoraggiati gli imprenditori verticalmente integrati. Per la Rai potrebbe valere l’impegno a mettere sul mercato Raiway facendone un operatore di rete autonomo, in grado di fare accordi con altre imprese, nazionali e no, con un solo dovere: per i prossimi dieci anni garantire alla Rai la capacità trasmissiva di cui ha bisogno per offrire un buon servizio pubblico universale a costi politici. Nel caso la Rai volesse usare parte della capacità trasmissiva anche per canali a pagamento, in questo caso e per quei canali dovrebbe pagare cifre di mercato.
Transizione. Per quanto riguarda la risorsa pubblicitaria, per tutto il periodo della transizione dall’analogico al digitale, vanno comunque ripristinati tetti antitrust ex ante, che verranno tolti e diventeranno verifiche ex post sulle posizioni dominanti del mercato quando ci sarà il solo digitale. Al fine di evitare di imporre subito tagli sconvolgenti – proprio per non penalizzare nessuno, neanche Mediaset – va comunque messa in campo una riduzione dei tetti consentiti per tappe temporali prefissate: per esempio ogni due anni. Per chi intende restare proprietario delle reti e dei contenuti, vanno prefigurati tetti e vincoli più stringenti. Per chi ha una sola rete analogica si può anche immaginare che non ci siano tetti ex ante; per chi ha due o più reti analogiche si dovranno rispettare tetti ex ante pari a un terzo del mercato pubblicitario nazionale. A meno che non abbia già separato la proprietà della rete affidandola a un operatore di rete terzo. In questo caso potrà raccogliere anche il 10 per cento in più rispetto al 30 per cento consentito.
Come si può arguire da tutte queste ipotesi che un nuovo governo dovrà comunque mettere in agenda, la discussione sul futuro del sistema radiotelevisivo non gira più intorno a vendere una rete Rai o due, ma gira intorno a temi nuovi, figli della rivoluzione tecnologica in atto e i cui contorni non sono ancora ben definiti. Per la Rai la sfida ruota intorno alla ridefinizione della sua missione di servizio pubblico, di fabbrica dei contenuti per tutte le piattaforme tecnologiche che vanno dal digitale terrestre alla tv mobiloe, dal satellite alla Iptv.
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