→ agosto 6, 2014
Quante volte abbiamo sbagliato! Sbagliato a credere che il “sorpasso” ci avrebbe liberato dalla razza padrona; a non credere in Craxi; a credere nell’alleanza dei progressisti; a credere nella Bicamerale di D’Alema; a caricare a testa bassa la riforma costituzionale di Berlusconi; a pensare che Monti fosse la svolta. Sbagliamo, adesso, a credere in Renzi?
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→ agosto 4, 2014
di Federico Fubini
Giovedì presenterà la sua proposta più operativa: il taglio dei costi delle società partecipate dalle amministrazioni dello Stato e una drastica sforbiciata al loro numero, così esorbitante che nessuno sa più quante sono: di certo, più di diecimila.
L’IMPEGNO DI RENZI
Il 18 aprile scorso Matteo Renzi si è impegnato a ridurle “a mille entro tre anni”. Il premier lo ha fatto nella conferenza stampa in cui annunciò il bonus da 80 euro al mese sui redditi medio-bassi, una promessa mantenuta. Ora Cottarelli intende aiutarlo a rispettare anche quella sulle imprese di cui sono azionisti lo Stato centrale, le regioni, le provincie o i comuni. È un obbligo di legge: il decreto 66, quello sul bonus Irpef, vincola il commissario a presentare in questi giorni un piano sulle mille piccole Iri d’Italia e ormai esso è pronto. Il piatto forte sarà un doppio programma di liquidazione e accorpamento di migliaia di imprese pubbliche o semi-pubbliche.
AL LAVORO CON LA CORTE DEI CONTI
Per arrivarci, Cottarelli ha lavorato fianco a fianco con la Corte dei Conti su ciò che è dato sapere dei bilanci delle società pubbliche. È stato un viaggio dalle gigantesche controllate della Regione Lombardia, alle follie veneziane, fino alle società “in house” di Priolo Gargallo in Sicilia, passando le attività balneari di Alassio, l’incredibile voragine finanziaria di Viareggio, i problemi della provincia di Firenze e gli scioccanti livelli di costo pari e inefficienza dell’Ama, la società dei rifiuti del comune di Roma.
In Italia le società controllate al 100% da amministrazioni dello Stato sono circa cinquemila, di cui 400 in mano alle regioni. Cottarelli definisce questo mondo una “giungla”. Un codicillo fatto passare dal governo di Mario Monti due anni fa ora obbliga gli amministratori di questa giungla a fare un po’ di trasparenza: i revisori devono registrare i loro conti sul Siquel, la banca dati della Corte dei Conti. I primi numeri iniziano ad emergere proprio in queste settimane, con vaste lacune, ma il quadro che si profila appare già più critico del previsto. Non c’è solo il fatto che, in aggregato, le partecipate viaggiale con una perdita netta di 1,2 miliardi (sul 2012). C’è di peggio: anche gli utili dichiarati spesso sono da prendere con le molle. Non che siano falsi: sono solo indebiti, in molti casi. Possibile? Solo la metà delle cinquemila imprese prese in esame dalla Corte dei Conti, dunque appena un quarto della galassia del capitalismo di Stato, dichiara la vera entità dei trasferimenti ricevuti dalle amministrazioni pubbliche. Ma già così i dati sono eloquenti: 61 imprese, alcune enormi, incassano in cambio della loro attività delle somme superiori al valore della loro produzione. È come se i contribuenti pagassero qualcuno per farlo lavorare otto ore, ma questi ne assicurasse solo quattro o sei. Date proporzioni del campione, è dunque certo che le imprese pubbliche in questa situazione in Italia sono molte più di cento. Senza parlare di altre aziende partecipate che forniscono servizi a costi eccessivi o costituiscono veri e propri doppioni con gli enti che le controllano.
IL CASO LOMBARDIA
Il caso Lombardia è forse il più evidente, anche se fino a oggi era difficile per il contribuente di quella regione misurare i costi che sta coprendo. Non che la giunta guidata da Roberto Maroni controlli al 100% molte imprese: sono appena quattro, create per esternalizzare certe funzioni e la fornitura di servizi. Ma il loro fatturato totale sfiora i 400 mino lioni di euro, molto più della spesa in personale dell’ente stesso. I trasferimenti dall’azionistacliente — cioè la Regione — non sono stati comunicati dai revisori alla banca dati della Corte dei Conti, ma colpisce un fatto: il fatturato di Lombardia Informatica, la società per la fornitura di beni e servizi elettronici, raggiunge la cifra monstre di 185 milioni di euro (sul 2012). Costa molto ma almeno la Regione risparmia sulle spese in computer, si presume. Sbagliato: nel bilancio preventivo per cassa della giunta Maroni figurano nel 2014 altri 71 milioni per “statistica e servizi informatici”. Di conseguenza ogni volta che vedono salire le addizionali regionali, i contribuenti lombardi possono legittimamente sospettare che stanno pagando due volte per le stesse funzioni dell’ente che li tassa.
IL RECORD DI ROMA
Il comune di Roma Capitale detiene invece un altro record: una sua impresa riesce a incassare denaro in eccesso al valore della propria produzione a livelli senza eguali in Italia e forse in Europa. Si tratta dell’Ama, ovviamente. Ai conti del 2012, la società romana della raccolta rifiuti ha fatturato per 752 milioni di euro ma il totale delle erogazioni pubbliche a suo favore ha superato il miliardo. In sostanza ha incassato 250 mila euro per pulizie che non ha fatto, e si vede: malgrado la grande disponibilità di denaro del contribuente, Roma resta senz’altro la capitale più sporca dell’Unione europea. E l’utile di 16 milioni dell’Ama può in realtà essere visto come una perdita, se solo i pagamenti fossero stati in linea al lavoro effettivamente svolto. Roma non è sola, beninteso.
Venezia per esempio le fa compagnia con alcuni risultati singolari. Sul 2012 la Cmv Spa, la società del casinò del comune, dichiara un “valore della produzio- ne” di 72 milioni di euro ma erogazioni dall’ente azionista di 173 milioni. In sostanza, il casinò viene sussidiato dalle tasse per oltre il doppio del suo fatturato. Per non parlare dell’Istituzione per la Conservazione della gondola e la tutela del gondoliere: fattura mezzo milione, incassa dal comune 760 mila.
TRA FIRENZE E VIAREGGIO
Più a sud spicca il caso della Florence Multimedia, società di pubbliche relazioni fondata dalla provincia di Firenze quando presidente era Matteo Renzi. Sia il ministero dell’Economia che la Corte dei Conti hanno mosso rilievi molto critici sulla gestione. Certo nel 2012, quando Renzi non era più alla provincia, è fra le società pubbliche che incassano più di quanto fatturato: oltre 1,1 milioni di euro. Niente a confronto di Viareggio, una piccola Grecia in Toscana. Lì il comune nel 2012 dichiarò un deficit di 1,5 milioni, che la Corte dei Conti rivide al rialzo a 9 milioni. L’anno dopo, cambiata la giunta, il buco sale a 53 milioni di euro per le perdite più o meno nascoste in precedenza. Pesano le voragini di società “esterne” come la Viareggio Patrimonio o la Fondazione Carnevale.
La lista delle assurdità potrebbe continuare. A Alassio la società comunale “Bagni del Mare” fattura 43 euro ma ne incassa centomila. A Ascoli in Palio della Quintana ne fattura 63 mila ma gliene versano 274 mila. E così via. Non tutti lasciano che le cose continuino così: nel Lazio il governatore Nicola Zingaretti ha ereditato una regione al default di pagamento sui fornitori, ma è già riuscito cinque controllate e ne vuole eliminare dieci su 40.
Non è mai facile chiudere una società di una Regione, perché serve il voto a maggioranza del consiglio e gli eletti del popolo di solito non vogliono mai privarsi di una buona fonte di spesa e sprechi. Specie ora: in ottobre si vota in Emilia-Romagna, in primavera in altre sei Regioni. Per Renzi, è arrivato il momento di mostrare che sulla sua promessa di quattro mesi fa fa davvero sul serio. Con o senza Cottarelli.
→ agosto 3, 2014
di Luca Ricolfi
Su quel che fa il governo Renzi le opinioni divergono. C’è il partito del «finalmente, dopo trent’anni !» che si compiace di ogni novità, reale o presunta che sia. E c’è il partito del «niente di nuovo sotto il sole», che vede riemergere i soliti difetti della politica: tanti annunci e pochi fatti, scadenze non rispettate, leggi e decreti pasticciati, eterno rinvio dei problemi più spinosi, a partire da quello del mercato del lavoro.
Quello su cui quasi tutti sono d’accordo è che lo stile di governo è cambiato, perché il nuovo premier non è ingessato come i predecessori, e pare determinatissimo a portare a termine i propri piani. C’è un punto, tuttavia, su cui mi pare che non si stia riflettendo abbastanza. Quel che Renzi e i suoi stanno cambiando non è solo lo stile di governo, il tipo di comunicazione, il rapporto con l’opinione pubblica. A me pare che il cambiamento più importante sia una sorta di ritorno in grande stile del primato della politica. Un ritorno che, a seconda dei punti di vista, si può descrivere come sussulto di orgoglio o come rigurgito di arroganza, ma che comunque è in pieno atto.
Ma primato nei confronti di chi?
Alcune vittime del ritorno della politica si vedono ad occhio nudo. I magistrati e i sindacati, ad esempio. Non che questi due poteri siano stati riformati o meglio regolamentati, come da qualche decennio si attende. Però sono stati subito «messi a posto»: verso i magistrati Renzi ha dichiarato che non aveva alcun problema a tenersi degli indagati fra i membri del governo, verso i sindacati ha detto chiaro e tondo che potevano scordarsi i riti della concertazione, perché lui avrebbe deciso anche contro il loro parere.
Questa però è solo la parte più visibile della restaurazione del primato della politica. Accanto ad essa ve n’è un’altra, a mio parere ben più carica di conseguenze. Di tutti i premier della seconda Repubblica (e forse anche della prima) Renzi è quello che mostra il minore rispetto, per non dire il maggiore disprezzo, per qualità come l’esperienza, la competenza, la preparazione tecnica e culturale. E, simmetricamente, è il premier che con più spregiudicatezza ha puntato sulla fedeltà e l’appartenenza come criteri di selezione della classe dirigente.
Tutto questo era evidente fin dalla scelta della squadra di governo, con la rinuncia a servirsi dei migliori e la preferenza accordata ai più fedeli, ma è diventato via via più evidente nelle ultime settimane. Quando, nella polemica con il commissario alla spending review, Renzi e i suoi ribadiscono che «è la politica che decide», non c’è solo l’ennesima manifestazione dell’arroganza del potere (la frase «Cottarelli stia sereno» è un avvertimento di sfratto), ma c’è l’implicita affermazione di un’idea della politica come attività sostanzialmente autosufficiente. Un’idea che verrebbe da definire semplicemente ingenua, se le sue conseguenze non fossero estremamente dannose. Pensare che problemi di enorme complessità e delicatezza, come il cambiamento della Costituzione, la riforma del mercato del lavoro, la riorganizzazione della Pubblica amministrazione, si possano affrontare mediante un negoziato fra partiti, gruppi parlamentari e fazioni varie, senza un disegno coerente e meditato, con la sola logica delle concessioni reciproche, significa non avere la minima idea degli enormi limiti cognitivi della politica, tanto più di questa politica, con questi politici, nell’Italia di oggi. Nessuno costruisce un aereo, o un’automobile, o un computer, cercando di mettere d’accordo tutti i produttori che ambiscono a fornirne parti e componenti. Eppure è questa la pretesa della politica in Italia. Ed è questa, probabilmente, la ragione per cui la stragrande maggioranza degli aerei, delle automobili e dei computer funzionano, mentre le nostre leggi di riforma non funzionano quasi mai.
Ma la restaurazione del primato del politico, sfortunatamente, non finisce qui. Il disprezzo per la competenza, per l’esperienza, per i saperi tecnici e specialistici, non si limita a privilegiare i politici puri nelle posizioni di governo, ma investe anche il lavoro e le professioni della gente comune. Per chi è della mia generazione, e ha preso atto degli obbrobri della rivoluzione culturale cinese, con le sue epurazioni di intere categorie di persone, medici, insegnati, ingegneri, professionisti, intellettuali, colpevoli soltanto di essere «borghesi» anziché «contadini poveri», fa un certo effetto la leggerezza con cui la politica sta procedendo a rottamare medici, magistrati, professori semplicemente in base alla loro età, senza alcuna considerazione sulle loro competenze o la loro utilità. Come fa effetto sentire che qualcuno è stato scelto «in quanto donna», o «in quanto giovane», senza alcun riferimento ai suoi meriti rispetto ad altri candidati.
La realtà, temo, è che demagogia e populismo sono ormai saldamente insediati nel Dna della nostra classe politica. Renzi e i suoi, almeno per ora, non sembrano fare eccezione. Perché l’essenza del populismo, il suo ingrediente fondamentale, non è l’appello al popolo (che pure non manca: «ho preso il 40.8% dei voti»), ma è il semplicismo, l’incapacità di riconoscere e accettare la complessità dei problemi di una società moderna, tanto più se in crisi da vent’anni. E’ di qui che nasce il senso di sufficienza verso professionisti ed esperti. E’ qui che trova alimento il sentimento di onnipotenza dei governanti. E’ qui, soprattutto, che il progetto di restaurare il primato della politica ha il suo fondamento logico: se i problemi sono semplici, e si tratta solo di tradurre in legge alcuni nobili principi, la politica può farcela da sola, e i Cottarelli di ogni genere e specie possono tranquillamente (anzi: «serenamente») andare a farsi benedire, tanto un tecnico amico lo si trova sempre.
Per Stella e Rizzo, autori del più fortunato pamphlet politico degli ultimi anni (La casta, Rizzoli 2007), c’è oggi forse qualche nuovo materiale su cui riflettere: la lotta contro la casta, nata per cambiare la politica, sta producendo la più spettacolare e imprevista rivincita della politica stessa.