→ Iscriviti
→  aprile 10, 2015


by Philip Stephens

The pilgrimage of Greek prime minister Alexis Tsipras to Moscow told a tale of two tragedies. One, perilously close to the denouement, is about Greece’s uncertain place in the family of European nations; the other, still unfolding but with a storyline that foretells a calamitous final act, is about the future not just of the euro but of European integration.
Predictably enough, the Greek prime minister was feted by Vladimir Putin. The Russian president’s revanchist aggression in Ukraine has left his regime more vulnerable than anyone in the Kremlin would dare admit. Mr Putin badly needs to weaken the EU sanctions regime. Shared Orthodox Christianity, an air of leftist nostalgia in Athens and, above all, Greece’s desperate isolation make it an ideal target for Moscow’s strategy of divide and rule.

It is harder to see what Mr Tsipras gains beyond a few warm words to cheer his supporters at home. The promise of a gas pipeline years hence? Any aid on offer from Moscow would be minuscule relative to funds from the EU and the International Monetary Fund. There is nothing Mr Putin could do that would make leaving the euro any less painful.

The other day I heard Yanis Varoufakis explain how Greece had ended up here. The finance minister’s is a story fluently told — of US backing for the colonels, of the havoc wreaked on industry by the free trade rules of the EU, of the Brussels funding that bankrolled clientelist politics in Athens and of how cheap euros created a ruinous bubble.

There are elements of truth in this; and Mr Varoufakis is right when he says the present debt burden is unsustain­able. Missing from the narrative, though, is any sense that Greece must make its own choices. That, whatever the sins of others, only Athens can decide whether Greece prospers as a modern democracy or whether it slips back into the shadows of the Balkans.

The omission, and the implicit rebuke to outsiders who do not feel bound by ballots cast by Greeks, is at the heart of what so frustrates Athens’ partners. This is not just about the Germans, even if Wolfgang Schäuble, Berlin’s finance minister, foolishly lends credibility to the idea. Mr Tsipras is isolated among fellow debtors as much as creditors. What unites them is a demand that Athens produce a plausible plan to reform the Greek state — to modernise its administration and politics as much as its economy. Such a plan would transform the mood of negotiations.

Mr Putin’s preference is otherwise. A collapse in Greek living standards would leave it ripe for the coercion and subversion that are Russia’s trademarks in an effort to expand its influence and control in southeastern Europe. The Russian president already has Hungary’s prime minister Viktor Orban in his breast pocket. His agents are working hard — exploiting Russia’s energy monopoly, buying politicians, bribing officials and taking stakes in financial institutions — to promote instability across the Balkans.

Yet talk to finance ministers and central bankers across the rest of Europe and the mood is one of fatalism. They will tell you that the eurozone would withstand Greece’s departure. This is not 2008, or even 2012, they say. Governments have put in place the mechanisms to deal with crises. Some sound as if they believe that, freed from the vicissitudes of Greek politics, the euro would be stronger in the long run.

In a narrow sense they may be right, though I would not bet on it. But Greece is a distorting prism. Its sequential crises have bred complacency by distracting from the profound structural flaws and political challenges that still imperil the euro. Making monetary union work demands more than proficient crisis management.

Spring has seen a burst of sunshine in the European economy. The European Central Bank’s quantitative easing is having an effect. Growth has picked up a little. Yet it is a delusion to think that the euro is in safe harbour. Fiscal and financial union are at best half-completed, and the political threat to the euro continues to grow.

National politicians refuse to admit the supranational imperatives of the project they are pledged to safeguard. And a return to growth rates of 1 or even 2 per cent will not be enough to restore the euro’s legitimacy among the angry voters who are turning to populist movements of right and left.

In 2012, European leaders defied the markets by summoning up the political resolve needed to save the single currency. They have since lost the will to sustain it. Greece may not bring down the euro; the existential threat lies in the more generalised failure of nerve and leadership.

So it is, too, in the relationship with Moscow. The biggest danger to Europe comes not from the forays of Mr Putin’s rusting aircraft carrier, or his cold war-vintage nuclear bombers, or from Soviet-style subversion in some of the darker corners of the continent.

No, the real weakness lies in a European mindset that prefers to temporise and equivocate than to confront Mr Putin head on. Mr Tsipras’s visit may have held up a mirror to Greece’s troubles. But it also offered a reflection of diffidence and division across Europe. If Greece does fall out of the euro it will also fall out of Europe. And the failure of the euro would mark the failure of Europe. What unites these twin tragedies is the stubborn reluctance of the authors to rewrite the endings.

→  aprile 3, 2015


di Giuseppe De Rita

La generazione di laureati cui appartengo, quella che cominciò a lavorare intorno agli Anni 60, coltivava il sogno di entrare all’Iri o alla Cassa per il Mezzogiorno, in Olivetti o in Montecatini, luoghi di ricca articolazione organizzativa, che garantivano alta e gratificante professionalità (non a caso in essi si è formata una buona parte della classe dirigente degli ultimi decenni). Quei luoghi non ci sono letteralmente più.La generazione successiva, quella che ha cominciato a lavorare a metà degli Anni 80, ha invece coltivato il sogno di andare nelle grandi banche o nelle grandi sedi di intermediazione finanziaria nella convinzione che solo in esse si poteva sperare in una ascendente mobilità professionale. Oggi quella prospettiva è declinata, se è vero che anche grandi banchieri propendono al lavoro in proprio o al trasferimento di uffici e famiglia a Londra.Alla fine, paga il conto la generazione di laureati che oggi vogliono entrare nei piani alti del mercato del lavoro. Essa è più solida in termini di anni standard di educazione, anche post-muniversitaria; ma trova aziende e istituzioni «rinsecchite» (per concentrazione di business e/o per spending review) e quindi carenti di una articolazione organizzativa capace di accogliere e valorizzare i giovani. Ai quali resta o l’avventura del lavoro autonomo o più ancora l’avventura di andare all’estero, nel rimpianto di chi parla di esodo dei talenti e nello sconcerto di chi ritiene che cediamo ad altri un capitale umano creato dalle famiglie e dalle istituzioni italiane.È il frutto della globalizzazione, per carità; ma è anche il risultato di un sistema (di imprese e di istituzioni) che ha decostruito le strutture manageriali più complesse senza sostituirle con altre di pari spessore, così creando dei «vuoti» certo non attrattivi per giovani con un po’ di ambizione.Converrà allora cominciare a pensare che la crisi più grave non si esplica nei livelli medio-bassi del mercato del lavoro, ma nei piani alti, quelli della professionalità alta, delle strutture organizzative di grande dimensione (private e pubbliche, aziendali ed istituzionali) che pagano il decadimento delle funzioni dirigenziali e degli organigrammi ad esse preposti, e che quindi non hanno vitalità e spazi per giovani di buon livello, ormai neppure per mantenere al lavoro i dirigenti anziani destinati a diventare «esodati». Una crisi dura ed inattesa, su cui non abbiamo adeguate strategie di fronteggiamento. Ed allora vale la pena di ripartire dalla denuncia netta e chiara del «tradimento dei grandi» (aziendali e istituzionali) e dei loro chierici. Per anni hanno sostenuto che la debolezza del sistema Italia veniva dal prevalere della piccola dimensione; si dilettavano a dire che «il piccolo non è bello»; guardavano con una certa albagia quel «popolo di nani» che pure è la componente dominante della nostra realtà d’impresa.Sostenevano a parole l’esigenza di sviluppare dimensioni organizzative sempre più complesse e competitive, ma nei fatti non hanno saputo far crescere i soggetti, l’organizzazione, i quadri dell’operare in grande. E adesso una parte di loro resta in silenzio svicolando dal problema, ed una parte addirittura sceglie una «piccola avventura» personale.Allora, ci salveranno i tanto bistrattati nani. È già successo, negli Anni 70, che il progressivo declino delle grandi dimensioni di impresa sia stato compensato dalla moltiplicazione delle piccole imprese, spesso addirittura sommerse. Ma oggi i livelli di competizione internazionale e tecnologica sono tali da non permettere grandi spazi ai piccoli imprenditori; occorre allora un complessivo salto di qualità del sistema puntando allo sviluppo di nuova cultura manageriale, di nuovi assetti aziendali, di nuovi modelli di organigrammi organizzativi, di nuove procedure decisionali, nuovi canali di comunicazione, in un periodo di una nuova complessità della governance. Ed è questo, forse, l’unico modo per dare sostanza al vecchio termine di «politica industriale»: non disperdersi in strategie di settore, ma concentrarsi su un solo fattore, il rinnovamento della cultura organizzativa, quello dei vertici delle aziende, dei gruppi d’impresa, delle istituzioni economiche.

→  marzo 31, 2015


di Massimo Mucchetti

Il caso Pirelli ci dice che i vincoli di finanza pubblica soffocano l’idea di un vero capitalismo di stato. Idee per controllare le imprese strategiche, contro le inutili retoriche anti mercatistiche e neo liberiste.

Lunedì 23 marzo 2015, mentre il governatore Ignazio Visco teneva la relazione d’apertura al convegno sulla storia dell’Iri promosso dalla Banca d’Italia, ospite l’Accademia dei Lincei, il presidente della Pirelli, Marco Tronchetti Provera, spiegava al Corriere della Sera ragioni e modalità dell’ingresso in posizione maggioritaria di Chem-China nel capitale della “sua” azienda, la più antica e importante multinazionale italiana.
Una coincidenza assai curiosa, una novità intrigante. Eppure, la politica italiana ha reagito come sempre, oscillando tra lo sdegno urlato quanto generico per “l’Italia in svendita” e il liberismo rigido ma libresco del “questo è il mercato, bellezza!”. E invece quella coincidenza, ove se ne ascoltassero gli echi, la direbbe assai lunga sul fenomeno più importante che segna il sistema delle grandi imprese italiane nell’ultimo quarto di secolo: il Tradimento del Capitale, del capitale più che dei capitalisti. La fuga. La resa. Della funzione più che degli uomini. La Pirelli era scalabile ed è stata scalata.
Tre le ragioni principali. La prima deriva dal venir meno del patto di sindacato, orchestrato da Mediobanca a conservazione degli assetti di controllo. La seconda ragione origina dalle nuove regole prudenziali per le banche e le assicurazioni, principali alleate dell’azionista di riferimento ai tempi del patto e dopo; in seguito agli accordi di Basilea e a Solvency 2, le partecipazioni azionarie rilevanti assorbono capitale in misura equivalente al loro ammontare: troppo nell’epoca in cui l’Eba (European banking authority) e l’Eiopa (European insurance and occupational pension authority) richiedono a banche e assicurazioni mezzi propri sempre più consistenti a copertura dei rischi. La terza ma non ultima ragione proviene dai conti. Secondo Mediobanca, nel 2015 il debito consolidato della Pirelli, al netto della liquidità, scende verso i 760 milioni e l’utile prima delle imposte è atteso di uguale stazza; nel 2016 il debito diminuirà ancora a mezzo miliardo e l’utile lordo, invece, sfiorerà il miliardo. Secondo Datastream, i multipli borsistici dell’azione Pirelli sono in linea con la media dei concorrenti. Dunque, una Pirelli con simili fondamentali poteva essere scalata con profitto per lo scalatore ove l’acquisizione fosse fatta a leva, e cioè finanziandola in buona parte a debito. La cosa è puntualmente avvenuta. Seguendo la logica dei leveraged buyout. Un classico.
I soci della holding di controllo, la Camfin, da Marco Tronchetti in giù, hanno bruciato i tempi e trovato un nuovo padrone con cui condividere l’operazione: 7,4 miliardi l’offerta per l’intero capitale, coperta per 4,2 miliardi da debiti; mano a mano che la cassa generata dalla gestione consentirà di rimborsare i creditori, aumenterà in proporzione il peso della componente azionaria del valore d’impresa e dunque il prezzo dell’azione.
A termine, gli attuali soci Camfin potranno vendere a ChemChina o ad altri le loro azioni Pirelli con un guadagno nettamente superiore a quello già buono implicito nell’attuale transazione, ma solo in parte realizzato.
I leveraged buyout possono essere non sempre auspicabili da chi ritenga la crescita dell’azienda prioritaria rispetto all’interesse più immediato degli azionisti. E tuttavia restano perfettamente legittimi, tanto più quando aiutino a risolvere problemi di successione.
Come nel caso di Tronchetti, che ha 67 anni e tre figli fuori dal business Pirelli. Un Tronchetti che, peraltro, ha posto le premesse per un ampio accesso della multinazionale di Milano al mercato cinese e per evitare, se la fortuna assiste, altre scalate con l’obiettivo di rivendere a pezzi un gruppo Pirelli all’uopo depotenziato. Naturalmente, ci possiamo chiedere se un altro destino – un destino così detto stand alone – sarebbe stato possibile, incrementando molto gli investimenti, da finanziare con più debito o con aumenti di capitale, come suggerisce su Repubblica Francesco Gori, ex top manager pirelliano. In questo caso, la Pirelli si sarebbe trasformata in una public company destinata tuttavia, aggiungo io, a restare tale, e cioè indipendente, fino a quando qualcuno abbastanza ricco non la scalasse comunque.
Ma per porci seriamente una simile domanda dovremmo prima rispondere a un’altra domanda: chi ha titolo per pretendere da un’impresa privata come Pirelli, che opera in un settore a concorrenza globale e non in regime di concessione, un piano diverso da quello approvato dal consiglio di amministrazione, per quanto questo consiglio possa dirsi condizionato dalla volontà del suo leader di conservare a tutti i costi il controllo della società? La risposta è semplice: un azionista più forte di Tronchetti.
Il genovese Malacalza ci ha provato. Ma non è riuscito a conquistare la Bicocca. In teoria, avrebbe potuto contattare il Fondo strategico della Cassa depositi eprestiti. Ma il Fondo avrebbe arrischiato un intervento di rottura in un’azienda che andava bene?
Domanda retorica, non essendo la questione mai stata posta all’ordine del giorno in termini cosi radicali. Ciò non toglie che un domani, se i patti parasociali negoziati da Tronchetti e Ren Jianxin, il manager comunista che guida ChemChina, lasciassero lo spazio e i conti fossero propizi, un investimento amichevole del Fondo, a ulteriore protezione dell’headquarter e dei centri di ricerca italiani nel quadro dello sviluppo internazionale del gruppo, non sarebbe certo un fuor d’opera. In fondo, un’intesa del genere è già stata raggiunta tra il Fondo strategico e un’altra impresa cinese, la Shangai Electric, per Ansaldo Energia, azienda importante ma mai quanto Pirelli. E qui arriviamo alla questione cruciale che il governatore Visco ha posto al convegno sull’Iri parlando del presente: “Ci si può chiedere se in questa difficile fase di cambiamento della nostra economia e della nostra società non sia auspicabile una presenza pubblica, in forma diretta e indiretta, maggiore di quella che si osserva oggi”.
Ignazio Visco considera sepolto dalla storia il “sistema Beneduce” e insiste sul contesto giuridico, politico e amministrativo quale elemento decisivo per lo sviluppo delle imprese. A titolo di concessione gentile alla Nostalgia dell’Iri (copyright by Guido Rey) che aleggiava nella sala dei Lincei, il governatore ha citato lo “Stato innovatore” laddove l’autrice, Mariana Mazzucato, sottolinea il ruolo del procurement della difesa americana nella ricerca di base delle università dalla quale sono derivate tutte le principali componenti dello smartphone. Ma la storia ormai conclusa dell’Iri e quella tuttora in atto della Pirelli suggeriscono che alla domanda di Visco si risponda in modo più diretto di come abbia fatto Visco medesimo.
Presenza pubblica in forma diretta e indiretta significa, a mio parere, presenza diretta o indiretta dello stato nel capitale delle imprese se e quando sia conveniente per l’interesse generale. Sbaglierò ma, così servita, la pietanza risulta più saporita, dato che lo stato azionista esiste e non ascolta i vibranti inviti di Alesina e Giavazzi all’autodafé. Lo stato italiano conserva partecipazioni di controllo in un certo numero di grandi società per azioni: Cassa depositi e prestiti, Eni, Enel, Finmeccanica, Snam Terna, Sace, Fintecna, Fincantieri, Poste, StM, Fs, Anas. E intende assumerne altre nelle imprese sull’orlo del fallimento ma meritevoli di essere salvate in assenza di salvatori privati. Vedi l’Ilva.
Del resto, il capitalismo di stato nel mondo ha un peso crescente: secondo l’Economist, il 60 per cento della Borsa cinese è in mani pubbliche, il 40 per cento in Russia e Brasile, e non parliamo delle società statali non quotate come la Saudi Aramco, che vale più del pil italiano; secondo Morgan Stanley, le imprese pubbliche quotate, le cosiddette SOEs (State Owened Enterprises), hanno battuto gli indici tra il 2001 e il 2012; secondo il McKinsey Global Institute, i fondi sovrani sono i più potenti tra i nuovi power broker.
La storia dell’Iri aiuta a capire l’oggi ove si abbia la bontà intellettuale di andare oltre la critica al molto che c’è da criticare sulle indebite pressioni della politica e, talvolta, del malaffare nelle imprese statali e parastatali: a questo punto, possiamo anche darle per acquisite, tali censure. Meno scontato è verificare l’editto europeo del 1993 in base al quale l’Iri non poteva essere ricapitalizzato perché un’iniezione di denaro da parte del Tesoro sarebbe stata considerata da Bruxelles un aiuto di stato a una holding fallita, come tale distorsivo della concorrenza.
L’Iri come holding e come gruppo era davvero fallito? La risposta è no. Si poteva e si può contestare l’attualità e l’utilità dell’Iri.
Ma come si può considerare fallita, e per questa ragione immeritevole di ricapitalizzazione, una una holding la cui liquidazione ha comportato un saldo positivo di 20 miliardi di euro che diventano 24 ove si consideri il valore della Rai stimato in vista della possibile quotazione in Borsa immaginata dall’allora direttore generale, Flavio Cattaneo? E come si può invece bollare come totalmente privatistico il salvataggio della Ferruzzi-Montedison, avvenuto anche a spese di anche pubbliche nello stesso periodo, posto che il saldo conclusivo è stato uno stiracchiato pareggio, raggiunto con la “droga” dell’Opa di Fiat su giro Bonaparte, che aprì le porte della privatissima Edison alla Electricité de France, monopolio statale francese per eccellenza?
Questi numeri – assieme ai bilanci assai migliorati di Poste e Fs, bollati per decenni come carrozzoni clientelari senza speranza – ci dicono che lo Stato azionista sa guadagnare al pari di un privato, se si dà’ il vincolo del profitto anziché prefiggersi l’obiettivo di redistribuire i margini a dipendenti e fornitori.
E’ curioso che oggi si sfidi il fantasma del Gepi, la “gallina che covava uova di pietra”, avviando una società statale dei turn around e si tema ancora il fantasma dell’Iri. Forse è anche una questione di uomini.
Nel suo intervento al convegno dei Lincei, Romano Prodi ha riferito il racconto delle origini dell’Iri che gli fece un testimone del tempo, Pasquale Saraceno: “Il Duce ci convocò e ci chiese di fare qualcosa per le imprese, non ci disse molto di più”. Nel 1933, le imprese maggiori erano in pancia alle banche fallite e rischiavano di fallire anch’esse in quanto azioniste indebitate delle banche medesime. In realtà, a Palazzo Venezia era già arrivato nel 1931 un appunto firmato dal banchiere Toeplitz, ma scritto da Raffaele Mattioli. che prospettava l’attribuzione della proprietà di queste imprese a una holding pubblica e la nazionalizzazione delle banche, che diventavano solo commerciali lasciando a istituti specializzati il credito finanziario. E sopra Mattioli stava Beneduce, l’inventore dell’Ina, del Crediop e dell’Icipu. Un gigante. Ma l’aneddoto di Prodi, che voleva riproporre con understatement bolognese l’eterna rincorsa tra il caso e la necessità, tra l’improvvisazione e la strategia, segnala anche la qualità del rapporto fiduciario tra il capo del governo e i grand commis, ai quali chiedeva la competenza dei capitani d’impresa e non la fedeltà delle camicie nere, del resto improbabile in un socialista riformista e nazionalista come Beneduce e in un liberale anarchico come Mattioli che, alla Comit, dava ufficio agli antifascisti laici. L’aneddoto di Prodi voleva certo riproporre per l’Iri, con understatement bolognese, l’eterna rincorsa tra il caso e la necessità, tra l’improvvisazione e la strategia. Come tutti i politici, Mussolini andava a spanne.
E però a chi si rivolgeva il Duce? A un manipolo di grand commis di altissima levatura, ai quali chiedeva competenza da capitani d’impresa e non fedeltà da camicia nera, del resto improbabile in un socialista nazionalista e riformista come Beneduce e in un liberale anarchico come Mattioli che, alla Comit, dava ufficio e stipendio agli antifascisti laici.
Visco ha ricordato che l’”opzione di restituire ai privati tutte le imprese rimase sul tavolo fino al 1937”. Aggiungo che, nei primi anni, avvennero numerose privatizzazioni.
Ma poi la vendita si fermò per mancanza di acquirenti all’altezza. E’ toccato a chi scrive ricevere copia di tre lettere di Beneduce a Mussolini che Enrico Cuccia conservava nel cassetto della sua scrivania in Mediobanca e talvolta sventolava davanti ai suoi interlocutori.
Documenti che mancano al fondo Iri presso l’Archivio di stato e che, suppongo, costituiscano un regalo di Pasquale Saraceno al banchiere. Queste lettere danno conto delle riunioni dei vertici dell’Iri con Agnelli, Valletta, Pirelli, Motta e Cini sui destini della Sip, la Società idroelettrica piemontese.
L’Iri l’aveva posta in vendita. I privati chiesero una dote di 700 milioni di lire e Agnelli, a parte, pretendeva pure la Gazzetta del popolo per realizzare, avendo già avuto dal fascismo La Stampa, il monopolio dell’informazione torinese.
Beneduce, che sapeva far di conto, consiglio’ a Mussolini di lasciar perdere e questi – me lo raccontò Francesco Cossiga attribuendo la cosa al suo amico Cuccia, che l’avrebbe appresa da Saraceno – concluse con uno stentoreo: “Non diamogli niente; questi grandi industriali non se la meritano: sono solo dei gran coglioni!”. Sono passati 72 anni da quell’episodio, eppure la storia si ripete. Negli anni Novanta, un numero troppo alto di imprese privatizzate è finito a industriali italiani che, in tal modo, volevano diversificare i propri investimenti distogliendo risorse monetarie e intellettuali dal core business e non di rado esagerando con la leva del debito. Buona parte, poi, degli imprenditori che meritoriamente hanno comprato imprese pubbliche per crescere nel loro settore – è il caso della siderurgia – hanno fallito. E da ormai un lustro ogni volta che viene posta sul mercato dei diritti di proprietà una grande impresa italiana nessun investitore italiano si fa avanti. Per carità di patria, risparmio l’elenco. E però non vorrei sentire citare, come strepitoso contraltare nazionale, la vicenda Fiat-Chrysler, storia di grande successo per gli azionisti, assai meno, finora, per il paese, basti guardare alle case automobilistiche americane e tedesche.
Il fatto è che le famiglie imprenditoriali descrivono tutte una loro parabola la quale, presto o tardi, si conclude con la cessione dell’azienda o della partecipazione di controllo.
In questa fase storica, il testimone non può venire rilevato da altre famiglie se la dimensione è davvero grande. Ma nemmeno da banche e assicurazioni, perché il Testo unico bancario del 1993, che aveva anche questo tra i suoi obiettivi, è stato via via svuotato dagli accordi di Basilea. E Solvency 2 ha terminato l’opera con le compagnie. Si tratta di accordi multinazionali ed extraparlamentari, fatti da burocrazie autoreferenziali, senza volto e senza responsabilità né politiche né patrimoniali, le stesse che, pur essendo preposte alla sorveglianza dei mercati, non avevano intercettato la crisi finanziaria del 2007-2008. E gli investitori istituzionali? I fondi comuni sono ormai un sono ormai un equivoco che non porta veri denari alle imprese ma, in compenso, dà luogo a un centro di potere opaco com’è Assogestioni. (Grazie al record day, una follia dei nostri tempi, i fondi votano anche senza avere le azioni depositate in assemblea; Assogestioni, pur rappresentando niente in termini di capitale investito in azioni italiane, orienta il voto dei fondi esteri e rischia di vincere le assemblee…).
La Borsa estrae risorse dalle società quotate più di quante ve ne faccia confluire.
Ecco perché parlo di Tradimento del Capitale più che insistere nella polemica, ormai stucchevole e datata, sul tradimento dei capitalisti.
Sulla carta, dunque, all’Italia resterebbe lo stato azionista. Ma lo stato italiano presenta oggi tre deficit drammatici.
Primo, i governi non hanno mai elaborato il lutto dell’Iri e non possiedono la cultura dello stato azionista moderno che, invece, ha dimostrato di possedere perfino la Casa Bianca di fronte agli effetti della crisi di Wall Street sull’industria automobilistica americana. Tirano per la giacca ogni giorno la Cassa depositi e prestiti senza capirne granché. Secondo, i governi hanno smantellato le tecnostrutture in grado di svolgere il lavoro sofisticato di holding di partecipazioni. Il servizio Partecipazioni del ministero dell’Economia e’ debole.
La Cassa depositi e prestiti non ha mandato. Peggio, l’idea di togliere al ministero dell’Economia la competenza sulle nomine per attribuirla a Palazzo Chigi rivela che di una seria tecnostruttura non si sente nemmeno l’urgenza. Ai vertici delle aziende pubbliche non mancano bravi manager, ma dove sono i Beneduce, i Menichella, gli Oscar Sinigaglia, gli Agostino Rocca, i Reiss Romoli, i Di Veroli, i ministri come Jung, che avevano anche un’idea di paese e allora portarono la rivoluzione manageriale nelle imprese riempiendo di contenuto gli indirizzi fatalmente generici del Duce? Il terzo deficit è il più visibile perché riguarda il capitale. I vincoli di finanza pubblica soffocano l’idea stessa di uno stato azionista. A meno che, avendo fatto le scelte culturali del caso, non si tentino strade nuove. Con il voto maggiorato nelle assemblee sociali, la soglia dell’Opa obbligatoria al 25 per cento e, magari, una sana controriforma del record day, lo stato potrebbe conservare il controllo delle imprese dove lo ritiene necessario ma, al tempo stesso, smobilizzare una parte cospicua delle sue partecipazioni.
In tal modo, costituirebbe una dotazione finanziaria di alcune decine di miliardi con la quale reagire in questa fase storica, domani si vedrà, al Tradimento del Capitale.
Non mancherà la reazione ragionieristica dove non bastesse l’arroccamento veteroliberista che, peraltro, chiude gli occhi sulla nazionalizzazione di Edison e Pirelli a opera di stati esteri: ma i dividendi che oggi Eni, Enel e compagnia pagano al Tesoro?
Certo, in prima battuta verrebbero in parte meno. Ma lo stato che torna a fare il Salvatore di imprese malmesse da restituire poi al mercato, mi pare guardi al futuro. E allora più coerenza intellettuale e più respiro strategico: perché vendere il 5 per cento dell’Enel per fare cassa anziché venderne il 15-18 per cento per un grande progetto?

→  marzo 24, 2015


Intervista di Federico De Rosa

La scelta di China National Chemical Corporation «era la migliore per la Pirelli». Marco Tronchetti Provera lo aveva capito tre anni fa, quando ha incontrato per la prima volta Ren Jianxin, e adesso che è stata avviata la svolta, con la firma degli accordi che sanciscono l’alleanza, è soddisfatto per essere riuscito ad assicurare il futuro del gruppo milanese imbarcando un socio con le spalle larghe e un accesso privilegiato a un mercato sterminato. «Cuore e testa resteranno in Italia» assicura Tronchetti, al quale il nuovo socio cinese ha chiesto di rimanere alla guida per altri cinque anni insieme all’attuale management. «ChemChina – racconta – si è dimostrata molto aperta nel considerare un valore il radicamento di uomini e tecnologie in Italia, valore che è stato garantito con apposite clausole negli accordi».

Eppure c’è chi lamenta che l’Italia ha perso un pezzo pregiato della sua industria
«Questa è un’operazione che rende Pirelli più forte, ne ribadisce il radicamento e rafforza il ruolo del management. Continuiamo a guidare noi, portando avanti i piani di sviluppo stabiliti e senza alcun rischio per l’occupazione, né in Italia né negli stabilimenti esteri».

Qualcuno si è chiesto se il Fondo strategico o F2i non potessero rappresentare delle alternative per tenere Pirelli italiana.
«Non ha molto senso in questo caso invocare l’intervento di fondi pubblici per garantire l’italianità. Uomini, tecnologie e sede in Italia sono garantiti dagli accordi e il partner cinese ci rafforza in un mercato enorme».

I sindacati dicono che se in Italia ci fosse stata una politica industriale Pirelli non avrebbe scelto un partner cinese.
«Mi preoccupano certi sussulti che sanno di antico. La vera politica industriale si fa creando le condizioni per attrarre investimenti, che creano posti di lavoro, dando spazio alla formazione e allo sviluppo di tecnologie per far leva sulle eccellenze che fortunatamente ancora esistono nel Paese. Se guardo fuori dall’Italia vedo che le case automobilistiche vanno a produrre in Gran Bretagna, in Germania e in Spagna. Solo ultimamente, per fortuna, Fca ha ripreso a creare posti di lavoro. Perché queste difficoltà in Italia? La risposta non può essere certo un nazionalismo di maniera che parla in modo superficiale di politica industriale».

E la sua risposta qual è?
«In Italia è mancato un progetto per il futuro dell’industria. Oggi abbiamo la possibilità di diventare il Paese delle opportunità per gli italiani e gli stranieri. Se abbiamo perso competitività per molti anni è proprio perchè le scelte di politica industriale del passato hanno impoverito il Paese. Per decenni abbiamo sentito dire che piccolo è bello, ma il piccolo per crescere ha bisogno della dimensione, che porta a ragionare in grande tutti gli attori del mercato creando una società più aperta. L’Italia invece non ha creato le condizioni per attrarre i grandi e per far crescere le aziende medie. Quando un’azienda decide di uscire dall’Italia ci si dovrebbe chiedere perché. Certo, a pensarci i “lacci e lacciuoli” invocati da Guido Carli, erano nulla. Oggi c’è un nodo gordiano, di cui ha beneficiato chi conosceva le scorciatoie per evitare i nodi e la corruzione è dilagata. Troppo spesso, di fronte a un problema, si è fatta una nuova legge senza guardare a quelle che andavano eliminate perché la nuova potesse funzionare. E tutto è diventato sempre più complesso».

Questo governo ha visione di politica industriale?
«Ha lo sguardo giusto sul mondo e l’agenda giusta. Il Jobs act è un atto di vera politica industriale».

Renzi era stato messo al corrente che stava negoziando con ChemChina. Ci sono state interferenze?
«Nessuna. Alla vigilia della firma ho spiegato al premier il progetto industriale. Ha colto che per Pirelli è una grande opportunità».

Perché proprio ChemChina?
«Abbiamo scelto ChemChina perché non c’è sovrapposizione e ci consente di avere un accesso diretto al mercato cinese dei pneumatici giganti. La nostra intenzione era di stabilizzare il segmento “industrial” che in Pirelli ha una dimensione non ottimale. Il futuro per questo mercato, e non solo, è l’Asia e dunque è lì che stavamo guardando. Pirelli ha la tecnologia, prodotti competitivi e una redditività elevata, che potrà dare valore grazie anche alla capacità produttiva e alla presenza sul mercato di Aeolus (la controllata di ChemChina negli pneumatici, ndr ). Raddoppiamo da subito la produzione. A fianco di questo proseguirà la strategia di sviluppo nel segmento premium, che ha una crescita tripla rispetto al consumer, e in cui abbiamo investito molto in questi anni aprendo nuove fabbriche. Il mio compito sarà occuparmi del processo di riorganizzazione, rendere Pirelli più forte e solida e creare i presupposti per la continuità costruendo il percorso di successione».

Successione che slitta al 2021. Ha già individuato chi la sostituirà?
«In Pirelli sono importanti due caratteristiche: visione e capacità di gestione e oggi ci sono tante persone capaci nel gruppo. Io farò ciò che è utile all’azienda perchè continui su questo percorso, avendo il dovere, e in base agli accordi anche il diritto, di indicare il mio successore».

Cosa cambia adesso nell’alleanza in Russia?
«Pur diventando cinese il primo azionista, gli accordi in Russia sono tutti confermati. La Russia è importante per il mercato dei prodotti “winter” ed è diventata una base produttiva molto competitiva».

I soci di Camfin venderanno o resteranno?
«Chi crede nel progetto ci seguirà in questo nuovo tratto di viaggio della Pirelli. Al momento tutti hanno deciso di proseguire».

Lei però non sarà più presidente della Pirelli in questo viaggio. Le dispiace?
«Mi fa sentire più giovane. Dopo una certa età diventano tutti presidenti».

→  marzo 8, 2015


di Eugenio Scalfari

IL NOSTRO Lucio Caracciolo, direttore del prestigioso Limes e nostro collaboratore, cita una parola molto efficace: democratura, che nasce dalla fusione tra democrazia e dittatura e con essa definisce la Russia di Putin: c’è il demos, cioè il popolo e c’è Putin che comanda da solo. Il Parlamento, cioè la Duma, non conta niente, si limita a ratificare. Neppure il governo conta, serve solo a trasmettere alle province dell’Impero gli ordini del dittatore e a farli eseguire dalla burocrazia. Alcuni ministri invece, insieme a Putin, al capo dei Servizi di sicurezza e qualche grande manager economico, costituiscono l’oligarchia, il gruppo che, guidato da Putin, amministra l’Impero.

Questa democratura esiste ed è sempre esistita in tutti gli Imperi, nei quali bisogna amministrare una grande quantità di diverse etnie, diversi linguaggi, diverse culture ed economie. Nel presente di oggi lo troviamo in Cina, in Giappone, in Usa. In Europa no perché l’Europa non è uno Stato. I vari statarelli conservano ancora una democrazia più o meno solida. Ma la tentazione verso la democratura in alcuni di essi è abbastanza forte. Diciamo che la democrazia è difficile da conservare negli Imperi e negli statarelli la tentazione esiste ma di solito non si realizza. Per fortuna, perché ove mai si verificasse diventerebbe una tirannide vera e propria.

***
Matteo Renzi, con quella mobilità e quell’intelligenza tattica che lo distinguono è andato nei giorni scorsi prima a Kiev e il giorno dopo a Mosca. Ovviamente ha recitato due diverse parti in commedia: con Poroshenko ha promesso che avrebbe sostenuto l’autonomia sovrana dell’Ucraina nel suo incontro del giorno successivo. A Putin ha detto che le sanzioni dovrebbero essere abolite da entrambe le parti in causa (Russia e alleanza euroamericana) e che bisognava pacificare gli animi e i cannoni. Ha accennato ad una soluzione del tipo Alto Adige per le province russofone dell’Ucraina e poi ha cambiato argomento chiedendo a Putin di sostenere nel Consiglio di Sicurezza dell’Onu una missione navale che controllasse l’emigrazione verso la costa europea del Mediterraneo mentre la stessa Onu avrebbe dovuto nominare un negoziatore molto autorevole e possibilmente italiano che realizzasse la pacificazione tra le tribù della Libia.

Putin ovviamente ha dato le più ampie rassicurazioni per quanto riguardava la Russia nel Consiglio di Sicurezza. Poi il discorso si è spostato sui rapporti economici italo-russi e lì c’era una nostra delegazione di imprese e i suoi interlocutori russi che hanno per una giornata intera studiato gli incentivi affinché la collaborazione economica fosse ampliata e rafforzata. Insomma un incontro positivo, almeno a parole. I fatti dovrebbero vedersi presto perché il tempo non è affatto disponibile.

***

Poi il nostro presidente del Consiglio è tornato a Roma e la sua prima uscita è stata quella di avvertire i dissidenti del Pd che la legge elettorale non sarebbe stata modificata neppure di una virgola e così pure la riforma del Senato. E guai se qualche parlamentare del Pd non osserverà la disciplina di partito. Non si può dire che affiori in queste parole la tentazione verso la democratura, ma insomma qualche passo in quella direzione si sta compiendo. Probabilmente avviene in modo inconscio ed è quindi l’inconscio che gioca la sua partita, ma in politica esso può fare a volte danni irreparabili.

***

Domani la Bce comincerà a comprare titoli e obbligazioni pubbliche nei vari Paesi dell’Eurozona e soprattutto in Italia ed in Spagna. Qualche critico nei confronti di Mario Draghi ha osservato che il suo è un intervento tardivo, ma forse dimentica che analogo intervento in tema di liquidità fu compiuto nel 2012 per un importo totale di mille miliardi di finanziamento in gran parte destinato alle banche ordinarie dell’Eurozona. Questa volta l’intervento avviene sul mercato secondario e riguarda soprattutto titoli dei debiti sovrani dei vari Paesi. Alla domanda rivolta a Draghi da un giornalista tedesco che gli ha chiesto se il 20 per cento di questi titoli che saranno acquistati direttamente dalla Bce sarebbe stato trasformato in bond dell’Unione europea, Draghi ha risposto che riteneva questa operazione altamente improbabile. Certamente sarà così, il che non toglie che quei titoli si troveranno nel portafoglio della Bce. Ce ne sono sicuramente già molti in quel portafoglio e il nuovo lotto si aggirerà sui 240 miliardi di euro, cifra non certo trascurabile. Non si trasformeranno in bond europei ma stanno nella cassa-titoli di un’istituzione europea della quale sono azionisti i Paesi dell’Eurozona. Se non è zuppa è pan bagnato.

La nostra economia ed il nostro governo trarranno molti benefici effetti dal quantitative easing della Bce: un forte incentivo alle esportazioni, una liquidità del sistema bancario destinata a finanziare le imprese, una discesa dei tassi di interesse delle banche ai privati e infine la diminuzione degli oneri che il Tesoro deve pagare per l’emissione di nuovi titoli del debito pubblico. Si aggiunga a tutto ciò anche l’acquisto diretto della Bce di obbligazioni emesse da imprese pubbliche e private con tassi di interesse in discesa per finanziare una ripresa di investimenti.

Questo vasto programma di interventi avrà soprattutto il risultato di modificare verso l’ottimismo le aspettative e quindi di fare aumentare investimenti e consumi. Questo è il regalo che Draghi farà all’Europa e in particolare all’Italia, alle imprese e ai lavoratori. È auspicabile che Renzi dica un grazie collettivo alla Bce e alla Banca d’Italia che comprerà l’80 per cento della liquidità messa in campo dal sistema Bce. Al nostro governo spetterà di trasformare questo beneficio in una forte ripresa di interventi pubblici che provochino l’aumento delle scorte, degli investimenti e quindi dell’occupazione, giovanile e nel Sud in particolare.

***

Ma Renzi non riceverà soltanto i benefici che gli provengono dalla Bce. Ce n’è un altro che riguarda la persona stessa del nostro presidente del Consiglio: l’Europa non vuole a nessun patto una crisi politica in Italia che produca la caduta del governo attuale. Una crisi del genere in un Paese dove il debito pubblico è uno dei più grandi del mondo, riporterebbe le aspettative dall’ottimismo al pessimismo e sconvolgerebbe i mercati vanificando in gran parte gli interventi della Bce.
Quindi Renzi e il suo governo sono inamovibili. Per lui è una polizza d’assicurazione fantastica; almeno fino al 2016 è assicurata la sua inamovibilità. Del resto non ci sono alternative nella politica italiana in generale ed anche dentro il Pd. Forse nel Pd del 2016 sarà emersa la figura di un altro leader che possa costruire un partito di sinistra in luogo del partitone che Renzi ha messo al centro della politica italiana. E forse si starà profilando una nuova destra che non sia quel nanerottolo guidato da Alfano.

Ma da qui ad allora la tentazione della democratura si farà sempre più forte ed è questo che si deve evitare. Alla Germania, alla Francia, alla Spagna ben poco importa, ma a noi italiani, o almeno a quelli consapevoli e motivati alla difesa dei diritti che abbiamo e del dovere di difendere la democrazia, importa moltissimo. La scelta spetta a Renzi e all’oligarchia che gli sta accanto. Non può continuare a spogliare il potere Legislativo e avviarsi verso un Esecutivo accentratore, dove non contano neppure i ministri ma piuttosto lo staff di Palazzo Chigi. I ministri ormai contano molto poco, le leggi si preparano tutte alla presidenza del Consiglio e poi vanno in commissione e in aula e lì si debbono votare per disciplina. È giusto se non sono passi ulteriori verso la democratura. Altrimenti vanno fermati nell’interesse generale del Paese.

Nel frattempo la Ue ha deciso di inviare in Iran un rappresentante al massimo livello per discutere con le Autorità iraniane i gravi problemi esistenti in Iraq e in Siria a causa delle stragi operate dal Califfato. Spettava dunque alla Mogherini andare a Teheran con quella missione ma l’alto rappresentante della politica estera europea ha ceduto il suo posto alla signora Catherine Ashton che l’aveva preceduta in quella carica da lei ora occupata ma è rimasta per decisione della Mogherini sua consulente particolare. A Teheran dunque sarà la signora Ashton ad andare perché la Mogherini così ha deciso. Che saggezza, che spirito di squadra. Dove la si trova un’altra così?

→  marzo 8, 2015


by Robert Rosenkranz

The economist’s book caused a sensation last year, but now he says the redistributionists drew the wrong conclusions.

‘Capital in the 21st Century,” a dense economic tome written by French economist Thomas Piketty, became a publishing sensation last spring when Harvard University Press released its English translation. The book quickly climbed to the top of best-seller lists, and more than 1.5 million copies are now in circulation in several languages.

The book’s central proposition, that inequality in capitalist societies will inevitably grow, can be summed up with a simple equation: r>g. That is, the return on capital (r) outpaces the growth rate of the economy (g) over time, leading inexorably to the dominance of inherited wealth. Progressives such as Princeton economist Paul Krugman seized on Mr. Piketty’s thesis to justify policies they have long wanted—namely, very high taxes on the wealthy.

Now in an extraordinary about-face, Mr. Piketty has backtracked, undermining the policy prescriptions many have based on his conclusions. In “About Capital in the 21st Century,” slated for May publication in the American Economic Review but already available online, Mr. Piketty writes that far too much has been read into his thesis.

Though his formula helps explain extreme and persistent wealth inequality before World War I, Mr. Piketty maintains, it doesn’t say much about the past 100 years. “I do not view r>g as the only or even the primary tool for considering changes in income and wealth in the 20th century,” he writes, “or for forecasting the path of inequality in the 21st century.”

Instead, Mr. Piketty argues in his new paper that political shocks, institutional changes and economic development played a major role in inequality in the past and will likely do so in the future.

When he narrows his focus to what he calls “labor income inequality”—the difference in compensation between front-line workers and CEOs—Mr. Piketty consigns his famous formula to irrelevance. “In addition, I certainly do not believe that r>g is a useful tool for the discussion of rising inequality of labor income: other mechanisms and policies are much more relevant here, e.g. supply and demand of skills and education.” He correctly distinguishes between income and wealth, and he takes a long historic perspective: “Wealth inequality is currently much less extreme than a century ago.”

All of this takes the wind out of enraptured progressives’ interpretation of Mr. Piketty’s book, which embraced the r>g formulation as relevant to debates playing out in Congress. Writing in the New York Review of Books last May, for example, Mr. Krugman lauded the book as a “magnificent, sweeping meditation on inequality.” He wrote that Mr. Piketty has proven that “we haven’t just gone back to nineteenth-century levels of income inequality, we’re also on a path back to ‘patrimonial capitalism,’ in which the commanding heights of the economy are controlled not by talented individuals but by family dynasties.”

The r>g formulation always struck me as unconvincing. First, Mr. Piketty’s definition of r as including “profits, dividends, interest, rents, and other income from capital” conflates returns on real business activity (profits) with returns on financial assets (dividends and interest).

Second, it ignores the basic rule of economics that when supply of capital increases faster than demand, the yield on capital falls. For instance, since the great recession, the money supply has grown far more rapidly than the real economy, driving down interest rates. Returns on government bonds, the least risky asset, are now close to zero before inflation and negative 1% to 2% after inflation. In today’s low-return environment, with the headwinds of income and estate taxes, it becomes a Herculean task to build and transmit intergenerational wealth.

Many mainstream economists had reservations about Mr. Piketty’s views even before he began walking them back. Consider the working paper issued by the National Bureau of Economic Research in December. Daron Acemoglu and James A. Robinson, professors at the Massachusetts Institute of Technology and Harvard, respectively, find Mr. Piketty’s theory too simplistic. “We argue that general economic laws are unhelpful as a guide to understand the past or predict the future,” the paper’s abstract reads, “because they ignore the central role of political and economic institutions, as well as the endogenous evolution of technology, in shaping the distribution of resources in society.”

The Initiative on Global Markets at the University of Chicago asked economists in October whether they agreed or disagreed with the following statement: “The most powerful force pushing towards greater wealth inequality in the U.S. since the 1970s is the gap between the after-tax return on capital and the economic growth rate.” Of 36 economists who responded, only one agreed.

Other critics have questioned the trove of statistical data Mr. Piketty assembled to chart trends in income and wealth in the U.S., U.K., France and Sweden over the past century. Are such diverse data comparable, and have the adjustments that Mr. Piketty introduced to make them comparable distorted the final picture?

After an extensive review, Chris Giles, the economics editor of the Financial Times, concluded in May last year that “Two of Capital in the 21st Century’s central findings—that wealth inequality has begun to rise over the past 30 years and that the U.S. obviously has a more unequal distribution of wealth than Europe—no longer seem to hold.”

Mr. Piketty is willing to stand up and say that the material in his book does not support all the uses to which it has been put, that “Capital in the 21st Century” is primarily a work of history. That is certainly admirable. Now it is time for those who cry that we are heading into a new gilded age to follow his lead.